Editing Naples

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Giovanni Tarcagnota, Del sito et lodi della città di Napoli, con una breve historia degli re suoi et delle cose più degne altrove ne’ medesimi tempi avenute, in Napoli, appresso Giovan Maria Scotto, 1566.

[1r] Fra le molte cose che nascono, serenissimo Principe, dall’ingegno et dalla mano dell’huomo, non tengo io per picciola i grandi edificii, anzi le città istesse, che se ne veggono uscire. Percioché, non solamente, secondo a me pare, questi edificii li fanno perché gli huomini, che sono di loro natura sociabili, vivano commodamente insieme, ma per imitare ancho in parte nelle loro operationi il superno architetto, che la maravigliosa machina di questo cielo che ci volge continovamente intorno con tanta vaghezza et ordine fabricò. Egli fu bella inventione certo quella di colui, [1v] chi che si fosse (perché di molti si dice), che trasse dalle selve et dalle caverne gli huomini a vivere insieme per le ville et per le città. Ma non men degni di lode sono quegli altri che mostrarono poi come si potessero et dovessero le belle città bene ordinate et di magnifichi edificii adorne fabricare; benché penso io che di tempo in tempo, come di tutte le cose aviene, a questa ultima vaghezza di edificii si venisse, et di ordine così d’istinto come poscia si vide. Percioché, bastò, come si dee credere, da principio havere commode stanze per habitarvi, et per lo culto divino i tempii et le mura intorno per menarne più secura et più riposata vita. Poi vi volsero i portici per passeggiarvi o sedervi, et perché dalle pioggie et dall’ardente sole li difensasse. Vi volsero i theatri et le therme: quelli per starvi in festa, queste per la monditia et politezza del corpo. Et per la magnificentia et decoro publico si fecero talvolta vestire di lontanissime contrade i meravigliosi obelisci, le gran colonne et, con queste, i colossi gigantei con le altre tante statue, che per ornamento più che per necessità come vaghissimi fregi per varii luoghi delle città collocarono et dirizzarono.

Fu già Roma di tutte queste magnificentie compiutamente adorna, et se ne lasciò di gran lunga a dietro tutte le altre città che hebbero mai, sopra la terra, grido di singolare eccellentia; non altramente che ella, ancho col valore de’ suoi cittadini, il suo imperio ampliò più di quello che altro popolo fa[2r]cesse mai. Ma questa, essendo col volgere degli anni da quel suo maschio valore degenerata, fu dalla rabie de’ barbari quasi del tutto estinta. Ve ne sono poi sorte delle altre nove, et delle antiche alcune altre nobilitate. Fra le quali non è questa città di Napoli di poco grido, poiché ella ha quasi tutte quelle rare et singolari parti che possa et debba havere ogni nobile et pregiata città. Delle cui lodi et particolari ornamenti havendone, pochi dì sono, sentito ragionare a lungo in una conversatione di cavallieri, dove io per mia buona sorte presente mi ritrovai, et havendo quel ragionamento, perché oltre modo mi piacque, posto per mia sodisfatione in carta apunto come passò con animo di darlo in luce, a fine che il mondo tutto conosca et vegga che con gran ragione in questa così bella città concorrono le genti da ogni parte per vederla et per goderla, ho voluto a Vostra Altezza dedicarlo et drizzarlo, sì perché come a mio vero signore alla usanza antica di Persia li comparisca con qualche duono avanti, anchorché picciolo et di poco pregio, come ancho perché Ella si rallegri et glorie di essere signore di una così bella et compiuta città, quale è questa, alla quale, come Ella vedrà, donarono questi cavallieri tante et così vere lodi.

Ma perché Vostra Altezza vegga come di presente coloro che ragionarono, et come apunto si ragionò, ho nella medesima guisa questi ragionamenti distesi che essi passarono, facendo quegli istessi cavallieri ragionare et dire quanto sopra questa materia si disse. [2v] Percioché, havendo una matina il signor don Geronimo Pignatello per sua ricreatione et diporto chiamati seco a desinare familiarmente in una di queste ville del monte che soprasta alla città alquanti cavallieri suoi amici, volle che in una loggietta isfinestrata, perché era una giornata amenissima, si mangiasse. Et essendosi, doppo levate le tavole, ritirati gli altri, chi a giuocare a tavole o a schacchi, chi a passeggiare, chi a vedere le altre stanze et il giardino di quella villa, restarono nel medesimo luogo, dove mangiato si era, col signor don Geronimo il signor don Fabritio suo fratello et il signor don Giovanni d’Avalos. Et essendosi riposati alquanto, perché da quella loggietta si vedeva il mare et la città tutta come se le fossero stati sopra, il signor don Geronimo, volto verso gli altri con una certa maraviglia, incominciò in questo modo a dire.

Don Geronimo. Vedeste mai per vita vostra la più bella prospettiva di questa? Se si vedesse ritratta in uno di questi quadri di Fiandra, chi non direbbe che questa fosse la più delicata cosa del mondo? Gode la vista nostra se ella vede una casa sola, che bella sia; si ricreano gli spiriti, se in un solo verdeggiante albero risguardiamo; l’animo si ravviva ogni volta che l’occhio alle tranquille et placide onde del mare si volge. Or quanto più et la vita et gli spiriti et l’animo si ricreano, si rallegrano et gioiscono mirando in un medesimo tempo tanti et così grandi edificii, quanti et quali [3r] noi hora veggiamo, et insieme tante amene colline di tante et così vaghe et fiorite piante vestite, et il mare medesimamente così tranquillo? Questa è una vista a gusto mio dilettevolissima et giocondissima.

Don Giovanni. Bellissima, certo. Ma non minore giocondità si sente, quando dentro la città istessa si veggono in particolare i bei palagi, le ornate chiese, i magnifici seggi, le fresche fontane et le strade da tanta cavalleria et da così honorato popolo frequentate.

Don Geronimo. Veramente che non è poco piacere cavalcare per la città, et vedere le tante cose che hora voi dite: ma lo strepito et la confusione delle genti toglie gran parte di quel diletto. Il che qui hora a noi non aviene, che con ogni nostra quiete di animo godiamo di questa generale et gioconda vista, quale io poco avanti essere diceva. Miriate un poco di gratia, et discorriate meco in particolare questo bel sito della città. Vedete come è egli maraviglioso, et quasi fatto studiosamente tale dalla natura. La città è situata et formata, come vedete, a guisa di un bel theatro, insieme con questi ameni colli che alle spalle le sono, et che la circondano da questa parte. Da mezzo dì ha poi il mare, che vagamente le si ingolfa, come vedete. Ha da questa altra parte il Monte di Santo Hermo, che le soprasta da Occidente. Et dall’altra parte, onde esce il sole, ha le sue fiorite campagne che sino al Monte di Somma si stendono. Dalla parte [3v] della marina la città è piana, et, secondo a me pare, se ne è una buona parte rubata al mare. Indi, nel resto della città si monta: ma sono le colline, sulle quali ella è posta, in modo depresse et humili che così soavemente vi si monta che non si sente.

Don Fabritio. Questa bella forma di semicircolo, che fa la città co’ colli et con la curvità istessa del sito, si vede assai chiaramente da chi sopra un legno si ritirasse sul porto in mare.

Don Geronimo. Voi dite il vero; et non solamente la forma se ne vede che noi diciamo, ché ancho la grandenzza et bellezza di lei si scorge. Et benché a chi ha occhi in testa o non ha in tutto il giudicio perso non sia necessario addur pruove sopra la eccellentia et vaghezza di questa città, che così apertamente si vede, pure a me giova, poiché entrati in questo ragionamento siamo et ci ritroviamo ogni modo otiosi, di farlo hora col testimonio di Plinio più aperto et chiaro.

Eli fu questo savio scrittore lombardo, come sapete, et nato in non mica selvaggia patria; et nondimeno, quando egli descrivendo la terra habitata ne viene a ragionare di Terra di Lavoro, tanto celebra questa felice contrada che dice che si rallegra et seco stessa la natura gioisce di haverla fatta così fertile et così amena; et che qui Bacco et Cerere contendono insieme sopra la eccellentia et bontà de’ frutti, de’ quali loro la inventione si attribuisce. Vedete che parole questo autore giudiciosissimo et senza passione, per essere straniero, ne dice. Ora, se di questa amenissima contrada la città di Napoli, [4r] che le è quasi posta nel mezzo, è la più vaga, la più piacevole et la più delitiosa parte di lei, ben si può conchiudere et dire che ella sia una delle più amene et più felice città che habbia tutta la terra habitata. Et a questo argomento della sua amenità, tirata in consequentia dalle parole di Plinio, voglio io questo altro aggiungervi: che ella nel resto è tale che non solo non cede a qualsivoglia altra, ma le eccede ancho tutte in tutte quelle qualità che possono più una città nobilitare. Percioché, lasciando da parte la vaghezza del sito, della quale noi raggioniamo, et le tante delitie che a gara ha qui la natura in gratia de’ suoi habitatori cumulate, in quale città vedete voi tanta nobiltà, tanta cavalleria, tanta copia et varietà, et in somma perfetione, di tutte le cose che servono et giovano alla vita nostra, quanto in questa si vede?

Don Fabritio. Non è stato argomento debile il Vostro, signor don Geronimo. Percioché questo autore fu, come voi dite, giudiciosissimo, et quella lode che detta havete non dà egli ad altro luogo particolare di tanti che ne descrive come fa a questo. Et veramente che così è come egli dice. Onde a me pare che non per altro favoleggiassero gli antichi che in questo golfo o in questa terra vivessero le sirene, le quali col soavissimo lor canto forzavano i forastieri a restarvi, se non perché la amenità grande della contrada invesca agevolmente gli animi di chi, una volta la gusta, a dovere continovarvi la stanza per potere compiutamente goderne. [4v] Anzi, come sapete, dal nome di una di queste sirene ne fu già questa città chiamata Partenope. Non havete voi letto medesimamente quello che presso gli antichi scrittori si legge di questo bel golfo: cioè che il semicircolo che esso fa, andando con le sue punte a finire da una parte a Miseno, dall’altra al Capo di Minerva, che ha l’isola di Capre a fronte, fu già talmente pieno di ville, di palagi et di altri varii edificii che non molte, ma una sola città, tutto questo habitato del semicircolo pareva. Et Napoli era, come vedete, quasi nel mezzo. Et questo golfo, così bene per tutte le sue riviere habitato, chiamarono Cratere per la somiglianza che parea che egli havesse con una bella et bene ornata tazza nelle sue sponde et di puro liquore piena.

Don Giovanni. Non è neancho al parer mio picciolo argomento della grandezza et eccellentia di questa città l’havere da lei tutto il Regno il nome tolto: quello che di molti altri regni non si vede essere fatto. Percioché, né Spagna, né Francia, né Inghilterra, né Ungheria, né Polonia hanno città alcuna dalla quale prenda il nome alcuno di questi regni.

Don Geronimo. Questo nome di Regno di Napoli non è egli molto antico, se io non mi inganno. Et parmi che sia qui quello avenuto che del Regno di Granata si dice, che, reducendosi in regno (quel che non era prima), dalla città principale prendesse il nome. I Normanni, che primieramente tolsero a’ Greci, che ne erano signori, molti luoghi di [5r] questa parte d’Italia, si fecero chiamare prima Conti di Puglia. Roberto Guiscardo, poi Normanno medesimamente, et che fu valorosissimo cavalliere, et cacciò non solamente quasi afatto i Greci da tutta questa parte d’Italia che possedevano, ma i Saraceni ancho dalla isola di Sicilia, si fé chiamare Duca di Puglia et Calabria et Conte di Sicilia. Né passò molto tempo, che havendo Ruggiero suo nepote havuto da Innocentio II ancho Napoli, che era fino a quel tempo stata all’imperio di Greci soggetta, ottenne poco appresso da Anacleto antipapa, che fu con questo stesso Innocentio nel medesimo tempo, il titolo di re di amendue le Sicilie, che li fu poi da altri pontefici confirmato. Et da alhora in poi fu questo chiamato il Regno di Sicilia di qua dal faro, finché in tempo di Carlo Primo con quel famoso Vespro Siciliano fu da quel di Sicilia diviso. Onde alhora crederei io che, quel primo nome perdendo, da questa città che era così principale il nome che fino ad hoggi le dura prendesse. Ma le molti lodi che a questa felice città date habbiamo vengono da una sua particolare alterezza quasi macchiate. Percioché, et in Roma et in altri luoghi d’Italia, tosto che vi sia alcuno per napolitano conosciuto, non bene il risguardano; et se non è persona di qualità, fugono ancho di conversarvi. Il che non aviene egli per altro, se non perché i costumi di questo popolo sono ordinariamente alquanto altieri, et perciò agevolmente odiosi. Che seben questo è segno di generosità di [5v] animo, con l’uso lungo, nondimeno, che vi si han fatto a tanta licentia, talvolta ne passano che a’ costumi placidi delle altre contrade d’Italia generano facilmente stomacho. Et se mi dite che questo non solamente di napolitani, ma di tutti i regnicoli aviene medesimamente, vi rispondo che questo non nasce per conto di essere regnicolo, ma perché ognun di questi, chiunque egli si sia, si fa tosto napolitano. Et dove egli crede avanzare et farsi più nobile col nome di così bella patria, ne diventa ad un certo modo odioso.

Don Giovanni. Vi è ancho ogni modo la somiglianza de’ costumi che hanno gli altri popoli del Regno con questo nostro, col quale continovamente conversano et varii negotii trattano. Ma chi vuole questa differentia de’ popoli, che voi dite, vedere, consideri un poco et miri come in Roma ogni mille anni una volta si vede fare homicidio, o che alcuno vi sia per giustizia fatto morire, là dove in Napoli ogni hora, nonché ogni dì, si veggono infiniti disordini, assalti, ferite et morti; et, con la tanta diligentia et giustitia che la Vicaria del continovo ne fa, non vi si può in modo alcuno rimediare.

Don Geronimo. Io non parlava hora tanto degli eccessi, che voi mi dite, quanto di un certo procedere altiero che essi fanno in tutte le cose loro. Il quale costume non è gran fatto che sia poi così poco accetto a chi è a più benegna et riposata vita avezzo. Quello poi che dite voi degli eccessi, così è vero come voi dite. Percioché, come uscito dal Regno, si va se[6r]curo et con l’oro in mano, come si dice, per tutto; così non si può per luogo alcuno del Regno andare securo né della vita, né della borsa. Et piacesse a Dio che la mia bella Napoli, come è di tante altre eccellentie dotata, così fosse ella ancho co’ luoghi intorno da questo biasmo lontana. Et io per me voglio, con Strabone, credere che non per altra cagione que’ savii antichi favoleggiarono che i giganti ne’ Campi Flegrei guerreggiassero il cielo et cercassero di cacciare Giove di regno, se non per accennare la fierezza delle genti del paese, et per mostrare che la terra istessa di sua natura sia avida di novità et concitatrice di tumulti et di guerre. Percioché, Campi Flegrei chiamarono quelle campagne che sono d’intorno a Cuma et Pozzuoli sin presso Napoli. Onde dicono che quelle acque calde et solphuree, et que’ fuochi che talhor vi si veggono, siano dalle ferite de’ giganti fulminati da Giove nati. Ma non crediate però che questa regola che ne hanno data gli antichi nel generale non sia ella nel particolare falsissima. Percioché, io conosco molti, io dico molti cavallieri et persone di ogni altro grado, napolitani così ben creati, così cortesi et humani et colmi di ogni virtù che sarebbe gran fatto ritrovare loro in tutto il resto d’Italia pari.

Don Giovanni. Ne conosco anche io molti, et di tanta modestia, che non solamente se stessi, ma questa bella patria ancho nobilitano mirabilmente. Ma lasciamo hora questo, et poiché si è passato tanto oltre nelle lodi di questa città, non si resti di ragionare alcuna cosa ancho delle due parti; [6v] che così spero che le lodi che di lei nel generale dette si sono appariranno maggiormente et si vedranno come stelle consparte in una vaga serenità di cielo.

Don Fabritio. Questo istesso mi andava apunto hora per testa, et volea pregarne il signore don Geronimo perché, come colui che ne ha et letto et veduto minutamente molte cose, ce ne saprà senza dubbio dare particolare conto.

Don Geronimo. Queste particolarità et voi et quanti hoggi ci vivono possono agevolmente saperle, perché sono aperte et manifeste agli occhi di tutti. Pure per compiacervi, et perché come della vista così ci godiamo ancho hoggi del raggionamento della amenità di questa gentilissima et vaghissima città, io non resterò di dire tutto quello che intorno a questo soggetto mi occorrerà. Ma prima che io a questi particolari descenda, mi piace di ragionare della origine et primo fundamento di lei, accioché possiamo poi pian piano alle sue particularità venirne.

Erano passati da 170 anni doppo la rovina di Troia, che erano da 260 prima che Roma fosse da Romolo edificata, quando nella guisa che in altri molti luoghi et della Asia et della Sicilia et d’Italia ancho passarono in diversi tempi molte colonie di Greci, partirono (come si legge) da due città dell’isola di Negroponte duo animosi giovani, Hippocle da Cuma et Megasthene da Calcide, con molte genti per dovere altrove far nuova stanza, i quali fra sé patteggiarono che [7r] la città che essi funderebbono per habitarvi dal popolo dell’un di loro prendesse il nome, et colonia dell’altro chiamata fosse. Onde venutine co’ loro molti legni in questo nostro mare, et dalla isola d’Ischia, dove prima applicarono, navigando nel più vicino lito di terraferma edificarono la città di Cuma, che fu così detta dal popolo che Hippocle conduceva, et fu colonia di Calcidici conforme al patto chiamata.

Don Giovanni. Maravigliosa cosa che lasciassero a questo modo in quel tempo le proprie case per andare a fare nuova habitatione altrove, senza sapere dove si andassero che meglio stessero.

Don Geronimo. Non ve ne maravigliate, poiché veggiamo essersi ne’ tempi meno antichi in maggior copia partiti i popoli di casa loro per occuparne altrove stanza, come si legge degli Hunni, de’ Vandali, de’ Gothi, de’ Longobardi et delle altre tante nationi barbare del Settentrione, che, usciti a guisa di sciami di pecchie di casa loro, ne passarono ad occupare le Pannonie, la Gallia, la Spagna, l’Aphrica et le più belle contrade di tutta Italia. Ma questi usarono sempre la forza dovunque giunsero; non così i Greci, i quali, perché abondavano nelle contrade loro le genti, uscivano per fare ne’ luoghi che amichevolmente lor da’ paesani si concedevano nuove stanze et colonie, come in molti luoghi della medesima Grecia fecero, et nelle isole dell’Arcipelago et nelle marine dell’Asia, dove edificarono molte città principali. Ne passarono anco [7v] nella Sicilia, et non pochi in Italia, non solamente in quella parte che ne fu perciò chiamata la Magna Grecia, ché ancho quasi tutto il resto ne seminarono delle lor genti; et ne passarono ancho fin nella Francia, dove edificarono la città di Marseglia. Ora a questo modo fra le altre molte compagnie che in diversi tempi di diversi luoghi partirono se ne venne questa di Negroponte, che, come dicevamo, la città di Cuma edificò. Et sono autori che scrivono che in questo viaggio un suono come di bacini che andava loro innanzi seguissero. Altri dicono che una colomba, che volava loro avanti, fosse lor guida. Ora da Cuma, che co’ medesimi legni che si mantenne fu signora un tempo di questi mari, tirati forse dalla commodità del golfo et dalla amenità del sito, opure fugendo il travaglio che Capovani et gli altri convicini continovamente lor davano, se ne passò in capo di un buon tempo una parte di quel popolo in questo luogo, dove vediamo noi hoggi Napoli, et vi edificarono una città, la quale chiamarono Partenope dal nome di una sirena che qui ritrovarono in una antica tomba sepolta. Strabone, che visse in tempo di Augusto, scrive che a’ tempo suo era in piedi et si mostrava la tomba di questa nimpha. Et questo nome di Partenope alla città durò, secondo a me pare, finché doppo molti altri anni, attratti dalla medesima vaghezza del sito, opure fosse altra causa che li movesse, passarono di Cuma medesimamente nuove genti [8r] in questa stessa valle. Et havendo risguardo alla città qui prima edificata, chiamarono in lor lingua quella che essi vi edificarono Napoli, che tanto vuol dire quanto nuova città. Et per lo medesimo rispetto ne fu quella altra lasciando il nome di Partenope chiamata dai loro habitatori Palepoli, che, nella lingua nostra, antica città significa. Ma qual parte di questa bella convalle ognuna di loro occupasse, hora che amendue in una città confuse et unite sono, difficile cosa è potere distintamente parlarne. Si può ben da Tito Livio cavare da quale parte Palepoli, da quale Napoli fosse.

Don Giovanni. O, quanto tempo ho desiderato d’intendere questo, poiché havendone udito alcuna volta ragionare non me ne sono mai quietato. Percioché dicono alcuni che Palepoli fosse due miglia fuori di Napoli verso Somma. Altri, che fosse alle spalle di questo monte dove noi siamo, dalla parte che risguarda Posilipo. Et chi dice alla piaggia di Santa Lucia, et chi in un luogo, chi in un altro. Le quali opinioni non mi hanno mai potuto capere in testa.

Don Geronimo. Veramente che le opinioni che voi dite sono volgari et sciocche et sopra nessuna ragione fundate. Scrive Livio, gravissimo autore, che in quell’anno istesso che Alessandro Magno edificò nell’Egitto sulla foce del Nilo la città di Alessandria, et che Alessandro Epirota fu in Italia da un forauscito lucano morto, havendo Palepolitani mossi o dalle proprie forze, et dall’amicitia [8v] che avevano con Samniti, o dalla peste, che intesero che fosse in Roma, fatto correria in Terra di Lavoro ne’ campi Falerni, che erano da colonie romane habitati, et non havendo, essendone stati richiesti, voluto amendare il danno, Romani bandirono loro la guerra. Et Publilio Philone, che era un de’ consoli, fu mandato con uno essercito a guerreggiarli. Il quale, perché non potesse il nemico essere da’ Napolitani soccorso, come per essere questi duo popoli greci una cosa istessa, solevano ne’ bisogni dare l’un l’altro aiuto; ne accampò, et pose fra Palepoli et Napoli in un commodo luogo una parte delle sue genti. Havevano Nolani, come amici, anchorché contra voglia de’ Greci, posto dentro Palepoli duo mila soldati de’ loro, et quattro mila Samniti per lor difesa. Onde essendo questo assedio durato uno anno, ne erano i poveri assediati dai soldati stessi, che soccorsi gli havevano così maltrattati, et nelle facultà et nell’honore, che non havrebbe il nemico potuto fare lor peggio. Per la qual cosa parve loro essere men male l’arrendersi et porsi in potere di Romani, che così grieve giogo de’ medesimi amici soffrire. Carilao et Nimphio, che erano duo cavallieri principali della città, questo negotio abbracciarono. Il primo si fugì nel campo romano, il secondo nella città si restò. Carilao offerse a Publio la terra, et ne hebbe tre mila soldati, per potere di notte occuparla da quella parte che i Samniti guardavano. Percioché, nel medesimo tempo Nimphio persua[9r]de al capitan de’ Samniti et li fa credere che mentre le arme romane sono qui tutte volte, ottima cosa fosse l’andare a correre le marine del nemico et i luoghi ancho mediterranei sin presso Roma. Et offerendo di dovere esso andarvi, perché dicea che importava molto il partire secretamente, il prega che, per potere presto ispedirsi, voglia con le sue genti quella medesima notte aiutarlo a porne l’armata in mare. Mentre egli adunque al buio si travaglia con la maggior parte de’ Samniti, perché siano i vascelli in punto per navigare, Carilao con le genti che havea dal consolo havute se ne entrò nella città per una porta che li fu dagli amici aperta; et presone i luoghi più importanti, fece tosto alzare un gran grido. I cittadini, inteso il tratto, non si mossero altramente. I Nolani fugirono tosto via, et uscendo dalla città dalla parte a quella opposita onde era Carilao entrato, per la strada che mena a Nola a casa si ritornarono. I Samniti, che si ritrovarono esclusi dalla città, con loro gran vergogna fugirono ancho essi via, et con non minor danno; percioché, lasciate dentro tutte le loro cose fino alle arme vi havevano. Vedete hora come da questo che Livio dice si può agevolmente cavare che Palepoli dalla parte di Oriente fosse verso Capoana, poiché uscendone Nolani senza incontrarsi altramente col nemico, che era fra l’una e l’altra città accampato, si andarono via per la strada che mena a Nola. Conseguentemente, Napoli era da questa altra parte di Occidente [9v] verso il Monte di Santo Hermo. Si cava ancho dalle parole di Livio che Palepoli non fosse in tutto sulla marina. Percioché, se presso al mare stata fosse, non se ne sarebbono la notte che ne uscirono ritrovati afatto Samniti esclusi. Egli pare che Livio qui voglia che doppo l’avere Publio a questo modo Palepoli havuta, Napoli, che doppo questa guerra restò qui come capo et signora delle cose di Greci, ne stringesse col popolo di Roma una buona amicitia et lega. Ora, queste due città, che erano, come havete inteso, divise, si unirono poscia col tempo insieme. Et riempiendosi di habitatori lo spatio, che era fra loro nel mezzo, si annullò et estinse il nome di Palepoli afatto, et quel di Napoli vi restò solo. Et se bene alle parole di Livio si mira, poiché Palepoli al suo tempo non era, non farebbe, secondo a me pare, male congettura chi dicesse che, essendo più salubre et più commoda, così per cagione della terra come del mare, la habitatione di Napoli, abandonando Palepolitani la loro città se ne passassero a vivere con Napolitani, facendo questa città et di popolo et di sito maggiore. Et che nel tempo poi degli imperatori accrescendo Napoli per la amenità et commodità grande del sito, di nuovo popolo ancho il luogo dove era stata Palepoli se ne occupasse et ponesse dentro; come veggiamo essersi a’ tempo nostro posto dentro la città non solamente tutta la contrada a questo monte vicina, ma il monte istesso ancho con tutto il Colle di Echia [10r] medesimamente, delle quali parti da per sé sola ognuna una buona città farebbe. Ma quando questo avenisse, che Palepoli dishabitasse o fosse di nuovo nella città di Napoli abbracciata et compresa, poiché non veggo autore presso il quale notato si trovi, non se ne può al parer mio il vero distintamente sapere. Quel che si fa si è che non solamente in tempo di Livio era già il nome di Palepoli estinto, et come si è detto non si habitava, ma assai prima ancho; sì perché non si fa altramente più presso gli historici di Palepoli mentione, come perché sempre poi solamente di Napoli si ragiona; come si legge che in quell’anno che furono Romani da Anibale rotti a Canne, mandassero Napolitani a donare loro et ad offerire liberamente ciò che essi havessero.

Don Giovanni. Io non so come nel luogo che hora occupa la città di Napoli potesse fra quelle due città restare tanto spatio vacuo che vi potesse con l’essercito, opure con una parte, Publio accampare, come voi poco avanti con Tito Livio diceste.

Don Geronino. Se voi, caminando da Santa Chiara per la Strada di Nido andrete, come ho fatto io alcuna volta, considerando quanto spatio potevano occupare dall’una parte et dall’altra le due città, ritroverete che a fare due grosse terre, l’una dalla parte di Oriente, l’altra di Occidente, resterà spatio in mezzo capacissimo et per trinciere et per molte migliaia di soldati. Ma la importantia sta a potere in[10v]dovinare et circonscrivere i termini dell’una et dell’altra apunto. Il che, come ho detto, sarebbe hoggi impossibile per la mutatione grande che di tutti i luoghi della città si è in tanti anni fatta. Ora, per gratia ditemi chi mi saprà mostrare di qui a cento anni dove fosse Porta Petruccia, Porta Reale, Porta di San Spirito, Porta Donnorso, et molti altri così fatti luoghi della città? Apena hoggi si sa che Porta Petruccia fosse sul campo di San Gioseppe, anzi sulla Porta apunto di San Giorgio di Genovesi, per la quale porta si andava giù al Cirrillo; et pure pochi anni sono che ella, non essendo più necessaria, fu con tutto il muro che haveva da ambe le parti abbattuta. Sappiamo che volendo il viceré Don Pietro rinchiudere questo Monte di Santo Hermo nella città, ne ampliò la muraglia antica; et cassando Porta Reale, che era in capo della Strada di Nido presso Santa Chiara, la trasferì dove la veggiamo hora in capo della sua strada, che egli chiamò di Toledo. La quale strada essendo prima ancho ella fuori della città, hora vi è dentro con tutto il monte. Et questa stessa Porta Reale antica era già stata da Carlo II fatta quando egli ampliò da questa parte la città; né dove ella si fosse prima sappiamo; come non sapranno neancho i posteri nostri donde sia stata questa ultima trasferita, se non ne prende alcuno scrittore cura. Nel medesimo modo la porta, che chiamavano del borgo di San Spirito, la quale era quasi in capo del fosso del Castel Nuovo verso la detta chiesa, fu nel me[11r]desimo tempo et per lo medesimo rispetto trasferita fin presso Cappella, per abbracciarne con la nuova muraglia il monte già detto et Echia, che hora con una nuova et più ampia cinta di muro per ordine del presente nostro viceré don Perafan di Ribera si fortifica et pone dentro. Dove adunque questa porta era, hoggi è strada, anzi campagna aperta; onde da molti hoggi non si sa bene il luogo dove ella fosse. Porta a Donnorso, che era al fianco di San Pietro a Maiella, non la veggiamo noi hora per la medesima cagione trasferita presso la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli? Non vedete voi fino ad hoggi come la Porta Vecchia del Mercato presso la Fontana, ampliandosi da quella parte la città, ne restò per buon spatio dentro, et in suo luogo habbiamo hora quella del Carmino? Anzi, vogliono alcuni che ancho il Mercato fuori della città già fosse, et che vi fosse poi posto dentro da Carlo Primo fino alla porta che dicevamo della Fontana; et che Alphonso Primo, annullando questa fino all’altra Porta del Carmino, la città ne ampliasse. Chi mi saprà di qui a poco tempo mostrare dove la Duchesca si fosse, et pure fu già co’ suoi vaghi giardini et fontane le delitie de’ passati re di Aragona. Hora guasti i giardini, et mandatene altrove le acque, con le case che ogni dì vi si fabricano ne è il luogo per la maggior parte da persone private habitato. Chi dimandasse di qui a cento anni dove il tribunale della Vicaria o della Summaria o del Sacro Consiglio [11v] si fosse, come saprebbe huomo renderne conto, se da alcuno scrittore non se ne lascierà qualche memoria a’ posteri.

Da trenta o quaranta anni in qua veggo fatta dalla Incoronata in su verso il monte una nuova et grossa città, che non erano altro tutti que’ luoghi che giardini et terreni di herbaggi. Ma che dico io trenta, né quaranta anni, che hoggi con tanta fretta in tutta quella contrada che è dintorno a Monte Calvario si fabrica, che pare che dimane una nuova colonia si aspetti per habitarvi. Ora, quanto tempo ha che io, che non sono già tanto vecchio, il ricordo, che tutta quella parte della città, che è volta al mare, era senza muraglia, che hora la ha tutta? Et quella muraglia che dalla parte degli Incurabili si stende in lungo per tutta la parte alta della città non fu ella medesimamente a’ tempo di don Pietro et per suo ordine fatta, restando la vecchia, che cattivissima et vecchissima fabrica era, dalla parte di dentro in molti luoghi poco dalla nova lontana, come presso il monasterio di Santo Anello dalla parte della nuova Strada di Costantinopoli in più luoghi si vede. Ma che perdo io tante parole in questo, poiché hoggi non è chi non sappia la gran mutatione che fé tutto il corpo et la faccia della città, quando il medesimo viceré per abbellirla et nobilitarla maggiormente fé ridrizzare, abbassare et allargare in molti luoghi le strade et gettare tanti portichi, palchi et scale, et talvolta le case istesse per terra. Chi veduta prima la havesse, non la havrebbe, ritornando poi a [12r] vederla, quasi riconosciuta; ma la havrebbe ben senza alcun dubbio giudicata et più bella et più ordinata che prima. Non vediamo noi a’ dì nostri molte chiese di nuovo in Napoli edificate, molte altre fatte pure hieri habitationi profane et boteghe et stalle, come apunto le tre chiese di monache, le due sotto il titolo di Santo Anello, l’una presso il Cirriglio, l’altra sopra Mezzo Cannone, la terza sotto il titolo di Santa Agata presso il Cortellari. Assai pochi mi sapranno hoggi dire dove Santo Nicola fosse, che pure hieri si può dire; fu in quel luogo dove si vede trasferito per ampliarne la piazza fuori del Castel Nuovo, dove esso era già stato dalla parte del molo da Giovanna II edificato. Forse ha mille anni che la contrada di Echia era tutta imboscata et deserta, et quasi un ricetto di malandrini, et hoggi è tutta di bellissimi edificii adorna, et vi si fabrica continovamente; et con habitarvi il signor Francesco Antonio Villano regente di Cancellaria ne è con concorso mirabile frequentata. I magnifici palagi che vi vedete sono moderni tutti; et perché vi è l’aere salubre molto, et è al palagio del Principe vicina, un dì, se non mi inganna la congettura, si vedrà così frequentare come ogni frequente strada della città. Ho inteso da persone degne di fede che quando san Francesco di Paola diede qui principio alla sua chiesa di San Luiggi, essendoli detto che esso fabricava in luogo così solitario et hermo che non solamente non havrebbe havuto la chiesa concorso, ma non sarebbe stato altro che un ridutto di forausciti [12v] et di cattivelli, che solevano per le masserie di Echia ridursi, come hoggi in quelle di Posilipo fanno, rispose che esso antivedeva dovere essere quel luogo, dove egli edificava, così frequente che non ricetto di cattivi, ma albergo di persone honoratissime et principali sarebbe, apunto come veduto habbiamo et vediamo. Ora, che cosa era egli il luogo dove il viceré don Pietro edificò il palazzo et magnificò il parco, se non una contrada deserta et vile; et hora, con la bella piazza che vi ha fatta fra San Luiggi e ’l parco, la ha pure hieri, possiamo dire, il viceré don Perafan mirabilmente nobilitata, et ha di più Sua Eccellentia di bellissime stanze il regio palazzo accresciuto, et fattolo assai più bello et commodo che prima non era. Tutti sappiamo la Piazza dell’Olmo, ma molti che verranno appresso non sapranno che uno o due alberi d’olmo che erano in capo della strada presso al Castello le diedero questo nome, che ella nol perdirà facilmente, come nol perdirà neancho la piazza, che chiamano all’Olmo di San Lorenzo per un altro albero simile che vi era. La prima piazza chiamano ancho in Banchi, et nondimeno banchi publichi non vi si veggono, ancorché il negotio ai mercadanti vi corra. Vi debbono bene un tempo essere come in Vinegia sono; et per questo non ne hanno anchor perso il nome; come non l’ha neanco perso la Strada degli Armieri, né quella de’ Lanzieri, anchorché non così hoggi, come nella passata età, et arme ci si lavorino et lancie. Tutto questo discorso ho fatto et ho io tutte queste cose dette per mo[13r]strare che, se di qui a pochi anni non si saprà dar conto di queste tante mutationi che in poco spatio di tempo, come havete inteso, fatte nella città et della città si sono, salvo se altri non si togliesse pensiero di lasciarne, come ho già detto, memoria a’ posteri con qualche scritto, come possiamo noi hora dare distinto et particolare conto, così del sito delle due antiche città come de’ luoghi che in esse fossero? Anzi, è maraviglia che in tanti secoli et in tante guerre et invasioni fatte da’ barbari nella misera Italia non sia ancho il terreno istesso rivolto sossopra. Et parmi gran cosa certo che fino ad hoggi duri in piè quel poco d’arco marmoreo che con quella inscrittione greca sulla Porta di San Paolo vediamo; et quel poco di muro delle anticaglie, che o la ingiuria del tempo o la fierezza de’ barbari debbono gran tempo fa havere abbattuta et gettata per terra.

Ma ritorniamo al nostro ragionamento, et basti quello che se ne è detto con Livio: che Palepoli fosse dalla parte di Oriente, forse dagli Incurabili in là, come solevano per lo più gli antichi edificare le città ne’ luoghi più eminenti et alti, et Napoli da questa altra parte di Occidente, et forse verso i luoghi più bassi per la commodità del mare. Percioché, come si dee credere che Palepoli si servisse pe’ legni suoi della piaggia del Carmino, o di quella della Madalena, così si dee pensare che la colonia che edificò poi Napoli, veggendo che Palepoli era dalle paludi vicine offesa, ne occupasse perciò presso al monte et lungi dalle paludi assai [13v] più salubre sito, accompagnato dalla commodità del mare per la vicinanza dello scoglio di San Vincenzo et del Castello dell’Ovo, dove potea perciò la statione de’ legni loro essere più secura.

Don Fabritio. Io ho a Livio gran credito, come a scrittore molto grave, et che dagli Annali romani et da historici degni di fede la sua historia cavò; et tengo per fermo che la guerra che egli ci scrive et voi referita ci havete, fatta da Publio sopra Palepoli, sia così vera, come egli dice; et che nel medesimo tempo in questo medesimo spatio quelle due città fossero. Pure non restarò di dire che presso antichi et degni autori, così delle due città come del nome loro, tutto il contrario si trova. Egli si legge che, essendo Partenope per la amenità et commodità del luogo mirabilmente frequentata, et dubitando perciò Cumani che non se ne dishabitasse la città loro, deliberarono di rovinarla. Et fattone al pensiero seguire l’effetto, prima che gran tempo passasse, ne nacque fra loro così fatta pestilentia che in gran numero ogni dì ne morivano. Et non sapendo ritrovarvi rimedio, ricorsero all’oracolo, come solevano in que’ tempi i gentili in tutte le loro occorrentie fare. Et ne hebbero in risposta che, se uscire di quel flagello volevano, facessero la abandonata Partenope rihabitare. La quale vogliono che fosse per questa cagione rifatta et chiamata Napoli, quasi nuova città. Ora vedete come questa opinione è del tutto a Livio contraria, il quale vuole che due città fossero Palepoli et Napoli, come detto ci havete, et non [14r] una sola disfatta, et di nuovo da’ Cumani stessi rifatta; salvo se non volessimo dire che quando fu per ordine dell’oracolo rihabitata, da questa parte presso al monte la rifacessero, et questa fosse chiamata Napoli, quasi nuova città; et che nel medesimo tempo rifacessero ancho l’altra già rovinata et di Partenope le cambiassero in Palepoli il nome per rispetto dell’altra, che Napoli chiamata havevano. Ma tutte queste sono congetture, et la verità se ne sta nelle dense tenebre della antichità sepolta. Io vi dico ancho di più: che il comentatore di Licophrone, greco et antico poeta (anzi scrittori greci et antichissimi amendue), scrive che Phalero, tiranno della Sicilia, in Terra di Lavoro questa città di Napoli edificasse. Diodoro Siculo et Oppiano vogliono che questa istessa città fosse da Hercule edificata nel tempo che egli di Spagna con quelle sue belle vacche ne ritornò. Le quali opinioni tutte potrebono bene essere vere, ma in diversi tempi, et che la città rifatta o accresciuta di nuovo popolo ogni una di queste volte ne fosse.

Don Geronimo. In cose così antiche et dubbie meglio è talvolta tacere che ragionarne, poiché vi si può agevolmente errare. Siché, basti quello che io ragionato vi ho sopra il sito della antica et nuova città. Et credo che il signor don Giovanni, per quella notitia che havere se ne può, ne resti sodisfatto.

Don Giovanni. Io ne resto sodisfatto certo, e quieto, poiché non se ne può maggiore certezza havere. Ben dico che voi mi havete aperta la mente col ragionare delle Anticaglie; et poiché in questa stessa convalle erano amendue le città, non sarebbe gran fatto che quel [14v] doppio muro delle Anticaglie una parte del muro della antica Palepoli fosse.

Don Geronimo. Non voglio astringermi a dire in particolare qui fu o non fu, perché, come ho tante volte detto, non se ne può al parer mio havere più risoluta certezza di quello che detto ne ho. Quello che voi dite delle Anticaglie così può essere vero come non vero, poiché in tante centinaia di anni ben si dee credere che si siano, come habbiam detto, fatte molte mutationi della città. Et così potrebbe essere fabrica di quelle antiche, come di alcune poche centinaia di anni in qua. Né io in molte cose mi curo molto della fama del volgo, che è per lo più mendace. Ben vi ho io detto, se delle mie parole vi ricordate, che in quella contrada presso gli Incurabili et dalle Anticaglie in là terrei io che già stata Palepoli fosse. Ma lasciando questo, di che mi pare che si sia hoggimai ragionato abastanza, fra le altre tante lodi che a questa nostra città date habbiamo, anzi delle quali è ella dignissima, dove lascio io la principale et la maggiore al parer mio di quante le si possano dare? Et questa è che ella ha per madre una delle prime et più celebri città che habbia havuto il mondo; et che, così in cavalleria come in lettre, fiorì forse più che altra della quale si ragioni. Questa città fu Athene, dove tutte le belle et alte discipline più che altrove compiutamente fiorirono. Nella gloria delle arme, poi, così in terra come in mare fu rara, et hebbe per mezzo de’ suoi valorosi capi[15r]tani eccellenti et gloriose vittorie. Di questa celebre città fu colonia Calcide, di Calcide Cuma, di Cuma Napoli.

Don Giovanni. A questo modo, adunque, non le fu madre, come voi dite, ma avola, o bisavola piutosto.

Don Geronimo. Chiamatela come vi piace. Di questa gloriosa pianta questo eccellente rampollo nacque, et sino ad hoggi la eccellentia di quella antica cavalleria mantiene, et quella generosità naturale che, malgrado del tempo et delle tante turbolentie d’Italia passate, tuttavia vi si vede.

Don Fabritio. Questa è gran lode certo di questa patria, la quale, se così imitasse negli studii delle buone lettere questa sua madre, come fa nell’arte cavalleresca, sarebbe con la eccellentia di queste due belle arti la più felice et la più riputata città del mondo, et si potrebbe con verità gloriare di essere nata di così fatta madre. Ché, se ben vi si vede Studio publico di tutte le facultà litterarie, non è però con quel fervore che io vorrei, né di quella qualità che in alcuni altri luoghi d’Italia essere si vede.

Don Geronimo. Al manco non si può negare questo: che in ogni facultà non vi siano stati et vi siano ancho hoggi molti singulari et rari huomini. Et poiché si è fatta mentione di Athene, non voglio restare di dire che presso Calimacho, antico scrittore, si legge che Diotimo, capitano dell’armata degli Athenesi, guerreggiando con Siciliani, ne venne per ordine dell’oracolo di Napoli a sacrificare et [15v] a celebrarvi un certo giuoco, nel quale si correva con torchi accesi in mano. La quale festa o giuoco continovarono poi Napolitani per un gran tempo di fare ogni anno. Ma vegniamo un poco più al particolare, come voi me ne richiedeste, et io promisi di fare, perché più distintamente la eccellentia di questa città si vegga. Ben dovete voi Signori sapere che molte sono quelle cose che nobilitano una città: i seggi, le loggie, i theatri, et altri così fatti luoghi publici; i bei palagi, le belle chiese, le ampie strade et diritte, et che diano quasi forma et ordine alla città; la nobiltà, la cavalleria, la frequentia di popolo, la civilità et politia del vivere. Della nobilità et cavalleria non accade parlarne, perché ognuno sa che non ne è altra tale, non dico in Italia, ma in tutto il resto del mondo. Percioché, dove si vede città che habbia più di cento fra principi, duchi et signori titolati, et più di cinquecento baroni signori di terre et castella, come havere questa si vede? Della frequentia di popolo et della civilità chi vi fu mai che non sappia che ve ne è tanta quanta in altro luogo di Europa? Ora i cinque seggi che ha Napoli non le accrescono di tanti ornamenti la nobiltà, che ella in questa parte a qualsivoglia altra città d’Italia non cede? Né in magnificentia di palagi et di chiese è ella inferiore a città che si vegga sopra la terra. Hebbe bene un tempo quando simili feste si costumavano ancho ella il suo theatro, il quale, come anco in tanti altri luoghi d’Italia, con l’uso del recitare si estinse. Ma [16r] perché non vi si è l’arte cavalleresca estinta, non mancano, in luogo de’ theatri, le ampie et commode piazze per armeggiare et giostrare, come tante volte vi si è veduto fare, et si vede continovamente. Dove vedrete voi edificio così magnifico et maraviglioso come è il Molo Grande, veramente mole et opera degna di un re magnanimo et grande come fu Alphonso I che il fece? Il porto, che ne nasce, pare a voi forse che sia picciola commodità et ornamento di Napoli, poiché sempre pieno di galere et di navi li veggiamo? Et perché ogni huomo di questa commodità del mare partecipi per tutta quella parte della città che è battuta dalle onde, habbiamo molti altri moli. Non habbiamo noi medesimamente un convenevole arsenale, nel quale del continovo per securtà del Regno si fabricano molte galere? Non sono ancho luoghi publici et di grandissimo ornamento a questa città lo Studio publico, la zecca reggia, la dogana delle mercantie, la dogana del sale, i banchi publici, il mercato che si fa così copiosamente due volte la settimana? Et non vi sono ancho di molte stampe? Queste paiono, perché le habbiamo ogn’hora sugli occhi, cose di poco momento; et nondimeno sono di qualità, ché non ad ogni città si concedono facilmente, et ciascuna da per sé sola basta a nobilitare una città, et a darle di molte et non picciole commodità. Nella ampiezza, poi, et dirittura delle strade, et in tutta la forma della città, anchora che si conosca et sappia che ella sia stata fatta in più volte, non ne ha Napoli però così poca parte [16v] che non ne avanzi molte delle principali d’Italia. Ma sopratutto, quello di che ha di bisogno per suo maggiore decoro una città, sono le fontane di acqua viva e corrente, che oltre la commodità che danno, che è grandissima et incomparabile, fanno vaga, lieta et quasi viva quella città, dove sono considerate un poco molte altre città, le quali, per belle et magnifiche che siano, non havendo acqua viva, pare che esse ancho siano a un certo modo morte. All’incontro, poi, quelle che la hanno, pare che habbiano et ornamento et vaghezza et vita. Ora, le fontane et publiche et private che ha Napoli, et per suo ornamento et per commodità di cittadini, non fanno elle che questa città si lasci di gran lunga tutte le altre città d’Italia a dietro? Le publiche si trovano per tutti i luoghi principali della città compartite. La Piazza dell’Olmo ha la sua così commoda et vaga. Ha la sua non men bella la Sellaria. Presso la Annuntiata è l’altra così magnifica et copiosa che pare un fiume. Ha la sua bella et schietta il seggio di Porto, ma presto la vedremo una delle più belle et vaghe fontane che hoggi dì sia in Napoli. A Mezzo Cannone è l’altra. Quella della strada che chiamano l’Horto del Conte, se ben non si vede da molti, serve nondimeno alle commodità de’ convicini. Quanto è grande et commoda et per gli huomini et per gli animali quella che si vede al Mercato. Et poco tempo fa, per commodità di naviganti ha il Molo Grande l’altra sua così bella. Quella de’ Serpi, se non è vaga, [17r] è commoda; come ancho per commodità solamente di quella parte della città si vede in capo della Strada della Incoronata l’altra. Non manca neancho al Castello la sua. Vi sono poi le private; et con effetto non è quasi casa honorata, et di qualche momento nella parte bassa della città, che non habbia et per commodità et per ornamento la sua. Et ve ne sono molte assai vaghe, così ne’ cortili delle case come ne’ giardinetti, et per diporto et per commodo de’ lor signori. Molti le hanno nel mezzo del cortile in guisa che ricevono le acque in una schietta conca marmorea alta di terra. Altri fanno uscire l’acqua dal muro, et cadere con molta vaghezza per scabri et artificiosi tophi o conchiglie, et talvolta fra frondi di hellera o di vite in terra opure in una conca di marmo bassa. Altri la fanno montare di terra alta nell’aere, la quale poi vagamentre nella cima in goccie tonde come in tante perle si spezza, et saltando per l’aria ne cade giù finalmente nel medesimo ampio vase, onde esce, come è quella del signor Gaeta a Porto, o quella del monasterio del Carmino, che con le herbuzze che sogliono lor nascere nell’orlo del vaso maravigiosa vaghezza apportano a chi le mira, et ne’ tempi della estate massimamente, quando più la natura di così fatte viste vaga a questo modo compiutamente le gode. Le fontane poi de’ giardini, per esservi la vista del verde delle piante accompagnata, e i ruscelletti che poi ne corrono fra le herbe verdi soavemente mormorando, rallegrano in modo gli spiriti [17v] di chi le mira che di ogni afflittione et mestitia il tolgono. Vi è poi la varietà dell’artificio di queste fonti, che diletta mirabilmente, come nel giardino del signor don Garsia di Toledo in tante fontane che vi sono si vede. Si vede ancho questa varietà et vaghezza in quel del signor Marchese di Vico, nel quale di più delle fontane ordinarie et vaghe vi sono que’ giuochi di acque che, quando men l’huomo vi pensa, si ritrova da quelle tutto bagnato, che da molti luoghi del terreno istesso zampillando quasi tanti nemici per dritto et per traverso ci assaliscono, et ci percuotono da ogni parte: cosa certo assai dilettevole et di gran gusto. Vi si vede ancho uscir l’acqua da un tronco vivo di uno albero di celsi bianchi con tanto artificio che ne resta l’huomo stupefatto in vederlo et considerarlo. Et questa vaghezza del bel giardino et delle acque viene accresciuta et fatta maggiore dalla bella stanza che l’accompagna, percioché non è mica casa da villa, sebene è fuori della città, ma palagio da potervi ogni principe agiatissimamente habitare.

Don Giovanni. Anzi, et la vaghezza del giardino et delle acque et la commodità della bella stanza che voi dite vengono dalla generosità et liberalità del signor Cola Antonio Caracciolo, che ne è signore, in modo illustrate et annobilite che non è hoggi quel luogo più per le sue delitie conosciuto che per la grandezza et bontà del signore che lo possiede.

[18r] Don Geronimo. Io mi restava afatto di queste lodi, sapendo essere le qualità di questo cavalliere così fatte, che quanto più delle sue virtù si ragiona, tanto resta più sempre a dirsene. Ma ritornando alle acque, dico che la parte superiore della città, percioché non ha potuto l’acqua giungere a tanta altezza, ha i suoi pozzi con le sue fresche conserve della medesima acqua delle fontane, che per tutta quella parte della città per cave sotterranee si conduce, perché ognun che ne vuole possa participarne. Percioché, come sapete, questi nostri tofi si cavano facilmente. Et ve ne sono alcune di queste conserve di acque così fredde la estate che non bisogna desiderarvi le nevi di quelle montagne che habbiamo sugli occhi. Et io crederei che quanto si va più in su, tanto sia l’acqua più fresca per essere dal sole più lontana, et più rinconcentrarvisi il freddo.

Don Fabritio. Io direi che la freddezza di questi pozzi dalla grandezza della conserva nascesse, poiché, dove la conserva è picciola, si bee sempre del formale che corre, et che non può perciò del freddo della conserva partecipare.

Don Giovanni. Quanto viene lontana questa acqua, che si divide poi, et tante fontane et pozzi ne nascono?

Don Geronimo. Alle falde del Monte di Somma dalla parte di Tramontana, lungi forse cinque miglia da Napoli, si trova una casa o ricettacolo di questa acqua, et lo chiamano la Bolla. [18v] Qui tutta l’acqua si divide, et una parte ne viene a Poggio Reale per li suoi aquedotti coverti co’ suoi castelletti di mano in mano; l’altra fa il celebre fiumicello Sebeto, che ne va a scaricare presso il Ponte della Madalena le sue acque in mare, et serve a fare macinare tanti molini quanti sapete per uso della città. Et se egli è povero di acque, è nondimeno famoso et noto per la grandezza della città che ha vicina, non men che per lo suo famoso Tevere Roma. Ora, dalla Bolla in su per forse un miglio si scuoprono antichi aquedotti, per li quali ne vien nella Bolla l’acqua; ma più in là, perché ci contentiamo noi hoggi di quel che habbiamo, non ci curiamo di andare altramente l’origine di questa acqua cercando, et così per un poco di diligentia che si lascia di oprarvisi ne resta incognita a noi hoggi et occulta. Non è l’acqua che nella Bolla si vede tanta che bastasse né a darci le tante fontane et pozzi, quanti habbiamo nella città, né a fare macinare tanti molini quanti ne macinano; ma et nella Bolla istessa et di mano in mano per tutto il corso che ella fa, con copiosi nuovi gorghi ne viene sempre accrescendo, in modo che in quella tanta copia abonda che noi vediamo, et in Poggio Reale spetialmente più che altrove ne cresce. Nel qual luogo, che ne tolse perciò questo nome, solevano già per loro diporto gli re passati andare spesso, et massimamente la estate, per godere di quelle acque che copiosamente vi sono; et a questo effetto vi furono fatti vaghissimi giardini con alcune commode stanze. [19r] Quivi ancho un’altra particella se ne deriva per uso di altri molini; il resto tutto per li suoi aquedotti ne viene, et se ne entra per Capovana nella città. Vedete, Signori, di quanta commodità et ornamento sono alla città queste acque. Né voglio restare qui di dirvi che presso Strabone si legge che hebbe ancho Napoli, se in tanta copia quanto hebbe Baia, non però di minore efficacia et bontà, bagni di acque calde, i quali hoggi per la ingiuria del tempo et per la negligentia degli huomini non habbiamo, et si crede da alcuni che già fossero nel Piatamone, dove hoggi solamente acqua viva et dolce vediamo.

Don Giovanni. In questa parte ci havete voi sodisfatto abastanza, ma nel discorso delle altre cose che nobilitano la città parmi che alquanto in fretta ve siate ispedito. Percioché, io aspettava d’intendere molte cose più nel particolare, così de’ seggi come de’ tribunali et delle chiese medesimamente, per quella notitia che havere se ne può maggiore. Siché, poiché siete nel ballo, non restiate per vita Vostra di sodisfarcene prima che di qui ci partiamo.

Don Fabritio. Ha molta ragione il signor don Giovanni, perché con effetto molte cose tocche in poche parole ci havete.

Don Geronimo. Et io sono contento di compiacervi, benché cose siano che ancho voi prosuppongo che le sappiate, seben tutte sono in lodi della città. Et per incominciarvi dai seggi, dico che non si può della loro antichità dare certezza; perché altri crede che fossero inventione di Normanni, altri di Carlo I. [19v] Essi sono hoggi di pari dignità et hanno molte dignità et prerogative, delle quali i lor gentilhuomini si vagliono quando occorre. Et hanno ancho certi ordini sopra alcuni loro particolari regimenti et gli osservano inviolabilmente. Et perché si viva quietamente fra loro, se cosa d’importantia vi occorre, vi adoprano il braccio del Principe. Il seggio della Montagna fu così detto dalla contrada, la quale, per essere nel più alto luogo della città, et sul monte apunto, si dee credere che fosse la Montagna chiamata. Quello di Capovana, come ne fu per ciò ancho chiamato il castello, tolse il nome dalla porta che mena a Capova, che Porta Capovana era detta. Del seggio di Nido, perché non si sa onde questo nome prendesse, hanno alcuni detto che egli da quel simulacro marmoreo del fiume Nilo che fu in quel luogo ritrovato sotterra, et che hoggi ivi presso sulla strada si vede, prendesse il nome, et che poi guasta la voce ne sia dal volgo in luogo di Nilo stato di Nido detto. Ma a me questa opinione non sodisfa, poiché Francesco Petrarca, che fu ducento anni sono, Nido et non Nilo il chiama. Et può agevolmente essere che il simulacro doppo quel tempo ritrovato fosse. Siché, altra ragione bisogna addurne, la quale fino ad hoggi non comparisce. Gli altri duo seggi fatti nella parte bassa della città presso al mare, l’uno perché era presso al porto di quel tempo, che fin là davano i vasselli a terra, fu così detto; l’altro, da qualche nuova porta della città che havea dato a quel luogo il nome, il nome tolse. Presso Ro[20r]mani non si vede che questi seggi per conto della nobiltà si costumassero; ma solamente que’ maravigliosi portici usavano per passeggiarvi, per sedervi et per esserne dal sole et dalle pioggie difesi. Questi seggi di Napoli sono dal Petrarca nella lingua latina chiamati vichi, et presso alcune memorie antiche si trova che piazze chiamati gli hanno.

Dovrei hora, secondo che poco avanti mi richiedeste, ragionare de’ tribunali, ma voglio che prima alcuna cosa intendiate de’ sette officii del Regno, da’ quali la maggior parte de’ tribunali dipende. Egli non è picciolo argomento della nobiltà di Napoli il farvi sempre gli re o i loro viceré residentia, et insieme ancho i sette principali officii del Regno, che, come in città regia et principalissima, la loro autorità et dignità conservano et mostrano. Percioché, nelle publiche solennità presso al re vestiti di purpura compariscono, et per lo più con questo ordine: il gran conestabile, l’admirante et il protonotario si seggono da man dritta; il gran giustitiero, il gran camerario et il gran cancelliero da man manca; et il gran siniscalco gli si pone fra i piedi.

Don Giovanni. In che servivano o servono questi officii al Re, o per che cagione ordinati furono.

Don Geromino. Non è principe che di questi officiali ordinariamente di bisogno non habbia. Percioché, ogni re veggiamo havere di bisogno d’un generale dell’essercito, che faccia per lui le guerre et gli assecuri il regno con le arme dagli insulti degli inimici; et di chi li tenga in pace [20v] et giustitia il regno, così nelle cose di terra come in quelle di mare; et di uno che habbia cura della sua camera et delle entrate del patrimonio; et di un altro che lo serva in leggere ne’ negotii che occorrono, et che tutte le sue scritture conservi. Ha di bisogno medesimamente di un che habbia cura di provedere al suo vitto ordinario, et della famiglia et di chi lo serva ancho per cancelliero et per secretario ne’ negotii occorrenti; et che del suo sigillo habbia cura. Di tutti questi officiali ha necessariamente il principe di bisogno come della vita istessa per vivere. Ma quello che a ciascuno di loro apparteneva di fare, et ne havevano già particulare instruttione, è per la maggior parte stata in diversi tempi da varii principi mutato, come spesso et danno agli officii, et tolgono secondo che più lor piace. Onde di alcuni di questi sette non ne è hoggi restato altro che il nome ignudo.

Don Giovanni. Voi ci havete signor don Geronimo troppo succintamente tocco quello che noi più diffusamente aspettavamo di intendere di questi sette officii del Regno, per essere cosa così degna di sapersi quanto altra, della quale si sia fin qui in lode di questa città ragionata. Diatecene adunque, se vi piace, un poco più piena et chiara notitia, come havete fatto del resto.

Don Geronimo. Poiché a voi piace che io la medesima cosa, ma alquanto più aperta, ragioni, dico che non solamente gli imperatori romani, ma Alessandro Magno et gli altri più antichi prìncipi ancho [21r] hebbero tutti questi officii appresso di loro per essere allo stato et alla vita di ogni principe tanto necessarii quanto già havete inteso. Ma quando essi in questo Regno ordinati fossero, non è facile cosa poterne piena certezza dare. Ben si sa questo: che in tempo di Carlo Primo, anzi di Federigo II, che era già stato prima, fossero in Regno, poiché si vede che ne fa questo stesso principe mentione. Et venendone al particolare di ognun di loro, dico che il gran conestabile, che è il principale fra gli altri, et che mariscallo è da’ francesi chiamato, serve per generale et luogotenente del re nelle guerre che nel regno occorrono, ordinando et provedendo a tutte le cose che alla militia appertengono. Et per questo nella creatione di questo officio il re pone in mano al gran conestabile un stocco di oro, et li dice queste parole: “prendi in mano questo stocco per cacciare et tenerne a dietro il nemico del popol mio. Il quale officio tanto dura quanto dura la guerra, percioché le arme non si adoprano nella pace. Ma hoggi, ogni volta che il bisogno occorre, il viceré del Regno, come luogotenente generale del re, questo officio essequisce. Ora, come il gran conestabile assecura al suo re il regno con le arme, così il gran giustitiero gliele conserva con la giustitia in pace. Il regente della Vicaria, che è il luogotenente di questo officio, ha i suoi giudici et criminali et civili, perché a ciascuno il suo debito con giusta bilancia si renda. La gran corte della Vicaria è il suo tribunale, che fu così detto dal rendere invece del re [21v] questo officio ragione a tutti; opure, come altri crede, il re Roberto, creando Carlo il figliuolo vicario del Regno, questo nome li diede. Era ancho anticamente questo officio più ampio, et poteva più fare che non può hoggi, che quasi tutto a un certo modo dal viceré del Regno depende. Il gran giustitiero ha la sua iurisditione sopra gli huomini et le cose di terra; l’admirante, che è il terzo officio, l’ha sopra le cose maritime et sopra gli huomini che nell’arte marinaresca si essercitano. Et questo officio è ancho esso in molte cose diminuito di quelle che ne’ suoi privilegii esserli concesse si veggono. Il gran camerario, che è il quarto officio, fu così detto dall’havere della camera, anzi di tutte le cose del suo re, particolarmente cura; come veggiamo il suo luogotenente haverla hoggi in conservare le cose di questa camera et di tutte le entrate del Regno. Il tribunale di questo officio è la Camera della Summaria, nel quale da questo suo luogotenente et presidenti di altro non si tratta che di differentie che tra privati e ’l regio fisco nascono. In tempo di Federigo II, questa cura del patrimonio et del tenere conto delle entrate del fisco era de’ rationali del tribunale della Zecca. Poi, come si crede, fu da Carlo I nel tribunale della Camera trasferita. Il quinto officio, che è del protonotario, si era anticamente di leggere davanti al re et di conservare tutte le scritture occorrenti e i registri. Il Re Catholico, poi, trasferì questa cura nella Cancellaria Regia. Onde, come era già questo officio prima di grandissima [22r] autorità, così non è hoggi restato altro al vice protonotario che il creare de’ notari et de’ giudici a contratto, et di legitimare i bastardi. Il gran siniscalco, che è l’altro officio, ha particulare cura di provedere tutte le cose che al vitto ordinario del re et della corte sono dì per dì necessarie. Hoggi, noi maiordono o mastro di casa il chiamamo. Et nelle feste principali soleva già ancho come scalco maggiore servire il suo re a tavola. Et percioché siniscalco è voce francese, ancorché non fosse mai casa di principe che non l’havesse, si crede che in questo Regno con alcune sue particolari leggi da Carlo I con questo nome introdotto fosse. Haveva già ancho questo officio cura de’ boschi et delle defese et caccie regie et autorità di potere i servitori della corte castigare de’ loro eccessi. Hoggi è fuori di queste cure. L’officio del gran cancelliero, che è in questo Regno l’ultimo in ordine, è nella Francia il primo et il più degno, et così ancho in Roma presso al pontefice; così si veggono secondo le contrade o la voluntà de’ prìncipi tutte le cose variare. Questo officio non era altro, come il suo stesso nome dimostra, che servire di cancelliero e di secretario il re; et appresso di lui il sigillo regio si conservava. Et come ne hebbero sempre tutti i prìncipi di bisogno, così il suo nome è antico molto; ma non già così la sua dignità et la forma di quello in che essercitare si doveva, che si crede che in questo Regno da Carlo 2 introdotto fosse. Era suo officio anco di fare da alcuni dottori essaminare colui che dottorare si doveva, et ritrovatolo idoneo, egli li dava il grado. [22v] Giovanna Seconda poi introdusse a questo effetto il collegio de’ dottori, come fino ad hoggi si costuma, del quale collegio il gran cancelliero è capo. Et questo solo col creare di bidelli è hoggi a questo officio restato, da che il Re Catholico, come si legge, ad imitatione di Aragona i regenti di Cancellaria in questo Regno introdusse; che perché in loro l’officio del gran cancelliero co’ negotii della Cancellaria Regia fu trasferito, furono così detti. Et percioché questi in consiglio a lato del re seggono, furono ancho chiamati consiglieri collaterali, et collaterale il Consiglio. Et sempre persone dottissime et signalatissime per questo luogo si elegono. Et il secretario del Regno, nel medesimo tempo introdotto, siede con essi loro in consiglio, intende tutti i secreti che ivi si trattano, et con effetto tutti i negotii di Cancellaria, et che all’officio del gran cancelliero già appartenevano, esso ispedisce. Onde, ne è perciò questo officio di secretario del Regno di grandissima importantia et dignità. Nel medesimo tempo furono ancho ad imitatione di Aragona introduti qui gli scrivani di mandamento. Ma ritornando ai sette principali officii, dico che essi sono così degni che non si danno se non a persone illustri; et hoggi sono il signor Marc’Antonio Colonna, gran conestabile, il Duca di Amalphi, gran giustitiero, il Duca di Somma Admirante, il Marchese di Pescara, gran camerario, il signor Giovanni Andrea d’Oria, protonotario, il Conte di Potenza, gran siniscalco, et il signor don Inico d’Avalos, gran cancelliero. Et i loro sustituti, come sono [23r] il regente della Vicaria, il luogotenente della Camera et il vice protonotario, non dai loro principali, ma dal re stesso si creano. Alphonso Primo, come si legge, ordinò primieramente in questa città il Sacro Consiglio, deputandovi persone elettissime, et l’arcivescovo di Valentia per presidente; perché tutto il Regno appellandosi degli aggravii per altri tribunali lor fatti, come da ultimo et securo refugio vi ricorressero. Fu un buon tempo chiamato il Consiglio di Santa Chiara, perché in certe stanze di quello convento il suo tribunale si regeva, come hora con gli altri tribunali principali nel Castello di Capovana si vede. Vi è ancho di più de’ già detti l’officio di scrivano di ratione, che fu sempre di grandissima importantia et dignità, perché ha da tenere et dare conto di quanto del danaio regio si paga, et da mirare minutamente che non riceva il fisco alcun danno. Egli è l’officio antichissimo, et così presso Romani come presso tutti i primi prìncipi del mondo di soprema autorità et riputatione. Interviene alle mostre, alle paghe, comparte gli alloggiamenti, et si tiene che Alphonso Primo a questo officio di molti carichi aggiungesse, che egli ad alcuno de’ sette officii del Regno tolse, come in effetto si vede, che una buona parte dell’officio del gran conestabile abbraccia. Il Re Catholico, poi, che conobbe di quanta importantia questo officio si fosse, ne diede il carico al signor don Hettore Pignatello, duca di Monteleone, nostro avolo, nel quale per la sua gran bontà et prudentia confidava molto. Né da [23v] allhora in poi è più uscito dalla famiglia nostra; et hora, come sapete, è mio.

Don Giovanni. Ben collocato sta, signor don Geronimo, et ben ne haveva l’officio di bisogno, poiché è in mano d’un cavalliere di tanta modestia et bontà et di tanta accortezza et valore che, anchorché voi l’ascoltiate mal volentieri, io non posso restare di dirlo: che egli ha pochi non dico in Napoli, ma in tutto il resto d’Italia, che lo pareggino.

Don Geronimo. Troppo favore mi fate, signor don Giovanni, et assai più mi attribuite di quello che io saprei mai desiderare. Ma ritornando al nostro ragionamento, dico che vi è ancho l’officio di thesoriere, che non è anche egli di poca autorità et fede, poiché esso tutto il danaio regio conserva et distribuisce. Hanno sempre ancho gli re havuto i loro cappellani per servigio della cappella loro, et Alphonso I il cappellano maggiore instituì perché sopra questi altri cappellani minori iurisditione havesse; et hora ha ancho dello Studio publico cura. Il tribunale della Zecca co’ suoi rationali è antico molto, et è conservatore dello archivio et delle scritture antiche. Habbiamo ancho in Napoli molti altri tribunali minori, et come dai maggiori acquista sblendore et riputatione la città, così dai minori non picciola commodità ne consequisce. Egli si governa poi la città come sapete, da sei eletti che dai cinque seggi et dalla Piazza del Popolo ogni sei mesi ne’ duo solstitii dal viceré nostro si creano; il quale, di una lista di molti che gli si dà, que’ sei che a lui più paiono atti ne [24r] cava. In una stanza dentro San Lorenzo questi eletti convengono per consultare et discutere delle cose che al buon governo appartengono, come in Santo Augustino la Piazza del Popolo si rauna et consulta. Da questi eletti si suole, quando poi occorre, creare il sindico, che tutta la città rappresenta. Questo governo non è stato per l’adrieto sempre il medesimo; percioché, si legge che essendo già nata per conto del governo cruda contesa fra cittadini, il re Roberto, per quietarla, ne dividesse in tre parti la città; et che Giovanna Prima sua nepote, essendo nella città per lo medesimo rispetto nati nuovi tumulti, altri rimedii per tenerla in pace vi adoperasse. Dello Studio che habbiamo in Napoli, che ho io a dirvi altro, se non che si tiene che anticamente presso Santo Andrea fosse. Onde costumano di andare ogni anno i lettori e i studenti in processione alla chiesa di questo santo. Non si sa in che tempo fosse in San Dominico trasferito, dove nella età passata sono le stanze nuove, dove si legge, state et per ornamento et per maggiore commodità dello Studio edificate da’ fondamenti dal signore Hettore Carrafa, conte di Rubo. Federigo Barbarossa si legge che primieramente in Napoli lo Studio instituisse. Carlo Primo lo riformò, et molti privilegii li diede. Et perché si legge di Alphonso Primo che mantenesse a sue spese molti scolari napolitani in Parigi, hanno alcuni creduto che qui alhora tralasciato lo Studio fosse, et che Fernando il figliuolo lo rinovasse. Molte altre cose più in particolare dire si po[24v]trebbono, che io, per non essere necessarie, le lascio.

Don Giovanni. Io resto ben sodisfatto di quanto ragionato ci havete; desidero hora intendere alcuna cosa delle castella, che non sono di picciola importantia, et di non poco ornamento alla città; et poi ancho delle chiese, ché altro non mi pare che resti a dirsi sopra questa materia.

Don Geronimo. In Santo Augustino et in Santa Maria della Nova, ne’ quali due luoghi se ne è sempre veduto alcuno antico vestigio, furono in que’ tempi antichi già duo castelli, i quali, per stare alhora presso la muraglia, l’una parte et l’altra della città difensavano. Que’ primi prìncipi normanni poi edificarono primieramente il Castello di Capovana et quel dell’Ovo; il primo dalla porta che mena a Capova, et che gli era presso; l’altro dalla forma ovale del luogo hebbe il nome. Quel di Capovana fu da Carlo I ampliato, prima che egli al Castel Nuovo desse principio; et vi sono poi nella età nostra dal viceré don Pietro per maggiore commodità de’ negotianti i tribunali principali trasferiti. Il Castel Nuovo, adunque, hebbe principio da Carlo I, et fu poi da Alphonso I magnificamente adorno et fortificato. I suoi catalani, che qui presso al castello habitarono, diedero alla Rua Catalana il nome, come alla Rua Francesca i francesi che vennero con Carlo I et il re Roberto alla Robertina. In tempo di Roberto era presso questo castello il parco, poiché ne fa il Petrarca, che alhora viveva, mentione. Quegli ultimi torrioni et mura che cingono [25r] hoggi questo castello per ordine dell’imperatore Carlo V sono a’ dì nostri stati edificati. Né era a’ tempo di Romani altro che un picciolo scoglio che chiamavano Megara, l’isoletta dove hoggi il Castello dell’Ovo veggiamo; et ben si può credere che fosse prima con terraferma congiunta, et che per terremoto o per altro accidente distaccata ne fosse, come di Procida si dice et crede. Vogliono alcuni che sopra questa isoletta edificasse Lucullo Athanasio vescovo della città; vi edificò poi una chiesa et un convento a’ padri di san Benedetto. Normanni vi edificarono poscia il castello, che fu dagli re che seguirono ampliato sempre di mano in mano. Il Castel di Santo Hermo, come ancho il monte, da una picciola chiesa che vi era di questo santo fu così detto. Né vi era già altro prima, che una torre per discoprire dalla lunga i vasselli in mare. Carlo II, adunque, che si avide di quanta importantia quel luogo fosse per difendere la città, vi edificò una fortellezza.

Don Giovanni. Maravigliomi assai che non se ne fossero prima gli altri re passati aveduti.

Don Geronimo. Non erano in quel tempo le artigliarie, et era il luogo tanto distante dalla città che pareva di non potere esserne offesa. Né tutte le cose si possono vedere a un tratto da tutti, et fare. Ma quello che Carlo II vi fé fu poco. L’imperatore Carlo V, nostro signore, facendo spianare le fabriche antiche et marcie che vi erano, l’ha con migliore architettura quasi edificato di nuovo; et l’ha [25v] in quella fortellezza ridotto che hora si vede. Percioché, entrati le prime porte, bisogna, come sapete, per montare su nel castello, andare per certe grotte et cave fatte nel monte stesso, che lo fanno fortissimo.

Ispeditomi delle castella, ne vengo hora alle chiese. Et volendo, secondo l’ordine de’ tempi che furono edificate, ragionarne, dico che nel tempo che ne andò di Antiochia in Roma san Pietro fu qui in Napoli, et celebrò dove fino ad hoggi si mostra l’altare nella chiesa che da lui chiamiamo hora San Pietro ad Ara, et che alcuni credono che fosse prima tempio di Apollo. Et in quel tempo guarì egli di una grave e lunga infirmità Aspren cittadino napolitano, et convertitolo alla vera fede, a’ prieghi di coloro che qui ancho battezati si erano lo lasciò lor vescovo et capo. Il quale Aspren santamente visse et fé doppo la morte molti miracoli; et è un de’ padroni della città.

Don Giovanni. Non è egli picciola gloria della città l’havere così subito doppo la salute nostra et per mano del Principe degli Apostoli accettato il battesmo. Ma passiate oltre.

Don Geronimo. San Paolo fu già tempio antichissimo, et a Castore et Polluce figliuoli di Giove dedicato, come da quello scritto greco si cava che nel frontispitio della sua porta antica si legge. Era la città gentile et habitata da’ Greci quando esso fu edificato. Diventata poi Napoli christiana, fu dedicato a San Paolo, et fatto una delle parocchie della città. A’ tempo nostro è poi stato, come sapete, do[26r]nato a’ padri theatini, che con molte nuove fabriche et stanze assai ampliati dentro si sono. Dentro l’Arcivescovado vediamo hoggi la cappella, anzi chiesa di Santa Restituta, la quale si legge che nascesse in Aphrica, et che con molta santità in tempo del gran Costantino vivesse. Il quale Principe si crede che questa chiesa le edificasse; et che questa fosse la chiesa cathedrale della città finché Carlo I di Angioia la chiesa grande et magnifica che hora habbiamo da’ fundamenti ne edificò; et dove nella tribuna il medesimo Carlo è sepolto. Sul campo della chiesa di Santa Restituta debbe essere quel bel cavallo di bronzo, al quale si legge che entrando Corrado di Svevia vittorioso in Napoli ponesse un freno, che non l’haveva in segno di havere esso la città doma. Ma percioché, credendo il volgo che questo bronzo ogni infermità di cavalli guarisse, ogni cavallo infermo vi conduceva; per torre questa superstitione via, fu nel 1322 disfatto questo cavallo dal vescovo della città, et fattane una bella et grossa campana, che anchora vi è.

Don Fabritio. Se questo cavallo fu guasto, come voi dite, nel 1322, essendo già molti anni prima stata da Carlo edificata la chiesa grande, come poteva esso dinanzi alla chiesa di Santa Restituta stare?

Don Geronimo. Egli fu facile cosa, quando Carlo la chiesa grande edificò, trasferire sul campo di questa chiesa nova il cavallo. Ma come io ho tante volte detto, male si può così a punto distintamente affirmare [26v] di cose antiche, delle quali non ne appaiano annali o scritture autentiche. Assai dee hora bastare a noi che tanto se ne ragioni quanto se ne può et per scritto et per relatione altrui o per congetture sapere. Non mancherà forse un dì alcuno che, più certa notitia havutane, per sodisfarne a molti minutamente lo ponga in carta. Ma ritornando io hora alla chiesa grande edificata da Carlo I, dico che ella è assai bella, come ognun vede, et pochi anni sono che la signora Duchessa di Alba vi edificò dentro a sue spese una vaga et devota cappella perché le reliquie de’ corpi santi, che sono in questa chiesa, in quella dignità che si conviene vi si conservassero. Et vi è fra le altre reliquie, come sapete, in una ampolletta di christallo il miracoloso sangue di san Ianuario, il quale glorioso santo, essendo vescovo di Benevento, fu nella persecutione de’ fedeli in tempo di Dioclitiano da Thimotheo, governatore di questa provincia che era alhora in Puzzuoli, della corona del martirio ornato. Fu da’ fedeli nascoso il corpo; et passate quelle turbolentie della persecutione, ne fu dal vescovo et clero di questa città in processione portato in Napoli. Il medesimo fu fatto del sangue che era da una devota et santa donna stato raccolto di terra.

Don Giovanni. Per che cagione il clero in questa solennità della testa et del sangue che si fa ogni anno nel principio di maggio ne va tutto inghirlandato et di fiori adorno?

Don Geronimo. Perché in quel tempo che ne portò [27r] il clero queste sante reliquie in Napoli, et se ne fa perciò ogni anno solennità, essendo di maggio, per riparare in parte al caldo della stagione, ne colsero per quelle campagne et arbusti et frondi et fiori, et se ne avolsero il capo. Il che hoggi i nostri preti vogliono ancho, inghirlandandosi, imitare.

Don Giovanni. Gran miracolo è quello del sangue di questo santo, che, essendo duro come un sasso, tosto che col capo si vede, si liquefà et bolle.

Don Geronimo. È miracolo da fare ogni turco christiano. Et per questo è una delle principali solennità della città; et ne fanno e i seggi et la Piazza del Popolo, ognuno il suo anno, solenne apparato et festa. Di più de’ duo santi che havete intesi, Aspren et Ianuario, sono ancho padroni di Napoli san Severo, che visse in tempo del gran Costantino et fu vescovo della città, et santo Agrippino et santo Euphemio et santo Athanasio, che ne furono vescovi ancho essi; ma questo ultimo fu assai mal trattato da un suo nepote, che era alhora duca della città. Onde ne fu forzato a vivere un buon tempo in essilio, et ritornando finalmente di Roma morì per strada. Et con questi è ancho santo Anello Abate dell’ordine di san Bernardo, che morì, come vogliono, nel pontificato di Gregorio I. Ora, dall’Arcivescovado dependono quattro parocchie principali et antichissime, che sono Santa Maria Maggiore, San Giovanni Maggiore, San Giorgio, cognominato ad Forum, et Santa Maria di Porta Nova. Le quali quattro chiese si crede [27v] che fossero dal gran Costantino edificate; et già in alcuna di loro chiaramente l’antichità si conosce et la mano greca. Ma per commodità di cittadini da queste quattro altre ventidue parochie dependono. In tempo di Carlo I, che sono hora apunto 300 anni che questo Regno conquistò, fu la chiesa et convento di Santa Maria della Nova edificata. Percioché, facendo questo re edificare il Castel Nuovo, dove era una chiesa de’ frati di san Francesco, il quale era da 50 anni prima morto et canonizato, in ricompensa di questo, che lor toglieva, diede a questi frati quel luogo era del fisco, et vi era ancho una torre dell’antico castello che già vi fu. In questa chiesa, hoggi, nella Cappella del Gran Capitano è il corpo del beato Giacomo della Marca, reliquia di non picciolo momento.

Don Giovanni. Resto talvolta attonito pensando che, non havendo questo convento entrata alcuna, vi vivono di elemosina presso a 150 bocche.

Don Geronimo. Il benigno padre miracolosamente ci pasce tutti. Ora Carlo I, ancho là dove fino ad hoggi si dice a Mercato Vecchio, perché già fare il mercato vi si doveva, come ve ne è hoggi restato un segno, diede principio alla fabrica della chiesa et convento di San Lorenzo, che è l’uno et l’altro così magnifico come ognun sa. Et Carlo II il figliuolo la fornì poi. In tempo ancho del primo Carlo fu da tre devoti francesi edificato Santo Eligio, dove fu poi fatto dalla città un luogo per le donzelle orphane et honoratamente nate, ma povere, et se maritano [28r] ogni anno molte, opera di gran carità. Vi hanno ancho fatto a’ dì nostri un spedale per le donne inferme, che non ve ne è altro per donne in questa città. Nel tempo poi di Carlo II furono molte altre chiese magnificamente edificate. Era prima San Domenico una picciola chiesa a Santo Arcangelo dedicata, et vi erano alcuni pochi padri di san Benedetto. Essendo poi stato san Domenico canonizato, et predicando i suoi frati con molto fervore l’Evangelio, fu questa chiesa donata loro, et da Alessandro IIII consecrata. Ma Carlo II la ampliò et magnificò in quel modo che hora si vede. Nella sacrestia di questa chiesa si veggono come depositati nelle loro arche il re Alphonso I, il re Fernando suo figliuolo et Fernando II medesimamente. Vi è il Marchese Vecchio di Pescara, vi è Isabella di Aragona, figliuola di Alphonso II et già duchessa di Milano, con alcuni altri prìncipi d’importantia. Fu ancho opera di questo Carlo la chiesa et convento di San Martino per li frati certosini sul monte, che hora è dentro, come era pochi anni sono fuori della città. Egli ancho, come poco avanti dicevamo, diede sul medesimo monte principio al Castel di Santo Hermo. In tempo ancho di questo re si cominciò ad edificare la chiesa della Annuntiata col suo spedale, che fu poi dalla reina Giovanna II et da molte famiglie illustri per le tante opere di carità che qui si vedevano fare fatta assai ricca. Percioché, di più del doppio spedale et per gli infermi et per li feriti vi si allena un gran numero di donzelle [28v] che picciole vi si espongono, et sempre da 500 in su ve ne sono, et se ne maritano continovamente. Onde, benché la casa sia assai ricca et posseda molte castella, ha nondimeno molte volte bisogno di essere soccorsa. In tempo di questi primi re della famiglia di Angioia fu ancho la chiesa et il convento del Carmino edificato, che è così bello et grande come sapete; et vi è quella devota imagine di Nostra Signora, che sono da 65 anni che cominciò a fare et fa ogni dì tanti et così evidenti miracoli. Seguì poi il re Roberto, nepote di Carlo II, il quale nel 1310 incominciò il magnifico et grande edificio della chiesa et convento di Santa Chiara, che fu in capo di trenta anni finito già et dedicato. In questa chiesa è sepolto il medesimo re Roberto et Carlo ‘senza terra’ suo figliuolo con la regina Giovanna I, nata di questo stesso Carlo. Nel tempo del medesimo Roberto furono fondati altri tre monasterii di monache: San Francesco, l’Egittiaca et la Madalena, che la madre di questo re edificò. Il monasterio della Croce, dove hora sono frati di san Francesco, fu dalla reina Sancia, moglie di questo Roberto, essendo restata vedova per sua stessa habitatione edificato. Percioché, vestitasi dell’ordine di san Francesco, con alquante altre monache qui si rinchiuse, et vi fornì il restante della sua vita, che fu assai poco. La chiesa della Incoronata fu edificata in tempo di Giovanna Prima, et dalla strada questo cognome tolse, che era così detta per esservi stato solennissimamente il re Roberto incoronato. E [29r] in quella chiesa Giotto fiorentino, famoso pittore di quella età, vi fece di sua mano molte pitture. I padri dell’ordine celestino hebbero primieramente fuori della città l’Ascensione, che hora l’hanno. Per havere ancho poi luogo nella città ottennero Santa Caterina a Formello, che era una picciola cappella. Gli re di Aragona, poi, cavandone que’ pochi frati che vi erano, vi posero le monache della Madalena per volere essi di quel luogo servirsi, onde le monache uscivano, et tenervi una parte della corte, per essere alla Duchesca vicino, dove facevano essi per ordinario la vita loro. Et a’ frati celestini fu edificato presso Porta Donn’Orso all’opposito capo della città il convento et chiesa di San Pietro a Maiella. Ma perché tutti i corteggiani in quel luogo della Madalena morivano, fu alle monache il loro convento reso, ed data Santa Caterina ad alcuni pochi et poveri frati predicatori della congregatione di Lombardia. Il qual luogo è stato poi nella età passata con le elemosine di alcuni potenti molto ampliato et accresciuto di padri, et vi si fabrica ancho hoggi, perché vi resta ancho molto che fare. Et vi hanno fatto un bellissimo et ornatissimo choro. La chiesa et convento di Monte Oliveto, poiché l’ordine istesso non sono più che duecento anni che hebbe principio su quel di Siena, fu qui fundata dalla famiglia Origlia, et magnificata poi da Alphonso II di Aragona. Fu Santo Spirito fundato da’ frati di san Basilio, i quali, partendone, lasciarono in tempo di Alphonso Primo a’ frati [29v] predicatori il luogo. San Giovanni, che dalla strada ha il cognome di Carbonara, fu già picciola cappella, la quale un devoto francese, frate di santo Augustino, in tempo di que’ primi re di Angioia ampliò. Ladislao, poi, la nobilitò assai più, et vi volle essere sepolto, come se ne vede all’altare maggiore quella sua magnifica tomba. Vi è ancho sepolto poi nella bella cappella, che le è dietro, Giovan Caracciolo, gran siniscalco del Regno et l’anima della reina Giovanna II. Vi si vede modernamente fatta la cappella del signor Cola Antonio Caracciolo, marchese di Vico, la quale con la sua incredibile vaghezza et magnificentia lascia l’animo di chi la mira et considera assai sodisfatto et contento. Santo Augustino fu già anticamente, come si è detto, un castello della città. In tempo poi di Normanni, vi fu la chiesa et il convento edificato, et dalla città ampliato di tempo in tempo.

Ma chi, volendo di tutte le chiese di Napoli ragionare, ne verrebbe a capo giamai? Io voglio con questa sola parola finirla, et se ne conoscerà insieme la grandezza della città, che di donne monache solamente di diversi ordini habbiamo da trentadue monasterii; et nella maggior parte di loro sono donne nobili et illustri, et ne sono consequentemente i conventi ricchi. Onde molti ne vivono assai accomodatamente, et ve ne sono di santissima vita. Et perché vediate quanto la città ogni dì si va più magnificando, et con nuovi edificii ne va del continovo nuova faccia prendendo, consideriate un poco meco quante [30r] chiese da pochi anni in qua si sono edificate et si edificano tuttavia. Già vi ho poco avanti detto che poco tempo ha che Santa Catherina a Formello ne è a quella grandezza venuta che hora vediamo. San Gioachino quanto tempo è che fu da questi signori Castrioti edificato. San Luiggi, che era una picciola cappella fabricata da san Francesco di Paola, negli anni non molto a dietro è stato ampliato et fatto tale quale si vede. Santa Maria del Parto non è mille anni che fu dal dotto Sanazaro nel colle stesso di Mergellina edificata et dotata, et volle esso esservi sepolto dentro. Il medesimo dico di Santa Maria di Costantinopoli, di San Nicola trasferito dove hora è, della Charità sulla Strada di Toledo et degli Incurabili co’ suoi duo celebri spedali, et per gli uomini et per le donne, che pure hieri, si può dire, la signora Longa li diede con tanta carità principio. Questo stesso dico di San Paolo, tanto nobilitato di fabriche et di padri di essemplare vita; et del colleggio del Giesù, dove con tante prediche et lettioni fanno que’ padri tanto utile che ha loro questa città grande obligo. Che dirò di San Giacomo, di Santa Maria di Loreto, della Redentione di Cattivi, ne’ quali tre luoghi, che pure hieri possiamo dire che siano fatti, con varie opere pie tanta carità vi si adopra quanta ogni un fa. Ora, non si fanno hoggi apunto di elemosine Monte Calvario, Sant’Anna del Monte, lo Spirito Santo et Santo Spirito sopra Pizzofalcone, che riusciranno tutte chiese di non poca importantia et decoro della città. La chiesa nuova di San Severino, seben si cominciò [30v] a fabricare in fin dal tempo di Alphonso II, non è fino ad hoggi finita, et ne va tuttavia la fabrica avanti. Le elemosine poi grandi, che in questa città si fanno, sono incredibili con le tante hospitalità et mastranze per maritare tante povere donzelle.

Onde si può ben dire che queste tante buone opere prosperino la città, et ne smorzino l’ira di Dio, che per la soprema malvagità di cattivi, che ancho vi sono, ci dovrebbe havere inabissati mille anni fa.

Don Fabritio. Voi dite bene il vero signor don Geronimo, perché ne so io qualche parte; et sono più le elemosine secrete et grosse che non le publiche che noi vediamo. Ma voi ci havete fin qui taciute le cose del contado, come se nulla alla vaghezza et commodità della città appertenessero.

Don Giovanni. A tempo l’ha il signor don Fabritio ricordato. Perché mi parea che non so che mancasse ancho a dire, né potea sovenirmi, et era questo. Siché, seguendo oltre, signor don Geromino, non ci defraudate di questa ultima particella.

Don Geronimo. Che posso io dire altro sopra questa materia di che hora mi richiedete, se non che Napoli ha il più bello et utile contado che habbia città del mondo. Egli sono et dentro la città et fuori giardini bellissimi, et non si può chiedere o desiderare frutto che in gran copia et perfettione, et quasi ogni mese dell’anno, non vi si trovi. Le sue colline sono tutte culte, et le masserie che vi sono delitiosissime. Le campagne, poi, ampie et piane, et parte campestri, parte [31r] arbustate, sono fertilissime et vaghissime tutte. Et vi sono tante ville, et così bene habitate, che non casali, ma grosse terre si possono piutosto dire. Ma lasciamo i luoghi più lontani dalla città, dai quali ci viene continovamente grandissima copia di tutte le cose necessarie alla vita, et ragionamo un poco de’ luoghi più vicini. Ora, che luogo si può desiderare più delitioso al mondo, che la felice costiera di Posilipo, come il nostro Sanazaro la chiama; anzi, il colle istesso, così ben culto et di tanta amenità che non so dove possa l’huomo ritrovarla maggiore. Esso è una parte di questi colli che cingono la città; et si sporge a guisa di un braccio in lungo verso mezzo dì forse tre miglia in mare; et pare che si stenda per abbracciare la sua bella Nisida, che ne è di poco spatio divisa: piacevolissima isoletta, et vagamente in persona di una nimpha convertita in quel monte dal nostro poeta celebrata. Vogliono che fosse già Nisida una cosa istessa con terraferma; et che Lucullo, perché si fugisse la lunga navigatione che si faceva girando Nisida, cavasse qui dove è hora il mare, fra l’isola et terraferma, et vi facesse una ampia et maravigliosa grotta, sotto la quale commodissimamente si navigava. Onde ne fu perciò da Quinto Tuberone chiamato Xerse togato, per havere esso nella pace et nell’otio cavato quel monte, come già Xerse armato guerreggiando co’ Greci cavò il Monte Athos disgiungendolo da terraferma. Rovinò poi col tempo la volta della grotta, et ne restò l’i[31v]soletta da terraferma disgiunta. Et dalla parte di Posilipo fino ad hoggi si veggono alcune grotticelle, che, dalla somiglianza che hanno con le gabbie degli uccelli, la gaiola le chiamano. Egli è piano il monte et pieno di ville amenissime et di giardini. Nel capo del colle fu già un tempio della Fortuna là dove è hoggi Santa Maria a Fortuna. Dall’altra parte verso Oriente è la dilettevole Mergellina, celebrata tanto dal Sanazaro, che in questo luogo, come poco avanti dicevamo, nella chiesa da lui sotto nome di Santa Maria del Parto edificata giace sepolto. Onde, se hebbe mai Napoli cosa che la illustrasse, la ha questo divino ingegno nella età nostra co’ suoi dotti scritti fatta così celebre che gliene possono bene havere invidia et Mantova et Smirna, anchorché de’ primi ingegni della poesia si vantino. Da questa parte è cavato il monte per commodità di chi viene di Cuma o di Puzzoli in Napoli, et si tiene che fosse opera di Cocceio, cittadino romano che in tempo di Augusto visse. Le bocche di questa grotta erano in tempo di Re Roberto assai strette. Alphonso I la ampliò in gran parte, né mai, come vogliono, fu dentro questo luogo maleficio alcuno commesso. Sull’uscirne all’aere aperto da questa parte sopra il monasterio di Pedigrotta si crede che già il sepolcro di Vergilio fosse. Ora, questo stesso monte, stendendosi oltre verso Oriente, prende altri nomi. Percioché, non ne va doppo Santo Hermo molto oltre, et viene chiamato Antignano o dal[32r]la nimpha Antiniana, che alcuni poeti celebrata hanno, o dall’imperatore Antonino opure per havere quasi a fronte il lago di Agnano. Più oltre, poi, verso San Gennaro il chiamano la Conocchia, et nell’ultima sua parte Capo di Monte, et finalmente Capo di Chio, dove la sua prima erta incomincia. Questo Monte di Santo Hermo, dove noi siamo, dalla parte che risguarda verso Posilipo, tanto è egli con la sua amena et habitata piaggia delitioso et di aere così temperato et soave che quando alcuno, come sapete, di qualche sua indispositione vuol rihaversi, procura di havervi per qualche giorno una stanza; et con la vista de’ vaghissimi giardini et del mare, et con la auretta che dalla tanta varietà de’ fiori et frutti, anziché dalle fronde istesse degli alberi et dalle herbe così soave et salubre ne spira, ne ritorna in breve da morte a vita.

Don Giovanni. Et io havrei sempre giudicato questo luogo di cattivo aere, per essere a mezzo dì esposto et a scirocco, che sono regioni humide et poco utili, né salubri alla vita nostra. Et l’occhio, che non vi ritrova montagne incontra dove la vista si termini et riposo, ma un mare aperto, se ne stanca agevolmente, et vi sente poco diletto.

Don Geronimo. La isperienza istessa mostra il contrario, cioè che questo luogo di cattivo aere non sia. Et se ancho la ragione attendete, vedrete che qui paludi non sono che possano grosso et maligno [32v] aere causare. Quanto all’essere il luogo a mezzo dì volto, dico che il monte istesso, nelle cui falde si habita, mitiga et contempera quel di male che potrebbe da quella regione venirne; la quale non è tanto di mezzo dì che non ne partecipi ancho ponente, che co’ suoi delicati et soavi venticciuoli induce anzi ricreatione agli spiriti che noia né affanno al corpo. Quel che mi dite poi della vista scoverta al mare non è egli del tutto vero. Percioché, sebene ha la costiera di Massa et di Capre alquanto lungi et di fianco, ha nondimeno assai da presso la vaga et amena vista di Posilipo, che ogni stanco et afflitto occhio ricreerebbe. Et ritornando al nostro primo ragionamento, dico che dove è hora Cappella, vogliono che fosse già una grotta, o picciolo tempio da’ gentili a Serapide dedicato. Qui presso è il Piatamone, dove nelle sue grotte fresche acque scaturiscono, che nel vicino mare ne vanno. Questo luogo per le sue acque et presso gli antichi et nella età passata era molto delitioso. Hora, come vedete, è da pochi anni in qua andato in rovina per la nuova fabrica, che rinchiude il monticello di Echia nella città. Scrive Strabone che Napoli hebbe già bagni di acque calde non men salubri di quelli di Baia, seben non in tanta copia; et credono molti che questi bagni nel Piatamone fossero. Tutti questi luoghi sono con tanta vaghezza stati celebrati dal Sanazaro, che malgrado del tempo et del ferro che il lor vago gusto ci toglie, eternamente vivranno. Nell’altra [33r] marina, che alle falde del fertile Vesuvio vediamo, hanno ancho molti per la amenità del luogo edificato, et fattala di molti vaghi edificii et pastini adorna. Il secretario Berardino Martirano vi edificò la sua bella villa di Pietrabianca, che, con le sue vive acque et belle stanze che egli vi fece, fa che ogni delicato ingegno desideri di vederla et goderla. Né si sdegnò l’imperatore Carlo V nostro signore, ritornando dalla impresa di Tunigi, di haverla prima che entrasse in Napoli per suo albergo. Et perché pare che sia questa contrada fatale ai secretarii del Regno, ancho il secretario Giovanni di Soto, in una sua vaga villa che ha nella medesima piaggia dalla signora Cornelia di Bernardo sua moglie havuta, si diporta assai volentieri; et innamorato del luogo, ogni dì più con nuove fabriche et pastini il nobilita et ne fa la sua vaghezza maggiore. Tratti dalla medesima amenità della contrada vi hanno ancho duo regenti di Cancelleria, il signor Francesco Antonio Villani et il signor Antonio Patigno, accomodate oltremodo due altre loro vaghissime ville, dove essi ogni volta che loro si conciede tempo di respirare dai molti negotii et gravi, ne’ quali continovamente occupati sono, vi si ritirano per ricrearvisi, et con effetto sommo contento vi sentono; come il signor Francesco Revertero regente ancho egli suole, quando gli si dà tempo, nel suo castello di Crispano ritirarsi per suo diporto.

Don Giovanni. Io vi veggo tacere, come se non vi avanzasse altro che dire; o come se tutta la eccel[33v]lentia della città consistesse nelle fabriche, delle quali tanto ragionato ci havete; et ancho nelle persone nobili, giudiciose et riputate che le fabriche, anzi le città istesse, fanno.

Don Geronimo. Che volete che io dica della tanta nobiltà che ha Napoli, se non che, come già nel principio di questo nostro ragionamento si disse, ella se ne lascia di gran lunga tutte le altre città d’Italia, et forse di Europa, adietro. Et non sono io per entrare questa volta a discorrere o ragionare de’ cavallieri di gran valore, che han sempre in varii tempi co’ loro preclari gesti questa città illustrata; sì perché sono tanti, che non se ne verrebbe agevolmente a capo, come ancho perché non potrei mai dirne abastanza, et se ne offenderebbe et macchierebbe piutosto la virtù loro. Questo solamente per una picciola vostra sodisfatione non tacerò che papa Bonifatio IX della famiglia di Tomacelli et papa Giovanni XXIII della famiglia de’ Cossi et papa Urbano VI et papa Paolo IIII, che fu pure hieri, della famiglia de’ Carrafeschi, furono tutti napolitani. Non dico de’ cardinali, perché ne ha havuto un gran numero et persone di molta importantia tutti. Papinio Statio, celebre poeta in tempo di Domitiano, non fu egli napolitano? Et Vergilio, anchorché lombardo fosse, non visse egli qui un buon tempo, come in luogo nel quale sentia maraviglioso contento? Onde, benché poi altrove morisse, volle esservi nondimeno sepolto. Ioviano Pontano, così celebre oratore [34r] et poeta, anzi in ogni facultà dottissimo, et perciò agli re di Aragona in questo Regno carissimo, sebene egli non vi nacque, non ne visse ancho egli in Napoli quasi tutto il tempo della sua vita? Anzi, fattone cittadino, vi lasciò con la sua ornata cappella honorata memoria. Archia, poeta et maestro di Cicerone, non fu ancho egli fatto con suo molto contento di animo cittadino napolitano? Questo istesso si potrebbe dire di molti altri eccellenti letterati. Ma tutti sono stati di gran lunga avanzati dal signor Giacomo Sanazaro nostro cittadino, che tanto nella poesia si avanzò, che co’ migliori antichi gareggia di maggioranza. Il Duca di Atri, che fu nel medesimo tempo, o poco prima, ha egli forse molti compagni che nella eccellentia delle dottrine et delle buone lettere il pareggino? O ha egli hoggi forse questa nostra età molti che di gran lunga arrivino al segno, dove giunto vediamo il signor Ferrante Carrafa, marchese di Santo Lucido, che così vagamente scrive nella lingua nostra, come sapete? Egli mi pare che il cielo istesso influisca sopra questo sito, tanto de’ beni suoi, che per gratia del Signore ne abondiamo, in modo che ce ne dovremmo assai contentare.

Don Fabritio. Parmi che, se i beni sono molti, come voi dite, siano assai bene contrapesati dai mali; poiché, come nel principio di questo ragionamento si toccò, vi sono ancho delle nature [34v] purtroppo disposte a travagliare la altrui quiete. Onde, come acconciamente il divino Homero diceva che sulla porta del suo palagio ha Giove due grandi urne piene, l’una di beni, l’altra di mali, et che, mandando qua giù nel mondo le anime, empie loro da queste urne il seno et di beni et di mali, ma più di mali; così pare che egli il medesimo facesse, se a questi favoleggiamenti attendiamo, madandone qua giù il genio di questa felice et compiuta città.

Don Geronimo. Io sono così innamorato et della amenità del sito et della grandezza et bellezza della città, che poco attendo a qualche neo che ella habbia; et ho solamente l’occhio et il cuore alla eccellentia et vaghezza di lei. Et quando veggo che Virgilio la chiama dolce Partenope, io mi sento raddolcire a un certo modo il cuore nel petto, et gioisco tutto legendolo. Quando mi aveggo che Ovidio le dà talvolta titolo di faconda, talvolta di dotta, io pura di allegrezza non sento. Quando mi accorgo che Silvio Italico la chiama aprica, et il suo Statio secreta, ringratio il cielo, che così belle qualità date le habbia. Quando Marco Tullio dice che nel tempo che molti congiuravano in Roma contra la libertà della patria, Silla se ne venne a stare in Napoli, luogo del tutto alieno et fuori di simili suspetti di congiura; et non tanto atto ad accendere gli animi de’ calamitosi, quanto a consolarli et lenirli nelle miserie loro; mi rallegro io sommamente con essolei di questa così buona opinione, [35r] nella quale presso quegli antichi era. Ora, se l’imperatore Federigo II chiama nelle sue Constitutioni questo Regno bellissimo giardino, quale è il suo vaghissimo et pretiosissimo pomo di oro, se non questa nostra così pregiata città? Per la qual cosa, volto talhora a lei, con tutto il cuore esclamo et dico: o generosa et dolce patria mia, quanto dei tu, quanto noi altri tutti ringratiare il Signore Dio, che colma ti habbia di tanti beni, et fatto a te tante gratie quante a molte altre non ne fé mai. A te parte alcuna non manca che per fare bella et commoda una città si richieda. Tu nobilissima et di tanta cavalleria adorna, quanta non ne ha quasi tutto il resto d’Italia insieme. Tu di tutte quelle eccellentie dotata che possono nobilitare et abbellire qualsivoglia città. Tu di tutti que’ beni abondevole, che sono per la humana vita necessarii, et di più di tanta perfettione et bontà che chi ti gusta una volta non ti abandona più mai. Tu da tutti et nel generale et nel particolare celebrata et lodata tanto quanto altro vago et degno luogo lodare et celebrare si possa. In te di ogni stagione si gode una amenissima primavera. In te, quando è crudissimo inverno altrove, la natura con gratissima temperie produce et ci dà qui et fiori et frutti. In te ne’ maggiori caldi estivi, mercé della moderata benegnità del tuo cielo et della fresca aura delle tue acque, incredibile rifrigerio sentiamo. Che loda può intelletto humano imaginarsi, che a te compiutamente dare non si possa? Tu grande, tu [35v] bella, tu signorile, tu vaga, tu amena, tu ricca, tu popolosa, tu in piano, tu in colle, tu di culte et amene colline cinta, tu col mare da presso, tu di vive acque abondevole, tu con ampissime et fertilissime campagne intorno, tu nel centro della più felice et celebre contrada del mondo, tu da tante città convicine, anzi da tutta Italia, come reina delle altre, continovamente frequentata, visitata, goduta; tu (et ben puoi di questo più di altro pregiarti) hai per re, per signore et per padre il maggiore, il più benegno et il più giusto principe che habbia tutta la terra. Il perché io quanto più posso, ti lodo; io per quel che più vaglio, ti celebro; io perché isvisceratamente ti amo, ti benedico; et come cosa dilettevolissima et soavissima, con tutto il cuore ti abbraccio et stringo; et prego per te la bontà del Signore, che in quella prosperità ti mantenga, che noi tuoi amantissimi figliuoli con tutte le viscere desideriamo.

Don Giovanni. O che mi havete data la vita, et quanto vi dee havere obligo questa città, poiché tanto l’amate et la celebrate al cielo. Ma una cosa mi pare che taciuta ne habbiate, et questo è che io ho letto alcuna volta et inteso che ella sia stata più volte presa et talhora ancho saccheggiata. Et perciò aspettava ancho io di intendere delle cose a lei o buone o ree di tempo in tempo avenute.

Don Geronimo. Di più tempo havrebbe havuto bisogno il nostro ragionamento, se queste altre cose [36r] ancho si fossero dovute dire. Onde, perché mi pare che si sia hoggi assai detto, potremo dimane, se a voi così piace, ritrovarci in casa mia insieme medesimamente, et il signor don Fabritio, che so che è più fresco che non sono io nel legere gli historici, di questo, che a dire manca, ci ragionerà, et ci goderemo un’altra simile giornata insieme.

Don Giovanni. Dice bene il signor don Geronimo. Et per vita Vostra, signor don Fabritio, non mancate di favorirci in questo che io molto il desidero.

Don Fabritio. Sarei assai discortese a negare a cavallieri a’ quali io tanto desidero servire cosa che io mai far possa. Ma non voglio però a più obligarmi che a quello, et fin dove la memoria mi accompagnerà.

Don Geronimo. Noi più di questo non ne vogliamo; et so che con questo ci sodisfarete. Ma leviamoci di qui, et andiamne ancho noi un poco a vedere dall’altra parte il vago aspetto dell’ameno et delitioso Posilipo.

Don Giovanni. Andiamo.

Il fine del primo libro.