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Carlo Celano, Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per i signori forastieri, divise in dieci giornate (= volumi), Napoli, 1692.

Giornata I.

[69]Del bello, dell’antico e curioso della Città di Napoli. Giornata Prima, la quale principia dalla Cattedrale, si calerà dalla porta laterale, detta dell’Aguglia, s’anderà per la strada detta di Capovana o della Vicaria, visti i Tribunali, si passerà alla Strada di Carbonara e da quella a quella di Santa Sofia e, tirando per Somma Piazza, per davanti la chiesa de’ Santi Apostoli e del Palazzo arcivescovale, indi si salirà per il vico detto d’Avellino, e girando dalla Porta di San Gennaro per sopra la muraglia detta di Sant’Anello, terminarassi la giornata nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli.

È ben di dovere che i signori forastieri, giunti nelle città più [70] magnifiche e rinomate, visitino la Chiesa Cattedrale; che però, trovandosi nella nostra città di Napoli, nel primo giorno devono principiare dalla nostra, che sta situata nell’antica Regione di Capuana. Dicesi Capuana perché stava vicino alla porta per la quale a Capua s’andava. Edificata si vede fra due strade, le più antiche e le maggiori della nostra città: quella di sotto veniva chiamata di Sole e Luna, perché in essa era il Tempio d’Apollo e più avanti quello di Diana, come appresso si dirà; l’altra piazza di sopra, avanti della casa arcivescovale, anticamente veniva detta la Somma Piazza, per essere l’ultima e la più alta che fusse nella nostra città.

Il vicolo per lo quale dalla Piazza di Sole e Luna si va alla Cattedrale, veniva chiamato Raggio di Sole, benché io trovi che questo era detto semplicemente del Sole, e Raggio di Sole era un altro vicoletto [71] che stava poco prima del già detto del Sole, e che a’ nostri tempi fu chiuso quando si principiò la cappella del nostro Sacro Tesoro.

Arrivati alla chiesa, per prima vedesi una commoda piazza, quale fu fatta fare dal re Carlo Secondo d’Angiò, ma prima d’entrarvi è bene dare una brieve notitia della sua fondatione. In questo largo stava edificato un famoso tempio fin da’ tempi de’ greci dedicato ad Apollo, come se ne vedono le vestigia, e da me anco sono state osservate. Ed ultimamente, nel tempo del signor cardinale arcivescovo Caracciolo, di buona memoria, facendosi il pavimento di marmo in una sepultura che sta presso del choro (che era gentilitia della nobilissima famiglia d’Ajerba d’Aragona), quale era sedici palmi a fondo, sotto del suolo vi era un bellissimo pavimento antico, tutto lavorato quasi a mosaico, di picciole pietre di marmi mischi e bianchi, che era, [72] cred’io, quel che detto veniva opus vermicolatum. Et io senza dubio stimo che fusse stato il pavimento del già detto tempio, e l’argomento dall’havere osservato dentro d’un’altra sepultura vicino di questa, che tirava avanti la Cappella del Tesoro, un gran pezzo di muraglia nobilmente lavorato d’opera laterica e reticolata che dava senza dubio inditio d’esser fattura greca: e queste due sepulture, non so perché, ambe sono state coverte dai marmi del pavimento. Altri dicono che vi fusse stato il Tempio di Nettuno, come appresso ed a suo luogo se ne discorrerà con dare altre notitie.

Darò di più un’altra curiosa notitia. Nell’anno 1687, essendo giunto in Napoli l’eminentissimo arcivescovo Pignatelli, mi comandò che gli havessi fatto fare il sepolcro nella chiesa; non trovai vacuo che un po’ di luogo d’undeci palmi di lunghezza che nel mezzo del [73] coro, presso la sepoltura del cardinal Carafa; ed ordinando una scala, per comodamente calare nella cameretta che stava sotto la lapida ornata di bronzo, nel cavarsi si trovò quattro palmi sotto un pavimento fatto de’ nostri lapilli battuti, che da noi vien detto d’astrico. E credo bene che era il pavimento fatto in tempo quando da Carlo Primo e Secondo fu fatta fare la nuova chiesa, e che poi fusse rimasto così sotto, quando il cardinal Dezio Carafa alzò il coro. Cavati tre altri palmi, si trovò un altro pavimento di mattoni, larghi più d’un palmo e mezzo in quadro: e questo giudico che fusse stato il pavimento della antica chiesa di Santa Restituta. Cavato poi cinque altri palmi o poco più, che uniti agli già detti venivano al numero di palmi dodeci in circa, vi si trovò un pavimento di marmo cipollazzo e bianco, che da me si stimò essere stato il pavimento dell’[74]antico Tempio d’Apollo. Questa basilica di Santa Restituta fu fatta edificare col materiale del detto Tempio d’Apollo, servendosi delle colonne, capitelli ed altri marmi delli quali formato veniva il detto tempio, come appresso se ne darà più evidente notitia.

In questo luogo dunque Costantino il Grande edificar vi fece una famosa basilica in honore della vergine e martire santa Restituta, trasportandovi le sacre reliquie dall’isola d’Ischia, e la croce di detta basilica stava appunto dove è la nave maggiore di questo sacro tempio. La basilica già detta fu nominata in diversi tempi con diversi nomi: per prima si chiamò chiesa di Santa Restituta, poscia fu detta Santa Maria del Principio, essendovi stato unito l’oratorio di Sant’Aspremo nostro primo vescovo e di Santa Candida nostra prima christiana: nel quale orato[75]rio stava dipinta la gran Madre di Dio col suo figliuolo Giesù in seno, come più diffusamente si dirà nell’osservare questo sì gran santuario. Fu anco chiamata del Salvatore, per l’imagine del Signore che vi stava a musaico, simile a quella di Roma, su l’arco maggiore di detta chiesa. Fu anco appellata la Stefania, a cagione che negl’anni del Signore 502 in circa fu riedificata ed accresciuta da Stefano Primo nostro vescovo napolitano.

E circa gl’anni 764, essendo stata consumata dal fuoco derivato dal cereo pascale, che nella notte del sabbato santo vi si lasciava acceso, fu rifatta da Stefano Secondo, che prima fu duce e poscia vescovo di Napoli.

Altri dicono che questo nome di Stefania derivi dalla voce greca Stefanos, che significa corona, atteso che avanti dell’immagine del Salvatore ci erano dipinti i ventiquat[76]tro Vecchi dell’Apocalisse che presentavano le corone al Salvatore; ed anche la devotione de’ napoletani presentava in ogn’anno una corona d’oro o d’argento alla detta sacra imagine, le quali in detta chiesa si conservavano: però detta veniva la chiesa delle Corone. Fu anco chiamata San Lorenzo, per una cappella aggiuntavi dedicata a san Lorenzo nostro vescovo circa gl’anni 914.

In tempo poi di Carlo Primo, da detto re (a spese però de’ napoletani) fu principiata questa nuova chiesa, benché io trovi che fusse stata principiata da’ svevi; in ogni maniera (seguendo la commune de’ scrittori) dico dagl’angioini, e circa gl’anni 1299 fu terminata dal re Carlo Secondo, concedendo che si fusse potuto esigere un grano a fuoco in ogni settimana per due anni continui, per la spesa da farsi nella fabrica di così maestoso tempio. Qual tempio fu egli princi[77]piato col disegno e modello di Nicolò Pisano, architetto fiorentino, e finito da Maglione, allievo di esso Pisano.

Vedesi questa chiesa formata alla gotica, in mezzo di quattro torri quadre all’uso di fortezza: e fu dedicata alla gloriosa Vergine Assunta. Negl’anni poi 1456, a’ 15 e 30 di decembre, furono terremoti così horrendi che rovinarono, con la morte di sessantamila persone, non solo molte città, castelle e terre del Regno, ma anco una buona parte della nostra città e, fra questa, parte della nostra Cattedrale. La pietà del gran Alfonso Primo d’Aragona stabilì a proprie spese riedificarla; ma la divotione di molte e nobili famiglie napoletane vollero esservi a parte; e fra queste famiglie vi furono la Balzo, la Caracciola, l’Ursina, la Pignatella, la Zurla, la Dura ed altre, et il re commendando il devoto affetto [78] verso la propria chiesa, ordinò che ognuna di esse havesse poste l’armi gentilitie in quelle parti che reedificate havessero, come al presente si vedono, e nei pilastri e negl’archi, quali sono tutti di durissimi travertini e di colonne di granito, e le mura sono tutte d’opera reticolata.

Hor con questa notitia dell’edificatione si può ben entrare nella chiesa, ed osservarne le parti: e prima devesi osservare la porta. Questa fu fatta da Arrigo Minutolo, arcivescovo di Napoli, cardinale del titolo di Sant’Anastasia e poi vescovo Tusculano e finalmente Sabino, negl’anni del Signore 1407, come si legge dall’inscrittione che, per esser di lettere longobarde e difficile ad esser letta, qui si trasporta:

Nullius. in longum; & sine schemmate, tempus honoris
Porta fui rutilans, sum janua plena decoris.
Me meus, & sacra, quondam Minutulus Aula,
[79] Exoluit propriis, Henricus sumptibus, hujus
Proesul Apostolicæ: nunc constans carde columnæ;
Cui precor incolumen vitam, post fata perennem.
Hoc opus exactum, mille currentibus annis,
Quo quatercentum septem Verbum Caro factum est.

La struttura di questa porta fu stimata ricca di tutto quel bello e maestoso che poteva dare l’architettura e la scultura di quei tempi, sì per l’intagli e per le statue, come anco per l’architrave e per li stipiti, che sono di tre soli pezzi, che per la loro altezza e grossezza danno meraviglia; le due colonne di porfido erano dell’antico tempio. L’architetto e scultore di questa machina fu l’abbate Antonio Bambocci da Piperno.

Entrati nella chiesa, per prima vi si veggono cento e dieci colonne antiche, osservandosene per ogni pi[80]lastro tre: ne’ maggiori del’arco cinque, e nelle cappelle laterali della tribuna, et anche nella tribuna medesima, e nell’uscire dalle navi alla croce; e tutte sono di granito d’Egitto, d’Africano e d’altre sorti di pietre mischie che non vennero in Italia se non in tempo de’ greci e de’ romani. Per lo che devesi credere che queste erano, come si disse, dell’antico Tempio d’Apollo, eretto da’ gentili prima degli anni della nostra salute. Inoltre non si trova che Carlo Primo e Secondo, o Alfonso che lo rifece, havessero fatto venir colonne di marmi stranieri; e se pure l’havessero fatte venire, l’havrebbero ordinate a misura del disegno della fabrica, e non disuguali come queste. Le colonne degli pilastri stanno hoggi incrostate di stucco, e coverte in qualche parte dalle basi, similmente di stucco; si osservavano (quando stavano discoperte le basi ed i capitelli) di marmo bianco greco. [81] Vedesi tutta modernata, et il primo a ciò fare fu il cardinal Detio Carrafa, che innamorato di questa sua sposa, e trovandola mal disposta all’antica, con quelle finestre lunghe e coverta da soli tetti, con isplendidezza propria della sua nascita e del suo gran cuore cercò di nobilitarla et abbellirla con la maestosa suffitta dorata che vi si vede, ricca di pretiosi quadri usciti dagli nostri eruditi pennelli napoletani, essendo che nella nave maggiore i tre quadri sono opera di Fabritio Santafede, gl’ovati sono di Giovan Vincenzo Forlì, quelli della croce sono similmente del Santafede, dell’Imperato e d’altri. Similmente ridusse le finestre nella forma che si vede e stuccò la chiesa da sopra gl’archi in su. Vi fece ancora il famoso Battisterio che nell’entrare si vede dalla parte dell’Epistola, che forse simile non se ne vede per l’Italia, trasportandovi il fonte eretto da Costantino, [82] come si dirà. Vi fece anco il coro, nella forma e grandezza che hoggi si vede, con le spalliere tutte di finissimo marmo, con mezze statue che rappresentano i Santi Protettori.

Il cardinale arcivescovo Innico Caracciolo, imitando questo suo gran predecessore, con liberalità degna di sé, la stuccò tutta e l’adornò di quadri con le sue cornici dorate, ne’ quali stanno espressi i Santi Apostoli, i Santi Protettori della città e li sacri Dottori della Chiesa, che son tutti del pennello del nostro Luca Giordani. E di più vi fece un bellissimo apparato per tutta la chiesa di damasco cremesi, guernito tutto d’ampie e ricche trine d’oro con bellissimi francioni nei fregi, della stessa materia, nelle quali spese da quattordicimila scudi; et anco l’arricchì di bellissimi argenti, come si vedranno nella sacristia.

In detta nave vi sono due famosi organi. Quello dalla parte dell’E[83]pistola fu fatto fare dal cardinale Ranuccio Farnese, che forse è il più bello et il più buono che sia non solo in Napoli ma fuori, e fu opera di fra Giustino da Parma, frate francescano. I portelli che lo coprono sono stati dipinti da Giorgio Vasari, e gli Santi protettori ch’in esse si vedono portano i ritratti dei signori della casa Farnese: in quello di San Gennaro vi si riconosce papa Paolo Terzo, avo del Cardinale Arcivescovo; nell’altro appresso, Ascanio Sforza, nipote del Papa, conte di Santafiora e cardinale; Alesandro Farnese, cardinale nipote del Papa; Pier Luiggi Farnese, figliuolo del Papa; Ottavio Farnese, figlio di Pier Luiggi, duca di Camerino; Tiberio Crispo castellano di Sant’Angelo, e poi cardinale; il più giovane, che sta nel mezzo con la mitra in testa, è l’effigie di esso Ranuccio, cardinale arcivescovo. Nel di dentro poi di detti por[84]telli, dove sta espressa la Natività del Signore, nella Vergine si vede il ritratto d’una nipote del Papa; nel san Gioseppe un altro dell’istessa casa Farnese; i pastori sono ritratti d’alcuni intrinseci familiari di esso pontefice; il Davide che vi si vede è d’un cardinale carissimo al detto papa. L’organo dalla parte dell’Evangelio fu fatto fare dall’eminentissimo cardinale Ascanio Filomarini, e fu opera di Pompeo di Franco, nostro napolitano, e benché in tutto non si possa uguagliare alla bontà del primo, con tutto ciò viene stimato de’ migliori tra’ moderni. I portelli, nei quali stanno da fuori dipinti gl’altri nuovi Padroni e nel di dentro la Santissima Vergine Annunciata, son opera del nostro Luca Giordani. Il pergamo fu egli fatto a spese della famiglia Caracciola, detti della Giojosa, e la tavola di marmo che sta davanti, nella quale sta [85] espressa la Predicatione di Giesù Christo, è opera del Caccavello, nostro scultore napoletano. Questo fu buttato giù dallo stucco, che li cadde su nel terremoto che accadé nei cinque di giugno del 1688, et è stato rifatto. Il pavimento di detta chiesa fu fatto da Ciarletta Caracciolo. Doppo 170 anni fu dagli successori di detto Ciarletta, nell’anno 1603, ristaurato. Nell’anno poscia 1681, dal monte fondato da detto Ciarletta fu ridotto in marmo nella forma ch’hoggi si vede.

Arrivati nella tribuna, dove sta situato il maggiore altare, per prima s’osservi la tribuna. Questa, minacciando ruine, fu a spese dell’arcivescovo Alesandro Carrafa rifatta. Nell’anno 1506, essendo stato dal gran cardinale Oliviero Carrafa edificata la Confessione, che noi chiamiamo Soccorpo, che sta sotto di detto altare, come si vedrà, la tribuna fece motivi tali che stava per ruinare. Essendo stato fatto arcive[86]scovo, il cardinale Alfonso Gesualdo la fece con ispesa grande riedificare ed adornare con istucchi posti in oro, e vagamente dipingere da Giovanni Balducci fiorentino, esprimendo in dette dipinture in ogni quadro un’attione d’un santo protettore, et anco di quegli altri santi de’ quali nella Cattedrale si conservano le reliquie. E nel quadro che sta dalla parte dell’Evangelio, dove sta espresso il nostro glorioso protettore San Gennaro, il cardinale che vi sta inginocchiato è il ritratto naturalissimo dell’arcivescovo Alfonso Gesualdo, ed il ragazzo che tiene l’ampolle del sangue è il ritratto d’Ascanio Filomarino (che poscia fu dignissimo cardinale et arcivescovo di Napoli), carissimo in quel tempo al detto cardinal Gesualdo. In questa tribuna vi erano le sepulture regie del re Carlo Primo d’Angiò, di Carlo Martello re d’Ungheria e di Clemenza d’Austria, figliuola di Ridolfo imperadore, con questa iscrittione nella sepultura di Carlo I:

[87] Conditur hac parva, Carolus Rex Primus in urna
Parthenopes, Galli sanguinis altus honos.
Cui sceptrum, & vitam sors abstulit invida, quando,
Illius famam perdere non potuit.

Questi sepolcri furono disfatti quando il cardinal Gesualdo rifece la tribuna, e restarono l’ossa di cotesti signori senza honore: lo che saputosi da Henrico Gusmano conte d’Olivares, nell’anno 1599 gli fece erigere un bellissimo sepolcro su la porta maggiore, dove anco collocò le tre statue antiche de’ detti due re e regina, come al presente si veggono e si può leggere dall’inscrittione che vi sta.

In detta tribuna vi sono due bellissimi sepolcri: quello dal lato dell’Epistola è egli d’Alfonso Carrafa, cardinale arcivescovo di Napoli, nipote di papa Paolo Quarto, quale morì in Napoli, con poco affetto del successore al zio. Doppo, il [88] pontefice Pio Quinto, riconoscendo la bontà et innocenza di detto cardinale, gli fece erigere detta memoria; e le statue che in essa si vedono furno lavorate in Roma da un allievo di Michel’Angelo Buonaruota. L’altra sepoltura, che sta dirimpetto a questa dalla parte dell’Evangelio, è del cardinale Alfonso Gesualdo. Le statue che in essa si veggono furono opera di Michel’Angelo Naccarini.

La tavola maggiore, dove sta espressa la Vergine Assunta con li santi Apostoli di sotto et un cardinale inginocchiato, quale è il ritratto al naturale del cardinale Oliviero Carrafa, per ordine del quale fu la detta tavola dipinta, è ella opera di Pietro Perugino, che fu maestro di Rafaele d’Urbino. Gl’ornamenti di marmo gentile di detto altare furono fatti per ordine del cardinale arcivescovo Ascanio Filomarino. Sotto di quest’altare vi si conservano tre corpi [89] santi, e sono di sant’Agrippino, vescovo e protettore di Napoli, che qua fu trasferito dal cimiterio di San Gennaro extra Menia, dove gli fu edificata una chiesa picciola, presso a quella di San Gennaro circa l’anno 450 da Vittore nostro vescovo, come fin hora se ne veggono le vestigia, e de’ santi martiri Eutichete et Acutio, compagni e discepoli di san Gennaro: quali due corpi santi furono da Stefano secondo di tal nome, nostro vescovo, trasferiti da Pozzuoli nella sua antica chiesa, e poscia trasferiti in questo luogo, edificata che fu la nuova chiesa. Nel piano avanti di quest’altare vi è il sepolcro del cardinale Rinaldo Piscicello, nostro arcivescovo, morto in Roma nell’anno 1457 e qua poscia trasferito.

Calando poi da dett’altare da ambi i lati della già detta scala, vi si veggono due altre bellissime scale di marmo, ben lavorate et ornate con finissimi intagli d’arabeschi e [90] di figure picciole nei lati; et in quello della parte dell’Evangelio vi si vede il Carro del Sole, con diversi segni del Zodiaco; e fra questi il segno di Gemini, che sono due giovani abbracciati insieme, lo che ha dato motivo ad un perfido eretico oltramontano d’empiamente scrivere che nella chiesa napoletana vi stanno scolpite figure profane e lascive. Sopra di queste scale vi sono due bellissime inscrittioni, una in versi, che sta dalla parte dell’Epistola, e l’altra in prosa, composte da Pietro Gravina, nostro canonico napoletano, huomo insigne nella letteratura che fu della famosa accademia di Gioviano Pontano: e fu così nobile nello scrivere epigrammi, che il nostro famoso Giacomo Sanazaro dir solea che in questo genere di scrivere egli ceder dovea a Pietro Gravina.

Calate queste scale per due porte di bronzo ben lavorate et isto[91]riate, s’entra nella confessione, che volgarmente da noi vien detta Soccorpo. Questa sì bella machina fu, per ordine et a spese del grand’Oliviere Carrafa, principiata al primo d’ottobre dell’anno 1492, col disegno, modello et assistenza di Tomaso Malvita da Como, architetto e scultore singolarissimo in quell’età. E veramente cosa né più bella né più ammirabile veder si può. È questa lunga palmi quarantotto, larga trentasei et alta non più che palmi quindeci, tutta di finissimi marmi intagliati con arabeschi e diverse figurine, che son di meraviglia ad ogn’occhio che ben le guarda. Né in questi nostri tempi sono imitabili, come se n’è veduta l’esperienza nel Finelli, che volle imitarne alcuni. La suffitta, ch’è divisa in molti quadroni di marmo alti più d’un palmo, sta ella appoggiata sopra diece colonne d’ordine ionico, sette delle quali sono di marmo cipollazzo, che si stimano [92] essere state avanzo del già detto Tempio d’Apollo, atteso che da più di dieciotto secoli non viene in Italia simile sorte di marmi. La detta soffitta poi è tutta lavorata con bellissimi cartocci e diverse figure di basso rilievo. Vi sono anche d’intorno dodeci necchie vaghissimamente lavorate ed ornate, con gli suoi altarini, ne’ quali il cardinale Oliviere haveva disegnato di collocarvi le reliquie de’ santi protettori: ma non fu eseguito per la morte dello stesso cardinale. Dietro dell’altare vi si vede al vivo la statua del detto cardinale col suo habito concistoriale spiegato, inginocchiato et appoggiato su del faldistorio, che dicono essere opera del Buonaruota, che né più bella né più spiritosa veder si può.

Sotto dell’altare, poi, si conserva il sacro corpo del nostro glorioso martire e protettore san Gennaro, del quale è bene darne una brieve [93] notitia come qui hora si conservi. Questo santo fu egli nostro cittadino, promosso al vescovato di Benevento nella persecutione contro della chiesa sotto l’imperio di Diocletiano e Massimiano, negl’anni del Signore 305. Da Timoteo, preside di Campagna, fu come seguace del Crocifisso imprigionato e menato da Benevento a Pozzuoli, e presso la Solfataja a’ 19 settembre ricevé la corona del santo martirio. Alcuni pii napoletani presero il cadavere del di loro concittadino e l’ascosero in un luogo detto Marciano, che sta fra la Solfataja et il Monte Spina. Circa poi gli anni 381 sotto l’imperio di Costantino il Grande (nel qual tempo la Chiesa godeva quiete), san Severo, in quel tempo canonico presso del publico cimiterio di Napoli (come a suo tempo si vedrà), fe’ cavare una chiesa dentro del monte, e col vescovo, ch’era Giovanni primo di questo nome, col clero e cittadini, fra’ quali vi [94] erano i parenti del santo, processionalmente trasferirono le sacre reliquie nella già detta chiesa; et ivi san Severo e ’l vescovo Giovanni con le proprie mani le collocarono, trasportando nella Cattedrale il sacro capo e due ampolle del suo pretioso sangue. Furono nella chiesa sudetta riverite le sacre reliquie sin nell’anno 817, nel qual tempo Sicone principe di Benevento, havendo assediata Napoli né potendo ottenerla, rapì il sacro corpo e lo trasportò in Benevento. Negl’anni poi 1159 in tempo del re Guglielmo, che espugnò Benevento, fu con altre reliquie trasferito nel monistero di Montevergine, dodeci miglia da Benevento distante, e dicesi per dono del detto re, che haveva promesso ad un santo monaco, che gl’haveva predetta la vittoria, di far partecipare delle spoglie degl’inimici (se vincitor rimanea) il detto monistero. Altri vo[95]gliono che detta traslatione fusse succeduta nell’anno 1240, in tempo di Federico Secondo, che diede il guasto al territorio beneventano, e che i beneventani havessero mandato a custodire al detto monistero questo sì gran tesoro; e quivi stiede per gran tempo, né punto ve n’era memoria.

Nell’anno poi 1480, essendo commendatore del monastero Giovanni cardinal d’Aragona, figliuolo di Ferdinando Primo, volendo riparare et abbellire la chiesa, nel rimovere l’altar maggiore per trasportarlo più su, vi trovò sotto una tavola di marmo che battuta rimbombava: fu tolta, e sotto vi trovarono diverse urne similmente di marmo, e fra queste una che chiudeva il corpo del nostro santo, con una lamina di piombo su della quale scolpito ne stava:

Corpus Sancti Ianuarii, Episcopi Beneventani, & Martiris

Allegro oltremodo il cardina[96]le per haver trovato un tanto bene, cercò, con l’ajuto del re suo padre, di poter impetrare dal sommo pontefice la consolatione indicibile de’ suoi napoletani, col farli rihavere il tanto desiderato e sospirato corpo del di loro padre e protettore; ma effettuar non si poté, atteso che la morte (come si disse) col veleno de’ funghi lo tolse dal mondo in Roma a’ 17 d’ottobre dell’anno 1485; fu poi effettuato dal cardinale Oliviero Carrafa, che succedé alla commenda di detto monistero di Montevergine. Questi, a’ prieghi dello stesso re Ferdinando, ottenne doppo qualche tempo dal sommo pontefice Alesandro Sesto breve diretto ad Alesandro Carrafa suo fratello, arcivescovo di Napoli, di potere trasferire il corpo del santo dal detto monistero nella sua chiesa. In eseguirlo vi trovò molto contrasto degli monaci. Alla fine l’ottenne e, chiuso in uno baullo di velluto [97] cremesi, da sé giamai lo discompagnò, portandolo con una benda pendente dal suo collo et appoggiato su l’arcione della sella del suo cavallo et ad un’hora di notte, giorno di venerdì de’ 13 gennaio dell’anno 1497, giunto presso le porte della città, si scalzò et a piedi nudi introdusse nella sua chiesa questo cotanto desiderato pegno. Volle questo glorioso nostro gran padre e protettore dar segni d’allegrezza nel rivedere la sua antica stanza e patria con gratie segnalate, fra le quali segnalatissima fu che, ritrovandosi nel tempo già detto la nostra città da una fiera peste molto malmenata a segno che quasi dishabitata appariva, mentre che de’ cittadini, per isfuggirla, parte s’era ritirata nelle ville e parte ne stava sequestrata in casa, arrivato il sacro corpo né pur uno ve ne morì più. Fu collocato nell’altare maggiore, dove stiede finché dal gran Oliviero fu terminata [98] questa famosa cappella dove fu collocato, come si vede, ponendo il baullo già detto con le sue autentiche dentro d’una forte cassa di bronzo, ben chiusa; è questa sotto dell’altare di sodo marmo. Nel primo altare che sta dalla parte dell’Evangelio avanti della finestra, casualmente vi si trovò il corpo di san Massimo, trasportato dalla distrutta Cuma in Napoli, la testa del quale, in una bellissima mezza statua d’argento fatta dal cardinal Caracciolo, si conserva nella sacristia, come si vedrà; et anco il corpo d’un fanciullo di tre mesi, il quale, per haver fatta testimonianza della santità di Massimo, fu dal consule Fabiano fatto crudelmente smembrare.

Usciti dal detto Soccorpo e tirando per l’istessa parte dell’Evangelio, si vede la cappella e sepolcro d’Anibale Bozzuto, cardinale del titolo di San Silvestro, quale morì nell’anno 1565 in Roma e fu qua [99] da Fabritio Bozzuto, suo fratello ed erede, trasportato. Sopra di questa cappella vi era una [tavola nella quale vi è espresso il Crocefisso e di sotto il ritratto di esso cardinale e del fratello arcivescovo, quale tavola hoggi sta trasportata nell’altro pilastro dalla parte dell’Epistola, sopra la Cappella della famiglia Dentice. La tavola che sta nell’altare di detta cappella (che è altare privilegiato per li morti) dove si vede espressa la Vergine col suo figliuolo Giesù in braccio et alcuni angeli che estraggono l’anime dal Purgatorio, ella fu dipinta dal Cotignola.

Presso di questa siegue l’antica cappella della famiglia Galeota, dove si conserva la Sacra Eucharistia. Sotto l’altare di questa vi si conservano i corpi de’ nostri santi vescovi Attanasio e Lorenzo, et anche Giuliano e Stefano. Questa famosa cappella fu dal non mai abastanza lodato Giacomo Galeota, [100] figliuolo di Fabio Galeota, ambi regenti della Cancellaria e consiglieri del supremo Collateral Consiglio, abbellita et adornata, come si vede, di stucchi posti in oro, di dipinture e di pretiosi marmi, con una custodia e paliotto ricchi di molte pietre pretiose, con due bellissime memorie. Quella dalla parte dell’Evangelio, del regente Fabio, fu disegno del cavalier Cosimo Fansaga, e la medaglia col ritratto del detto regente in basso rilievo è di mano del detto cavaliere, in tempo ch’era in età di ottantadue anni. L’altra memoria dalla parte dell’Epistola, del regente Giacomo duca di Sant’Angelo, fu copiata dalla prima, e la medaglia che vi pende di mezzo rilievo è opera di Lorenzo Vaccari nostro napoletano, giovane di gran valore e di grand’aspettatione nella scultura, allievo del detto cavaliere; et a questi ornamenti e depositi dal regente Giacomo, di buona [101] memoria, vi furno spesi più di diecimila scudi.

Siegue appresso la cappella antica della casa Loffredo, poscia quella del Seminario, che fu detta di San Lorenzo, vescovo di Napoli, dalla quale la chiesa, come si disse, un tempo prese il nome di San Lorenzo; et in questa fu sepellito il sommo pontefice Innocentio Quarto che morì in Napoli nell’anno 1240, che fu il primo a dare il cappello ai cardinali. E questa funzione fu fatta in Napoli, come si riconosce da un quadro che sopra detta sepoltura ne stava. Questa sepoltura fu fatta fare da Umberto di Montauro, detto il Metropolita, arcivescovo di Napoli, negl’anni del Signore 1318; e questa cappella ha dato motivo a molti scrittori d’errare, scrivendo che Innocentio fosse stato sepolto nella chiesa di San Lorenzo martire, dovendo dire nella Cappella di San Lorenzo vescovo di Napoli. In questa stessa cappella l’ar[102]civescovo Umberto vi eresse un altare in honor di San Paolo con uno beneficio, per lo che venne chiamata San Paolo de Umbertis. Quivi hoggi s’unisce la congregatione de’ nostri preti missionarii, fondata dalla cima del nostro clero. E questi con uno spirito e zelo apostolico s’impiegano all’evangelica predicatione, e nella città e per lo Regno, con frutti grandi dell’anime; et a dette missioni vanno a spese proprie, contribuendo tanto per ciascheduno, né altro ricevono dai luoghi dove eglino si portano e dove da’ vescovi son chiamati, se non un luogo coverto dove possano riposare e ristorarsi. Per questa medesima cappella si va nel Seminario, che è uno dei più cospicui forsi dell’Italia, allevandosi in esso da ottanta giovani in circa, tra alunni e convittori, così nella bontà della vita ecclesiastica come nelle buone lettere, loro insegnandosi grammatica, rettorica, filo[103]sofia, canoni e teologia, come anco a ben scrivere e musica, in modo che da questo luogo ne sono usciti soggetti degni nella pretura. Presso di detta cappella si vede la sepoltura di esso Innocentio IV, e qua fu trasportata dall’arcivescovo Anibale di Capua, mentre nel luogo dove prima si riposava stava quasi incognita et il sepolcro mezzo rovinato, havendone tolto i lavori in mosaico che vi stavano, come si vede dall’epigrafe che detto arcivescovo di nuovo vi pose sotto l’antica, che in versi leonini fu composta dall’arcivescovo Umberto, che comincia

Hic superis dignus, requiescit Papa benignus.

Appresso siegue una cappella in isola, tutta di bianchi marmi. Questa fu prima edificata dal famoso Bartolomeo di Capua, gran protonotario del Regno di Napoli, e stava nell’uscir del coro; poscia, essendo stato il detto coro riedificato nella forma che si vede dal car[104]dinale Detio Carrafa, fu questa cappella trasportata in questo luogo dal gran Conte d’Altavilla, discendente del detto gran protonotario. E mi maraviglio come non vi trasportassero l’onorate et antiche inscrittioni che vi stavano.

Siegue appresso di questa cappella la sepoltura del re Andrea, figliuolo secondo di Carlo Uberto re d’Ungheria, fatto miseramente morire con un laccio mentre a diporto dimorava nella città d’Aversa. Dicono alcuni scrittori che ciò accadde per opra di Giovanna Prima sua moglie, altri di Carlo di Durazzo, per succedere al Regno. Morto quest’infelice signore, fu egli miseramente sepolto, senza honore alcuno, in un cantone della chiesa d’Aversa, ma la pietà d’Ursillo Minutolo canonico napoletano, non comportando ch’il cadavere di sì gran personaggio così empiamente morto vilmente giacesse sepolto, a spese proprie lo fe’ portare in Na[105]poli e seppelir lo fece nella regal Cappella di San Lodovico, che è la sacristia, come si dirà, ed ivi l’eresse un sepolcro come meglio poté. Ma poi Francesco Capece, abbate di Mirabella, imitando la generosità di Ursillo vi fece imprimere il seguente epitaffio:

Andreæ, Caroli Vberti Pannoniæ
Regis F. Neapolitanorum Regi
Ioannæ uxoris dolo, e laqueo necato,
Vrsi Minutoli pietate hic recondito:
Ne Regis Corpus insepultum; sepultumue facinus
Posteris remaneret,
Franciscus Berardi F. Capycius
Sepulcrum, titulum, nomenque
P.
Mortuo anno xlx. m.ccc.xlv. cal.14.
Octobris.

Questo sepolcro stava dentro la cappella, come si disse; l’arcivescovo poi Anibale di Capua, quando la ridusse in sacristia, lo fe’ trasportare nel luogo dove al presente si vede. [106] Segue appresso la sacristia, la quale, come si disse, fu cappella fondata da Carlo Secondo e dedicata a San Lodovico, suo parente, nella quale si possono vedere per prima quelle dipinture et osservare in che stato stava 350 anni indietro quest’arte, essendo che, per essere detta cappella opera d’un re, è da stimarsi che l’havesse fatta dipingere da’ migliori artefici di quei tempi. Vi si veggono molte historie della vita del santo, et i padri cappuccini, nella lite che hebbero circa la forma dell’habito, s’avvalsero di questa dipintura per la forma del cappuccio acuminato et attaccato all’habito, mentre san Lodovico, in un’historia nella quale ministra il cibo a’ poveri, in questa forma il porta. Vi è qui dentro una cappelletta fatta fabricare dall’arcivescovo Anibale di Capua, dov’egli sta sepolto e dove soleva ascoltare ne’ tempi pascali le confessioni. Sopra la porta di questa cap[107]pelletta vi è un quadro bislungo, il quale stava su la sepoltura d’Innocentio Quarto, nel quale sta espresso in figure picciole lo stesso pontefice che di sua mano dà il cappello alli suoi cardinali, e questa cappella sta presso il fonte dove i sacerdoti si purificano le mani.

Nell’altare poscia della sacristia vi è un armario chiuso da un portello di tavola dipinto da Giovan Balducci. In questo armario si conservano molte belle et insigni reliquie: e per prima un pezzo del sacro legno della Croce, collocato in una croce d’argento dorato, con molte pietre pretiose legate in oro e smalti antichissimi, lasciata a questa chiesa dal cardinal Carbone nostro arcivescovo; un pezzo della faccia di san Giovanni Battista, che dallo stesso arcivescovo fu tolta da quella che sta in Roma, e la tolse con la bocca mentre la baciava; vi è una costa di san Paolo apo[108]stolo, che hora si custodisce in una statua tutta intera d’argento, di sei palmi e più, fatta fare dal cardinale Innico Caracciolo; vi è ancora una reliquia di san Pietro apostolo, che anco si conserva in un’altra statua simile alla prima fatta fare similmente dallo stesso cardinale arcivescovo, quali due statue ultimamente fatte, per non poter capire nell’armario sudetto, si conservano in un altro; un osso del braccio del santo apostolo Tadeo; una mola di santa Apollonia; una costa di sant’Agrippino vescovo e protettore di Napoli; una reliquia di san Liborio fatta venire dal cardinal Caracciolo da Paterborna, dove si conserva il suo corpo in un’urna di vetro posta in argento; vi si conservano reliquie di sant’Andrea apostolo, di san Luca evangelista, di san Gregorio papa, di san Biase martire; vi si conserva un dito di santa Lucia; in una sfera d’ar[109]gento, si racchiude una parte del fegato del santo cardinale et arcivescovo Carlo Borromeo; in un’altra cassetta la dalmatica di detto santo; in una statua d’argento la testa del santo levita Massimo; et un’altra mezza statua della nostra prima christiana santa Candida che tiene in mano il maraviglioso bastone del glorioso principe degl’apostoli san Pietro, che nel modo seguente è pervenuto alla chiesa napoletana. Essendo questo santo capitato nella nostra città per passare in Roma ad evangelizzare la cattolica fede, la prima ch’egli incontrò fu questa Candida, dalla quale si informò de’ costumi e qualità de’ napoletani e della religione che usavano. Indi cominciò ad insinuarli le dottrine di Giesù Christo, che per lo genere humano sparse tutto il sangue in un tronco di croce, e delle gratie e doni che compartiva a’ suoi fedeli seguaci. [110] Candida, allettata da quest’ultime voci, disse che volentieri havrebbe creduto a Christo crocifisso ch’egli diceva, se in nome di quello liberata veniva da un gran dolore che di continovo l’affliggeva il capo; san Pietro in nome di Giesù presto la liberò. Candida, in vedersi libera, adempì la promessa credendo in tutto quanto Pietro gli disse, e ricevé il battesimo; battezzata, supplicò l’apostolo a volere rendere in nome dello stesso Christo la salute ad un suo parente, detto Aspreno, che da molti e molti anni stava inchiodato in letto.

Pietro gli disse che l’havesse menato a sé: “E come?” (rispose Candida) “S’egli muover non si può?”; all’hora replicò il santo vecchio: “Prendi questo bastone, portaglielo, e digli ch’in nome di Giesù crocifisso, appoggiato a questo, a me ne venga”. Candida con fede grande l’eseguì, e consignatolo ad Aspreno, e dettoli quanto col vecchio ebreo passato havea, Aspre[111]no, appena presolo et appoggiatovisi, sano tornò e vigoroso; ed in quell’istesso punto si portò dall’apostolo, dal quale catechizzato ricevé il battesimo e fu creato vescovo di Napoli. E questo è quel bastone che da san Pietro fu mandato ad Aspreno, il quale non si sa, né si è potuto sapere, di che specie di legno egli sia, non essendovene in queste nostre parti. L’appoggiatojo è egli d’avorio, svoltato dall’una parte e l’altra a modo d’una croccia. Possiamo noi ben dire che la nostra chiesa conserva una delle più belle reliquie che veder già mai si possa. In detta sacristia si ponno vedere e li bell’apparati che vi sono, e particolarmente quelli fatti dal cardinal Caracciolo, e gli argenti consistenti in croci, candelieri et altri vasi, e particolarmente gl’ultimi, fatti dal sudetto cardinale, e per la materia e per lo lavoro ammirabili: e fra questi una croce per il maggiore altare alta [112] dodeci palmi e più, opera di Giovan Domenico Vinaccia nostro napoletano.

Usciti da questa sacristia e tirando avanti, si vede la porta minore della chiesa, che va nel cortile delle carceri alla porta battitoja del seminario et alle porte del Palazzo arcivescovale. Presso di questa picciola porta vi è un vaso d’alabastro cotognino, in forma di pila, che serve per l’acqua benedetta. Questo, per antica traditione d’alcuni, si ha che fusse un’antica idria degl’ebrei, dove nelle nozze serbavano il vino, e veramente ella è degna d’esser osservata; ed in una colonna scannellata di bianco marmo che sostiene il primo arco dalla parte del coro vi si conserva il passo geometrico napolitano di ferro, in modo che negli antichi istromenti, quando si vendeva qualche territorio da misurarsi, si diceva ad passum Sanctæ Ecclesiæ Neapolitanæ.

[113] Passata questa pila, segue la Cappella della famiglia Seripanda, dalla quale nacque il gran cardinale Seripando, lume de’ letterati e vera colonna di Santa Chiesa, com’egli dimostrò nel Sacro Concilio di Trento, dove presiedé. In questa cappella vi è una tavola dove espressa si vede la Vergine col suo morto Figliuolo in seno, la Madalena et altri santi, opera di Francesco Curia nostro napoletano.

Segue poscia la Cappella della famiglia Brancaccia, indi due vaghe cappellette di bianco marmo (egregiamente lavorate dal Caccavello e dal nostro Giovanni Merliano detto di Nola) della famiglia Barile, nobile del seggio di Capuana, già spenta. E sopra di questa cappelletta vi è un quadro dipinto a fresco, dentrovi la Vergine Assunta con gl’Apostoli di sotto, opera del nostro famoso dipintore Andrea Sabbatino detto di Salerno, cosa [114] degna d’esser veduta.

Seguono le porte per le quali s’entra nell’antica e prima chiesa di Napoli, nominata, come si disse, Santa Restituta. Questa chiesa è degli canonici perché Costantino il Grande, edificata e fondata che l’hebbe, vi instituì quattordici canonici perché servita l’havessero. Di questa gran basilica però altro non vi è rimasto che la nave maggiore, ancorché non intera, perché la croce fu buttata giù da Carlo Primo per far la nuova chiesa, come fu detto; e dove hoggi sta l’altare maggiore v’era la porta che corrispondeva alla Somma Piazza.

Per quel che hoggi si vede si può argomentare che sia stata fabricata con gl’avanzi del Tempio d’Apollo, come nel principio accennato fu, mentre né le colonne né i capitelli sono uguali, e molte di dette colonne sono d’un genere di marmo che non è venuto in Italia se non in tempo de’ greci, come ap[115]punto è il marmo cepollazzo; e nell’altar maggiore vi è un’antichità degna d’esser veduta, e si è la mensa dell’altare maggiore, quale è un’antica conca lunga otto palmi e mezzo e lata cinque scarsi, quale sta appoggiata sopra quattro arpioni che hanno faccia di leoni di bianco marmo, e fin hora si conoscono esser stati dorati. Questa conca da tutti gli anticarii viene stimata pira di sacrificii, et il capitolo per servirsene la tiene coverta di tavole, acciò che si renda piana per lo sacrificio della santa messa. Sotto di questa pira vi si conserva il corpo di san Giovanni detto Acquarolo, nostro vescovo, che resse la chiesa dagl’anni 838 fino alli 849. Le due colonne antiche d’ordine corintio e di marmo bianco che stanno agli lati di detto altare non vi è dubbio che siano antichissime, e forsi prima di quelle che stanno nella chiesa di San Paolo, che era il tempio augustale dedicato a [116] Castore e Polluce; e queste due colonne si stima ch’havessero sostenuto l’arco maggiore, su del quale a musaico stava effigiata l’imagine del Salvatore con gli Ventiquattro Vecchioni dell’Apocalisse che offerivano le corone. E da ciò si ricava ch’essendo passato l’altare dove al presente si vede, vi passarono ancora le due colonne, e per mantenere la memoria, non potendo farla a musaico perché in quei tempi questo modo era in tutto perduto, glielo fecero dipingere alla buona a fresco; e perché in Italia la dipintura era quasi in tutto dispersa, vi collocarono la testa del Salvatore, effigiata in tavola con maniera greca, e forse venuta da Grecia, dove alquanto la dipintura si manteneva. Et è tanto vero questo, che volendo la Republica di Venetia dipingere il tempio di San Marco, fece venire alcuni artefici da Grecia, dagli quali Cimabue nell’anno milleduecentotrenta in circa ap[117]rese il modo di dipingere con qualche garbo e con qualche poco di disegno. Erano le dipinture che qui stavano di maniera antichissima, e perché stavano quasi cadenti furono fatte rifare nel modo che si veggono, come anche si sta restaurando come meglio si può, perché lesa in molte parti si vedeva e dalle antichità e dal terremoto ultimamente accaduto. Il pavimento di questa chiesa, essendo fatta la chiesa di fuora, restava molto a fondo, e però fu di bisogno alzarlo più di due palmi e mezzo, e con questo vennero a rimaner sotterrate le basi delle colonne.

Vengasi hora ad osservare qualch’altra antichità in detta chiesa, e per prima, nella parte dell’Evangelio, vedesi il santuario di Santa Maria del Principio. Questo era un picciolo oratorio di Sant’Aspreno e di Santa Candida, dove dipinta ne stava sul muro, e proprio nella nec[118]chia ch’al presente si vede, l’imagine della Vergine col suo Figliuolo in braccio, di maniera greca. Essendo poi stata incorporata alla basilica di Santa Restituta, santa Elena madre di Costantino la fe’ ponere in mosaico e vi fece aggiungere dalla destra San Gennaro, poco prima martirizzato, e dalla sinistra la vergine e martire Santa Restituta. La detta figura di San Gennaro, per esser fatta vicino il tempo del suo martirio, stimasi fatta al naturale; e però Carlo Secondo, volendo egli fare la statua di San Gennaro d’argento dorata per chiudervi la testa del nostro santo protettore, ordinò ch’il modello si cavasse da detta figura. Questa cappella, o pure come altri chiamarono oratorio, fu ella consecrata circa gl’anni 324 a’ 9 di gennajo dal santo pontefice Silvestro; e l’altare della consecratione vedesi intero perché, essendosi alzato il pavimento, la mensa restava bassa, che però i canoni[119]ci, per non togliere la consecratione sopra di detta mensa, alzarono un piano di tavole per rendere l’altare commodo, in modo che l’altare antico sta un palmo in circa più basso; e vedesi questa tavola bellissima et intera che nel fronte è quadrata e nel di dietro è tonda.

Si stima che sotto di quest’altare vi sia il sacro corpo di santa Restituta con altre reliquie, perché prima i sacrificii si facevano sui sepolcri de’ martiri, et hora la Santa Chiesa, nel consecrare le pietre su delle quali hassi a celebrare, ordina che vi si collochino le reliquie dei santi; e questo vien chiamato Sepolcro, accioché, con ragione, il sacerdote, finito l’introito, baciando l’altare doppo l’invocatione de’ santi, possa dire: “Quorum reliquie hic sunt”.

Nell’altare consecrato da san Silvestro nel mezzo non vi si veggono reliquie né sepolcro; dunque necessariamente han da star di sotto [120] per l’antico rito, e standovi si può piamente stimare che vi stia il corpo della santa vergine e martire Restituta e d’altri santi. In quest’altare il santo pontefice Silvestro concesse infinità d’indulgenze, come testificato ne viene dall’inscrittione a musaico che si legge sotto della detta sacra imagine, in questo tenore:

Lux Deus immensa, postquam descendit ad Ima.
Annis tercentis completis, atque per actis.
Nobilis hoc templum, Sancta construxit Elena
Silvestro grato Papa donante Beato.
Hic bene, quanta datur venia, vix quisque loquatur.

Et in questa inscrittione è bene avvertirsi due cose: la prima si è che quest’inscrittione vi fu posta doppo che santa Elena passò in cielo, per la voce “santa” che vi sta posta, essendo che in vita non li [121] sarebbe convenuta, e si stima da alcuni che vi sia stata posta da Giovanni Mediocre vescovo di Napoli circa gl’anni 550, essendo che questo prelato fece rifare a mosaico molte cose consumate dal fuoco nella chiesa di Santa Restituta; il secondo è nell’avvertire la parola “hoc templum Sancta construxit Elena”: dovendosi intendere non della chiesa di Santa Restituta, havendo noi nei sacri concilii, negl’atti di Damaso, che fusse stata edificata e dotata da Costantino, ma dell’oratorio di Santa Candida, trovandosi in moltissimi codici e scritture antiche che in quei primi tempi davano titolo di chiesa e di tempio ad ogni picciola cappella, come chiaramente si vede nominata per chiesa la cappella antica di San Gennaro extra Menia, fatta fabricare da san Severo, che altro infatti non è che una picciola grotte rincavata in un monte, come a suo tempo si vedrà. E così tempio potevasi chiamare que[122]sto luogo, benché picciolo, ancorché habbia perduto le sue forme antiche essendo stato rifatto da’ canonici alla moderna. Per ultimo devesi dire che questa sia stata la prima imagine della Vergine esposta alla publica adoratione non solo in Napoli, ma per tutta l’Italia, e però dicesi Santa Maria del Principio.

Presso di questo gran santuario, dalla parte dell’Evangelio, vi è un altarino, sotto del quale vi si conserva il corpo del beato Nicolò Eremita, di nation lombarda, del quale è bene darne qualche notitia a’ curiosi. Venne questo pellegrinando in Napoli e, conosciutolo per luogo confacente alla sua divotione, s’elesse una povera grotticella presso la chiesa di San Gennaro, e quivi con asprissime penitenze visse per vent’anni; quivi anco era una picciola cappelletta, hora detta Santa Maria della Chiusa, anticamente del Cir[123]colo. Le tentationi poi ch’egli patì per opra del comun nemico furono infinite e grandi, ma sempre il perfetto eremita ne restò vincitore. La fama della sua bontà correva da per tutto, onde la regina Maria, fattasene devota, da quando in quando gli mandava qualche limosina per un servo nominato Perottino, della città d’Aquino. Questo, instigato dal demonio, si pose in testa d’ucciderlo, laonde ad undeci di maggio del 1310 armato e solo si portò dal santo romito verso un’hora di notte, e trovollo che orando stava nella cappelletta. In vederlo, sorridendo gli disse Nicolò, come veniva con armi essendo solito sempre d’andare inerme; rispose l’empio: “Vengo così per ucciderti”. L’huomo da bene, riflettendo al modo, al tempo et alla solitudine, l’hebbe a dire: “Perinotto, se hai tu questo pensiero, ricordati d’essere christiano”, e, per dissuaderlo, gl’apportò molti esempii di casti[124]ghi accaduti agl’omicidarii; ma dal risoluto giovane fu interrotto dicendo: “Non puoi tu persuadermi: o tu hai da uccider me, o hai per le mie mani da morire”. Nicolò, vedendolo così risoluto, gli rispose: “Ch’io habbia da toglier la vita non piaccia a Dio; se tu poi in me conosci cosa ch’offeso t’habbia, fa’ pur quel ch’a te pare”, e ciò detto ritirossi in un angolo della cappelletta. Perinotto sguainò la spada e mortalmente lo ferì. Cadde il sant’huomo, e nel cadere disse: “Ti perdoni Iddio pietoso, e fra tanto, figliuol mio, salvati, salvati presto”, e poco doppo, invocando il suo Redentore, spirò. Il giovane homicida cercando di scappare si trovò inpotente, come appunto havesse havuto un grosso sasso ligato al piede, e così stiede dalle due della notte fino al matino, nel qual tempo alcuni operarii, per riprendersi le loro vanghe et altri istromenti che finite le loro giornate lasciar soleano alla custo[125]dia del romito per girsene nelle loro case sgravati da quel peso, visto un così horrendo spettacolo, uno d’essi corse a darne avviso al governator della città, il quale senza fraponervi tempo, con la sua famiglia armata v’accorse e trovò Nicolò morto et il giovane Pirottino con la spada nuda et insanguinata nelle mani. Fece inceppare l’empio e spogliare Nicolò per riconoscere le ferite e, denudato, trovossi tutto cinto di cilitii e di catene di ferro, servendoli di camiscia una pelle d’orso che dalla parte pilosa copriva la carne e sopra di questa portava una veste di canape. Ne fu data parte alla regina, la quale, al maggior segno dolente del caso accaduto, ordinò che se gli fussero fatte l’esequie, e fra tanto vi concorse infinità di popolo a venerare il divoto cadavere dal quale usciva odore di Paradiso; e poco doppo v’andò il Capitolo di Napoli, che l’associò nella chiesa di [126] Santa Restituta, alla quale spettava il cadavere, dove in una cassa di marmo fu sepellito nel luogo già detto; e per molti e molti anni si sentì per un forame che v’era un odor grande, et il Signore si compiacque di fare per sua intercessione moltissime gratie.

Dalla parte poi dell’Epistola, proprio presso le scale che vanno al Palazzo arcivescovale, fatte fare dal cardinal Filamarino per calare coverto nella chiesa alle solite funtioni, vedesi la cappella fondata da Costantino e dedicata al glorioso San Giovanni Battista, che dicesi a Fonte, perché qui, all’uso di quella di Roma, in memoria del suo battesimo, eresse il fonte battesimale, come era solito nell’antiche basiliche, dove s’erigeva in una cappella presso la porta dalla parte sinistra; avvertendosi, come si disse, che la porta di questa chiesa stava dove hora è l’altar maggiore, e la fonte è l’istessa che hoggi si vede nel [127] battisterio di fuori, ch’è un vaso di pietra di basalde egittia e degno d’esser veduto ed osservato come maraviglioso; et in questo luogo vi fu lasciata una memoria nel suolo, che è un tondo di bianchi marmi che ha tanto di periferia, quanto da detto fonte occupato veniva di terra. Vi è in questa cappelletta una cupola tutta dipinta a musaico, nelle quali dipinture espresse ne stanno molte attioni del nostro Redentore, e nel mezzo il segno della croce che esso Costantino usava per impresa, opera degna d’essere osservata da’ curiosi per la bontà de’ lavori di quei tempi che credo ben io fusse de’ migliori, ancorché hoggi dall’antichità strapazzati.

Vi si veggono ancora in questa chiesa molte antiche e nobili sepulture, che qui non si descrivono perché oltre l’esser stata fatica del nostro Pietro di Stefano e di Cesare d’Engenio Caracciolo, similmente nostro napoletano, si ponno ben [128] leggere et osservare da’ signori forestieri. Vi sono molti belli et antichi quadri, e particolarmente quello del coro, dove sta espresso San Michele Arcangelo con altri santi, opera di Silvestro Buono nostro paesano. Nella parte dell’Evangelio, e proprio nella Cappella de’ Protonobilissimi, vi è un Christo di rilievo alla croce, fatto per mano d’un cieco nato. Nell’uscire dalla porta minore della stessa chiesa, vedesi una tavola nella quale sta espressa Sant’Anna, la Vergine et il figliuolo Giesù, opera d’Andrea di Salerno.

Tornati nella chiesa maggiore e tirando verso la porta minore dall’istessa parte dell’Evangelio, vedesi la Cappella degli Teodori, di bianchissimi marmi lavorati dell’istessa maniera del Succorpo, con una tavola avanti dell’altare dove vedesi la Depositione di Christo Signor Nostro nel sepolcro, con [129] molte figure, opera di Giovanni di Nola. Et in detta cappella vedesi una tavola nella quale Christo Signor Nostro fra molti apostoli dà ad osservare la piaga del costato a San Tomaso, opera delle più belle ch’habbia mai fatto Marco di Pino, detto da Siena.

Si può anco osservar di nuovo il battisterio, e l’antica conca di Costantino, come si disse, che è di pietra basalde, che simile più non se ne vede venire in Italia da Egitto.

Passate altre cappelle, nell’ultima presso quella minore della chiesa vi si vede una porta dalla quale si sale ad una delle quattro torri già dette, quale torre fu destinata a conservare il capo ed il sangue del nostro protettore san Gennaro e l’altre reliquie de’ nostri santi protettori, e per gran tempo vi sono state collocate. Nel tempo poi di don Ferrante di Toledo duca d’Alba accaddero molte turbolenze nel Regno per una guerra insorta tra il [130] sommo pontefice Paolo Quarto et il monarca Filippo Secondo, e fu così fiera che fu di bisogno al viceré andarvi di persona, per ributtar l’inimico che di già assediato haveva Civitella del Tronto. La pia donna Maria di Toledo, moglie del già detto duca, ricorse dal nostro santo per impetrare, mediante la sua intercessione, la pace in una così pericolosa guerra, facendo voto d’abbellire il detto luogo, che chiamato veniva il Tesoro. Et infatti, ottenuta la gratia, puntualmente l’adempì, facendola tutta dipingere dagli più eruditi dipintori di quel tempo, e vi collocò una tavola col suo ritratto e con quello del marito, con un’iscrittione sotto che così dice:

Dum Ferdinandus Toletus, Alvæ Dux Italiæ pro Rege
Presidet; Truentosque invicta virtute ostes Regni Neapolitani finibus arcet
Maria Toleta ejus uxor, Divo [131] Januario ediculam hanc
Ex suo dicat; & voti compos ornat, anno salutis MDLVII.

Nell’istesso luogo successe un miracolo degno d’esser saputo, e fu: le scale di detto sacro luogo erano a lumaca; un giorno, dovendosi calare il sacro sangue nella chiesa, non essendo stato ben fermato con la solita vite nel suo tabernacolo, cadde in terra e, rotolando, da sopra giunse fino a basso senza lesione alcuna, quando i vetri si dovevano ridurre in mille pezzi. Ciò saputosi dalla vice regina di Toledo, fece con ogni prestezza fare una nuova e commoda scala, come al presente si vede. Però questo luogo, essendo stato fatto dalla città il nuovo Tesoro, come si dirà, fu dal cardinal Filamarino conceduto alla compagnia di Santa Restituta, che per carità interviene all’esequie di quei poverelli che, morendo senza elettione di sepultura, vengono a sepellirsi nella chiesa di Santa Restitu[132]ta. E questa concessione gliela fece per servirsi della cappella già detta di San Giovanni in Fonte, dove detta compagnia s’adunava.

Dalla parte poi dell’altra nave, che è dell’Epistola, vi si vede un’altra porticella, per la quale si sale nell’altra torre, che serve per habitatione del sacrista della chiesa, e vi è un’antica scala a lumaca. Tirando più su, passate alcune cappelle antiche, si vede la grande e maestosa Cappella del Tesoro, che veramente dir si può tesoro, e per quello che vi si conserva e per quello che speso vi fu. Ma prima d’osservarne le sue meravigliose parti è convenevole dare una brieve notitia della sua fondatione.

Correva l’anno della nostra salute 1526, quando si scovrì una peste crudele in Napoli, che faceva stragge grande; e durò molto la sua forza, onde il popolo napoletano, non trovando altro rimedio che ricorrere agl’ajuti de’ santi, a’ tredici di [133] gennajo dell’istesso anno (mentre la translatione del corpo del nostro martire e protettore san Gennaro solennizavasi) si ridusse in questa Cattedrale, dove, fattasi per la chiesa una processione divotissima et espostesi le sacre reliquie nell’altare maggiore, doppo d’haver cantata la messa sollenne del santo, presente il vescovo d’Ischia vicario generale, dagli signori Eletti della città fu stipulato publico istromento, per mano di notar Vincenzo de Bottis, col quale si prometteva in nome della città istessa di spendere scudi diecimila nell’erettione d’una cappella in honore del santo, e docati mille ad un tabernacolo d’oro da riponervi il Santissimo Sacramento. Et infatti nell’anno 1529 cessò a fatto, et il santo ne diede segno col far vedere liquefatto il suo sangue, stato fino a quel tempo duro. Né solo la peste cessò, ma la guerra, essendosi pacificato l’imperator Carlo Quin[134]to col pontefice Clemente Settimo. Volle la città poi eseguire ciò che al santo promesso haveva, perloché nell’anno 1608 a’ 7 di gennajo fu posta la prima pietra per fondare questa gran cappella dal vescovo di Calvi, Fabio Maranta, nella quale pietra vi scrisse il tutto, et in questa sollenne fontione v’intervenne Alfonso Pimentello conte di Benevento, in quel tempo viceré. Fu principiata la fabrica col modello e disegno del padre Francesco Grimaldo teatino. È la sua pianta a modo di croce greca, lunga palmi quarant’otto e larga palmi novantaquattro; vi sono sette cappelle, delle quali tre, le maggiori, stanno sempre apparate per le continue messe; l’altre quattro minori, che stan sotto de’ coretti nei quattro pilastri principali, s’armano in tempo di feste sollenni, nelle quali divotamente vi concorre il clero per celebrarvi la santa messa. Et è tanto il concorso, che con tre [135] soli altari adempir non si potrebbe il desiderio di tutti. E per entrare nel particolare, per prima vedesi una gran facciata tutta di finissimo marmo bianco e mischio, con due gran colonne tutte d’un pezzo, di marmo nero e bianco, che sostengono l’architrave di palmi ventisei e mezzo. Dai lati poi di dette colonne vi sono due famose necchie, una per parte, vagamente ornate con due colonne di marmo broccatello per ciascheduna, di palmi dieci, nelle quali necchie vi si veggono due famose statue di marmo, una di San Pietro, l’altra di San Paolo, fatte per mano di Giulian Finelli; e sopra di dette necchie, vi sono due statue giacenti per ciascheduna che fanno finimento, opera del Cosset francese.

Vedesi poi la porta tutta di finissimo bronzo, così di fuori come di dentro, con due mezze statue, et il tutto fu opera designata e modellata dal cavaliere Cosimo Fansa[136]ga, e v’andò di spesa 32 mila scudi, come anco la facciata già detta fu similmente disegno del Cavaliero.

Entrati nella gran cappella, che né più ricca né più vaga si può desiderare, essendo tutta di marmi e bianchi e mischi con grand’arte compartiti, vi sono quarantadue colonne di pietra di broccatello, delle quali ventisei ne sono di palmi tredici l’una e sedici di palmi dieci. Fra queste colonne vi sono bene adornate necchie, dentro delle quali vi stanno collocate statue tonde di bronzo, che rappresentano i Santi Padroni, tutt’opera di Giulian Finelli, ch’in queste ha superato sé stesso mentre che né più spiritose, né più ben intese desiderar si ponno, toltane però la statua di Sant’Antonio, che sta nella necchia dell’Epistola del Cappellone dalla parte dell’Evangelio che fu fatta col disegno del cavalier Cosimo, quella di San Francesco Xaverio, dirimpetto [137] alla già detta di Sant’Antonio, che fu fatta col modello di Giovan Domenico Vinaccia.

Nell’altro cappellone dalla parte dell’Epistola, quella di Santa Teresa fu fatta col disegno del cavalier Cosimo, quella di San Filippo, che sta dirimpetto alla già detta di Santa Teresa, fu fatta con la direttione d’un tal Marinello. Le due statue che stanno nelle necchie presso la porta son opera d’un nostro napoletano. Sotto di queste necchie vi è un casello nel quale vi si conserva la reliquia del santo padrone rappresentato dalla statua, e dette reliquie tutte si chiudono dentro di mezze statue d’argento, modellate e lavorate da ottimi artefici. Il pavimento, tutto di marmo commesso, fu tirato col disegno et assistenza del cavalier Cosimo. Le balaustrate che stanno nei cappelloni e nell’altare principale furono ancora tirate col disegno [138] del Cavaliero, e le porticelle che chiudono la balaustrata, che son di rame, furono fatte con la direttione d’Onofrio d’Alesio e costarono cinquemila scudi. I quadri che sono negli cappelloni e nelle quattro cappelle minori son tutti dipinti sopra grossa rame, in modo che con le cornici similmente di rame in parte dorate et adornate di pietra lapislazola costano più di mille e cinquecento scudi l’una senza la dipintura. Le dipinture ad olio, quelle che stanno dalla parte dell’Evangelio che sono dove sta espresso il morto che resuscita col ponerseli sopra una coltra con l’imagine del santo, che veramente è degno d’essere osservato, e l’altro, dove stanno espressi il santo et i suoi compagni in atto d’essere decollati, e quello dove San Gennaro risana alcuni infermi, sono opere di Domenico Zampieri detto il Domenichini, bolognese della scuola de’ Caracci. [139] Gl’altri tre quadri dalla parte dell’Epistola, il primo, nel quale s’esprime una donna che con l’olio della lampada ch’ardeva avanti del santo sana alcuni infermi e storpiati, è di mano dell’istesso Domenichini; il quadro di mezzo, dove viene espresso San Gennaro che esce dalla fornace, è opera di Gioseppe di Rivera detto lo Spagnoletto, che possiamo dire esser nostro napoletano; l’ultimo quadro, dove si vede l’Energumena liberata dal santo, è opera del nostro cavaliero Massimo Stantioni.

Le dipinture a fresco, tanto nelle volte quanto negl’angoli, sono tutte del Domenichino, e si pattizzarono cinquanta scudi la testa di tutto punto finita. Principiò egli a dipingere la cupola, ma poi non poté compirla per la morte che li sopravenne. Fu poscia dipinta famosamente, come si vede, dal cavaliero Giovanni Lan[140]franchi, né volle seguitarla in nessun conto, se prima non si buttava giù quanto dal Domenichino v’era stato dipinto. Doveva essere questa gran cappella tutta dipinta per mano di Guido Reni, e per tal effetto egli era venuto in Napoli, ma, per opera di Belisario Corentio che pretendeva dipingerla di sua mano, Guido, intimorito, volle in ogni conto tornarsene nella sua patria, non bastando a rattenerlo i prieghi e le promesse del cardinale arcivescovo Francesco Buoncompagno.

Hora passiamo a dar contezza agli signori forestieri delle reliquie che in questo sacro Tesoro si conservano. Sono le principali il capo et il sangue del nostro primo protettore san Gennaro. Queste stanno nel mezzo dell’altare maggiore, dove è la statua del santo seduta in atto di benedire il popolo. Stanno unite in un casello con un partimento in mezzo, accioché l’una [141] non possa guardare l’altra, e custodite da due massiccie porte d’argento fattevi fare per sua divotione da don Pietro Antonio d’Aragona, all’hora ch’egli era viceré del Regno. Il sangue sta sempre duro; quando poi guarda il capo si liquefà in modo che pare all’hora all’hora uscito dal corpo, e più volte da me è stato osservato fare una spuma gialletta, in modo di bollire. E si è esperimentato che ogni quando il sangue benedetto non si liquefà all’espetto del capo, o pure liquefatto si trova senza vederlo, nella nostra città è succeduto qualche sinistro, come accadde nell’orrenda peste che così fieramente afflisse questa misera città e Regno, ch’avanti del suo capo non si liquefece, ma duro si faceva vedere come un sasso. È accaduto alle volte che non si è liquefatto, essendovi tra gl’astanti qualche perfido eretico, come accadde anni sono, essendovi io assi[142]stente: stando le sacre reliquie su l’altare, di fuori vennero alcuni signori oltramontani per vedere il miracolo. Il sangue liquefatto si dava a baciare; di fatto nelle mani del canonico s’indurò. Stupito il popolo, il canonico mosso da interno zelo disse: “Signori, se vi è qualche eretico qui, vada fuori”. Se ne partì uno et, appena partito, il sangue si liquefece di nuovo. E questo più volte è accaduto anco in altri tempi. In fine possiamo dire che questo è un continuo miracolo, né si può tanto credere se non da chi il vede.

Nella statua di Sant’Aspreno vi è la testa del santo; in quella di Sant’Agrippino, la testa; di Sant’Eusebio, la testa; di San Severo, la testa; di Sant’Attanasio, la testa; di San Tomaso d’Aquino, una parte dell’osso del braccio; di Santa Patritia, una particella del corpo che sta nella sua chiesa; del Beato Andrea Avellino, una particella del corpo che si conserva nella chiesa di San Paolo; di San Do[143]menico, quella reliquia che se li vede nel petto; del Beato Giacomo della Marca, una particella del corpo che si conserva nella chiesa di Santa Maria la Nova; di San Francesco Xaverio, una picciola reliquia; di Santa Teresa, una particella d’osso; di Sant’Antonio, un’altra picciola reliquia; di San Felippo Neri, una parte di quelle reliquie che si conservano nella chiesa de’ padri dell’Oratorio; di San Gaetano, quelle che s’hanno potuto havere; di San Nicolò da Bari, similmente; di San Gregorio d’Armenia vescovo, una parte di quelle reliquie che si conservano nella chiesa dedicata a questo santo, volgarmente da’ napoletani detta San Liguoro; di Sant’Anello, che è uno de’ primi protettori, la testa, conservandosi il corpo nella chiesa dedicata al suo nome. Stanno così descritti con l’ordine del tempo che sono stati accettati per padroni.

Da qui si può passare a vedere la sagrestia, e per prima la vecchia, [144] che hoggi è ridotta in una bellissima cappella per conservare quelle statue che non hanno casello nella cappella di fuori, atteso che molti santi sono stati accettati per protettori doppo fatta la detta cappella. Questa vedesi tutta dipinta con diverse Historie della vita della Vergine, di mano del cavaliero Giacomo Farelli nostro napoletano, eruditissimo et esatto dipintore. Nell’armario che sta su l’altare di detta cappella vi si chiude una statua d’argento grande al naturale, che rappresenta l’Immacolata Concettione della Vergine, fatta da Rafaele il Fiamengo, benché il corpo ancor non sia finito.

Si può vedere la sagrestia nuova, quale in sé racchiude un tesoro d’argento. Le dipinture, così a fresco come ad oglio, sono del pennello del nostro Luca Giordani. Qui vi sono candelieri, vasi, fiori, carte di glorie d’argento per potere adornare [145] riccamente tutte le sette cappelle, e particolarmente quelli per l’altare maggiore son tutti a gitto e di tanto peso che un huomo, per gagliardo che sia, appena può portare un candeliero o pure un vaso. Non parlo poi dei lavori, perché danno in eccesso e sono di spesa grande; bastarà il dire che solo la carta di gloria dell’altare maggiore costò, tra argento e fattura, quattromila e cinquecento ducati. Vi sono sei vasi con li loro fiori al naturale per il secondo scalino dell’altare, che costano un prezzo grande. Si possono anco vedere le gemme e della mitra e delle collane con le quali adornano il santo, che sono degne d’essere vedute. Si fa conto che fra gl’argenti e le gemme che sono in questa sagristia, vi sia la valuta di centomila scudi. E perché si conosca la pietà de’ nostri napoletani, dirò che il voto fu di spendere diecimila scudi all’erettione di questa cappella, e [146] fin hora se ne sono spesi, per conto fatto, da cinquecentomila et ancora non è fatto l’altare maggiore, quale sta designato di farsi tutto di pietre pretiose. Non mi distendo a descrivere altre particolarità di questa gran cappella per non allungarmi, e tanto più che son cose che di facile veder si ponno.

Siegue di poi l’antica Cappella de’ Carboni, eretta dal cardinale Francesco Carbone, vescovo sabinense del titolo di Santa Susanna et arcivescovo di Napoli, nobile della piazza di Capuana, hoggi famiglia estinta, e la dedicò a Santa Susanna, chiesa del suo titolo. Passò questi a miglior vita nell’anno 1405 all’8 di giugno, e fu sepolto nel sepolcro che ivi si vede, che in quei tempi era di gran magnificenza. Nella facciata della cassa sepolcrale, oltre della statua che sta giacente sopra, vi sta egli effigiato, e le figure che li stanno d’intorno sono tutti i suoi parenti. Questo cardinale introdusse [147] nella chiesa molte insigni reliquie, come si disse, et anche un volto di San Giovanni dipinto in tavola venuto da Costantinopoli, e porta una traditione che sia uno de’ più veri ritratti del Battista; e questo sta situato in quest’istessa cappella in un’altaretto dalla parte dell’Evangelio. Il corpo poi di detto santo sta dipinto a fresco.

Entrati poi per le spalle del coro nella croce, vi si vede alla destra la cappella dell’antichissima famiglia Crispano, che gode gl’honori della nobiltà nella piazza di Capuana. Fu ella fondata da Landolfo Crispano, che fu dottissimo nelle leggi et in altre scienze e servì di consigliero alla regina Giovanna, e passò a miglior vita nell’anno 1372. Il quadro che in detta cappella si vede, dove sta espressa la Maddalena in penitenza, è opera di Nicolò Vaccaro, figliuolo d’Andrea, giovane di gran giuditio nella dipintura. [148] Segue appresso l’antica Cappella de’ signori Caraccioli, quale dal cardinale don Innico Caracciolo arcivescovo fu abbellita con dipinture e con marmi, come anche consecrata per le sue mani, e la dedicò al glorioso San Liborio protettore degl’enefritici. In questa cappella vi è il sepolcro di Berardino Caracciolo arcivescovo di Napoli, e vi si legge intagliato il seguente epitaffio:

Hic iacet corpus venerabilis in Christo Patris Domini, & Domini Berardini Caraccioli de
Neapoli, Dei gratia Archiepiscopi Neapolitani; & utriusque juris Doctoris, & medicinæ
scientiæ periti; qui obiit anno Domini 1262.die 3. Non.Octobris.
Joannes Caracciolus rubeus nepos fieri fecit

Si è qui notata quest’inscrittione, per dimostrare che gl’arcivescovi di Napoli antichi ponevano semplicemente il Dei gratia Archiepiscopus. [149] Questa sepultura fu fatta e qui collocata doppo dell’anno 1300. Fuori di questa cappella vi è il deposito dell’eminentissimo cardinale Innico Caracciolo, nostro arcivescovo, molto stimato per l’inventione, vedendovisi tre putti che rappresentano l’Amore, l’Intelletto e la Sincerità che scoprono una medaglia dove al naturale sta effigiato il cardinale, e dalla parte di sotto del panno si fa vedere uno scheltro con un oriuolo da polvere in mano; il tutto fu opera di Pietro Ghetti, allievo del Baratti, e sotto di questo sta sepolto il detto cardinal Caracciolo di buona memoria.

Segue appresso un’altra cappella de’ signori Caraccioli, dove vedesi un’imagine del Crocifisso, che è la prima che fusse stata collocata nella chiesa napoletana.

Di poi viene la cappella antica de’ signori Minutoli, dedicata a Santa Anastasia dal cardinale Arrigo Minutolo, per lo titolo che egli ha[150]veva di questa santa. Questo gran cardinale fu promosso all’arcivescovato di Napoli da quello di Trani, e poi alla sacra porpora da Bonifacio Nono. Si vedono in questa cappella molti sepolcri con le loro statue giacentino di sopra. Quello di mezzo, poi, è dell’istesso cardinale, stimato de’ più belli che havessero potuto erigersi in quei tempi, e fu lavorato dall’istesso abbate Antonio Bamboccio che fece gl’ornamenti della porta, circa gl’anni 1405. Questo cardinale morì in Roma e poi fu trasportato il suo corpo in Napoli. Fu dipinta all’antica, e vi si può entrare per osservar gli ritratti degl’eroi e degli soldati della casa Minutolo, come in quei tempi s’armava e come si portavano le divise; si può ancora vedere l’impresa del corno, che conveniva solo a coloro che havevano pugnato a singolar tenzone, e dove e come l’usavano, essendo che tra gl’antichi, la prima volta che [151] s’entrava in campo per questa sorte di certame, si sonava il corno, e da’ padrini era riconosciuto avanti di venire al duello, se egli era nobile e cavaliero. Poscia fatto il primo non l’era più di bisogno far simile funtione, ma li bastava portare la divisa del corno nel cimiero.

E per ultimo vedesi la Cappella della famiglia Tocco, nobile del seggio di Capuano. Qui si conserva sotto dell’altare il sacro corpo del nostro primo christiano e vescovo sant’Aspreno, al quale la cappella sudetta sta dedicata. E queste sante reliquie furono qua trasportate doppo fatta questa chiesa nova, dal suo oratorio di Santa Maria del Principio nella chiesa di Santa Restituta, dove collocate ne stavano. Le statue di San Pietro e Paolo e quella di mezzo rilievo della Vergine, con altri lavori ch’in su l’altare si veggono, sono opera d’Anibale Caccavello; vi si vedono ancora molti sepolcri di signori di detta famiglia. [152] Fu questa cappella dipinta dal Tesauro, nostro napoletano che famosamente dipinse circa gl’anni ’520, et in essa v’espresse molte historie della vita del santo. Attaccata a questa cappella vi è quella picciola della casa Dentice, detta del Pesce; e poscia un’antica cappelletta di Petraccone Caracciolo, Cavalier della Nave, e nella tavola di marmo che sta collocata sopra d’un picciolo altaretto vi si vede il segno che detti cavalieri portavano. E qui non resta altro da osservare nella nostra chiesa, onde può uscirsene, e sia l’uscita per la porta minore, che dicesi dell’Aguglia. Da questa, per iscale di marmo cepollazzo fatte dalla nostra fedelissima città per servitio della chiesa, come si disse, si cala alla strada maestra, anticamente detta di Sole e Luna. [156] Vedesi qui la bellissima aguglia di marmo, fatta erigere dalla nostra fedelissima città in honore del nostro glorioso protettore san Gennaro, per haverla liberata dalla più orrenda eruttione che havesse mai fatto il Monte Vesuvio nell’anno 1631. E veramente visibilmente ne sperimentò il patrocinio, attesoché nel secondo giorno il fumo era così spesso e così grande che impediva i raggi del sole, in modo che sembrava il merigio oscurissima notte. Nel principiarsi la processione comparve il sole nel finestrone che sta su la porta della Cattedrale, e da molti huomini da [157] bene degni di fede fu veduto in mezzo di quei raggi il nostro santo benedire il popolo; et essendo arrivata la processione nella Porta Capuana con le sacre reliquie, nel far il segno della croce, il cardinale Francesco Buoncompagno arcivescovo, con le sacre ampolle del sangue verso del monte, visibilmente fu osservato il gran fumo e cenere che veniva verso della città retrocedere et andare altrove.

Questa machina è ben ella degna d’essere osservata come una meraviglia dell’arte. Su di questa base che vi si vede si doveva collocare la colonna già detta, ma per le differenze accennate, non havendo voluto il cardinale Ascanio Filamarino concederla, prese espediente il cavalier Cosimo di far vedere una colonna adornata di modiglioni. La statua di San Gennaro che vi è di sopra è opera di Giuliano Finelli. I putti e la sirena che tiene l’inscrittione nella base son di ma[158]no del Cavaliero, del quale vedesi il ritratto naturalissimo in marmo dietro de’ balaustri che stan dirimpetto alla chiesa del Monte delle Misericordie. Sotto della base già detta vi è un pozzo che arriva fino all’acqua con i suoi spiracoli che stanno nel piano de’ balaustri, per ripararla da’ tremoti. E nell’anno 1676, nella vigilia della festa di detto santo, mentre che si stavano adattando i lumi per la sera, una ragazzina caminandovi per uno di quei spiracoli andò giù; la madre v’accorse invocando il santo, ma perché nel buco già detto non vi poteva capire un huomo per calarvi, con fiducia grande, vi calarono una fune, e la ragazza vi s’attaccò con le mani e fu tirata su senza nocumento alcuno.

Vedesi poscia il ricco Monte delle Sett’Opere della Misericordia, qual hebbe questa fondatione: nell’anno 1601 alcuni pii e divoti gentil’huomini napoleta[159]ni si diedero all’esercitio della carità, nel servire i poveri infermi nell’Ospedale degl’Incurabili, e per ricercare detti infermi andavano questuando per la città. Hebbe quest’opera in brieve tanto incremento che i detti gentil’huomini, al numero di venti, stabilirono di mantenere in detto ospedale quaranta pulitissimi letti, con tutto quello che vi fusse stato di bisogno, et anco facean celebrare molte messe per l’anime derelitte del Purgatorio. Nell’anno poi 1602 crebbero talmente le limosine che si trovarono haver di rendita annua 486 scudi, e con questa stabilirono di erigere un monte, alla sovventione non solo degl’infermi ma d’altri poveri, e fatte alcune capitolationi approvate dalla santa memoria di Clemente Ottavo, et anche con l’assenso del Conte di Benevento, l’eressero in questo luogo, sotto il titolo di Santa Maria delle Misericordie. Da questo monte si sovvengo[160]no gl’infermi, et anco in ogn’anno s’apre un’ospidale nell’isola d’Ischia per i poverelli ch’han di bisogno di remedii di quei bagni, e si sovvengono ancora con limosine i poveri infermi per la città; fanno celebrare una gran quantità di messe per l’anime del Purgatorio; visitano i carcerati, liberando molti prigioni per debiti, pagando per loro; redimono i cattivi da mano d’infedeli, sovvengono con larghe limosine i poveri vergognosi, e particolarmente gentil’huomini che non ponno andare accattando; albergano i peregrini, ma non essendovi luogo capace et atto per questo qui, lo fanno per opera d’un’altra compagnia, detta della Trinità. Et il tutto lautamente si fa, per essere stato il detto monte accresciuto dalla pietà de’ napoletani, con amplissime heredità, arrivando hoggi ad havere 30 mila scudi di rendita.

V’era una picciola chiesa: hog[161]gi col disegno e modello dell’eruditissimo Francesco Picchiatti, ingegniero maggiore del Regno, è stata ridotta nella forma che si vede, e vi si ponno osservare bellissimi quadri. Quello all’altare maggiore, nel quale con inventione pur troppo nobile, in una maniera di notte, stanno espresse tutte le Sette Opere della Misericordia, è opera di Michel’Angelo Caravaggio; il primo dalla parte dell’Evangelio è opera di Fabritio Santafede; l’altro che segue è del pennello del nostro Luca Giordani, il terzo è di Luigi Rodrico, detto il Siciliano, il quale così bene imitò la maniera del Caravaggio, che da molti è creduto essere opera dell’istesso Caravaggio. Dalla parte dell’Epistola, il primo fu dipinto da Giovan Battista Caracciolo, detto Giovan Battistello, e gl’altri due sono del già detto Fabritio Santafede. Le statue di marmo, cioè della Vergine che sta in mezzo e delle due figure che stanno nei lati, le [162] quali esprimono l’Opere della Misericordia sono dello scalpello d’Andrea Falcone nostro napoletano, quale, se prevenuto non era dalla morte nel fiore dell’età sua, havrebbe lasciato di sé ottima memoria nell’opere sue. Fu questo allievo del cavalier Cosimo, e studiò anco in Roma.

Usciti da questa chiesa, si ponno bene incaminare a vedere i tribunali in tempo di negotii, per osservare la moltitudine de’ curiali e de’ litiganti, che forse sarà stimata maravigliosa. Ma nel camino è bene dar qualche notitia di quanto s’incontra d’antico e di curioso.

La piazza maggiore avanti la chiesa del monte, veniva detta di Sole e Luna; il vicolo a destra, passata la chiesa del detto monte, dicesi de’ Carboni, perché in esso anticamente v’habitavano molti di detta famiglia, hoggi spenta nel seggio di Capuana. Vedesi appresso una piazza nuo[163]mente fatta, che prima chiamavasi del Pozzo Bianco, che era una publica bocca di formali, et il vicolo che vi si vede da questo prendeva il nome, et hora dicesi delle Zite, per una famiglia di questo nome che v’habitava. Vedesi alla sinistra di questa piazza il Seggio di Capuana, il quale anticamente era dove hoggi si vedono quelle colonnette lavorate all’antica; essendosi poi ampliato il seggio di Montagna, i nobili di questo quartiere, o tocco come anticamente si diceva, vedendo angusto il luogo dove s’adunavano, nell’anno 1453 comprarono le case di Petrillo Cossa e di Marco Filamarino e, buttatele giù, fecero un atrio nobile e grande come hora si vede. Il piano delle mura fu dipinto dipoi dal pennello del nostro Andrea Sabbatino, detto di Salerno, ma con l’occasione d’essere poch’anni sono ruinata la volta, essendo stata rifatta, sono state ri[164]toccate, e però non sono più quelle di prima.

Vi si vede in detta piazza dipinta l’imagine di San Martino, che dà parte della sua clamida al povero. Queste erano l’arme del seggio di San Martino, che a questo sta incorporato, dovendosi sapere che questo quartiere conteneva sei seggi, et erano: il primo di Capuana, il secondo de’ Melarii, che stava più sotto, il terzo di Santo Stefano, che stava nel principio del vicolo detto Rua de’ Fasanelli, che fa quadrivio al già detto Vico di Raggio di Sole, che va alla porta maggiore della Cattedrale, il quarto de’ Santi Apostoli, che stava presso la chiesa dedicata a detti santi, e proprio sotto il Palagio dei Prencipi del Colle, il quinto di San Martino, che stava dietro l’ospedale hoggi detto della Pace, il sesto era detto de’ Manocci, che stava in un vicolo poco da questo distante. Questi seggi prendevano il nome o dalle famiglie [165] che presso di loro habitavano, o dalle chiese che vicino le stavano; come poi si fussero uniti non se n’ha certezza, benché alcuni scrittori vogliano che l’unità fusse stata fatta in tempo di Carlo Primo e Secondo e di Roberto angioini. Fa questa piazza per impresa un cavallo frenato, e molti de’ nostri scrittori portano che il freno li fu ordinato da Corrado, doppo che così barbaramente entrò in Napoli.

Il vico che sta al lato di detta piazza, che va verso Somma Piazza, era anticamente detto de’ Manocchi, famiglia spenta in detta piazza; hora è di Capuana. La strada che tira a dritto da questo seggio fino al Palaggio de’ Tribunali, era anticamente detta Piazza Regia, perché terminava al regio Castello di Capuana. Il vicolo che si trova a destra, chiamavasi Rua de’ Piscicelli, hoggi dicesi di Scassacocchi. Quell’altro poi che vi sta dirimpetto, veniva chiamato [166] de’ Santi Apostoli. Segue la chiesa e l’ospedale de’ Buon Fratelli. Questi padri vennero chiamati da’ signori spagnuoli nell’anno 1575 per assistere al di loro ospedale di San Giacomo e Vittoria, ma per alcune differenze passate, detti padri si ritirarono nella chiesa di Santa Maria d’Agnone, che sta nel vicolo dirimpetto alla porta del convento anticamente detto Corneliano nella Regione Termense, come si dirà, et ivi stiedero fin nell’anno 1587. Con l’ajuto poscia della pietà napoletana comprarono il famoso Palazzo di Ser Gianni Caracciolo (del quale fin hora vedesi in piedi la porta, che è quella del convento, e parte della facciata) et in essa poscia col disegno di Pietro di Marino fabricarono la presente chiesa, quale vedesi ricca di molte insigni reliquie e di molti corpi interi di martiri. Nell’altare della croce, dalla parte dell’Evangelio, vedesi il ritratto di Beato Giovanni di [167] Dio, cavato dal suo naturale. Vi si può vedere anco un bellissimo ospedale, che sta da detti padri servito con ogni carità et attentione.

Al lato di questa chiesa vedesi un vicolo, anticamente detto Lampadio, hoggi della Pace; e nel fare le fondamenta di detta chiesa et ospedale, vi si ritrovarono molte vestigia dell’antiche terme e ginnasii, tutti d’opera laterica e reticolata. Dall’altra parte vedesi un altro vicolo, anticamente detto Termense, hora di San Nicola a don Pietro, nel qual convento vi sta incorporata una chiesa fondata nell’anno 395 da san Severo vescovo di Napoli, che si trova esser stata dedicata a San Martino. All’incontro di detto vicolo vedesi la chiesa e conservatorio di Santa Maria del Refugio, che hebbe questa fondatione: dalla pietà d’alcuni nostri cittadini fu eretto un luogo sotto il titolo dello Spirito [168] Santo, come si dirà, per chiudervi le donzelle vergini che stavano in pericolo di perdere la loro pudicitia stando in potere di donne prostitute, et ottennero da’ signori regii di prenderle a forza; le scelerate donne, per non perderle, trovar le facevano deflorate, onde il padre Alesandro Borla, sacerdote piacentino dell’oratorio, unito con la divotissima signora donna Costanza delle Cartette principessa di Sulmona, fecero raccogliere molte di queste figliuole deflorate e le chiusero, e detta signora l’alimentava in una casa. Poscia, nell’anno 1585 le comprò questo palazzo, che fu della famosa famiglia Ursina, del quale fin hora vedesi in piedi la porta che è quella della chiesa, su della quale se ne scorgono l’arme di marmo; e nel cortile accomodò la chiesa, e sotto l’habitatione per dette figliuole. Questo luogo poscia è stato ampliato e reso più comodo dalla pietà di molti fedeli, e nella [169] chiesa sudetta concesse da sommi pontefici infinite indulgenze.

Segue appresso a man destra la chiesa dedicata al glorioso apostolo San Tomaso, la quale al presente è parrocchiale. Questa chiesa è antichissima, e fu priorato de’ monaci benedettini della Cava. Fu poi sottoposta alla chiesa arcivescovale dal cardinale Oliviero Carrafa, quando egli restituì il monasterio cavense a’ monaci, del quale egli n’era commendatario, e similmente incorporò la chiesa di Sant’Arcangelo all’Armieri.

Segue poscia il Monte e Banco de’ Poveri. Di questo sacro luogo e banco (che hoggi è de’ più ricchi della nostra città) è bisogno di darne notitia per dimostrare quanto il Signor Iddio fa prosperare quelle opere di pietà che tendono agli ajuti de’ poverelli. Circa gli anni 1563, mentre calavano dal tribunale gli avvoca[170]ti ed i negotianti, un povero prigione, havendo cacciato da’ cancelli un giubbone, stava gridando: “Signori pietosi, per cinque carlini che non ho, non posso uscir da queste carceri; vi supplico, in nome di Giesù Christo, ad improntarmeli, col tener questo in pegno”. Un avvocato, inteneritosi, li donò i cinque giulii in limosina, lasciandoli il giubbone. Con questo esempio poi, molti carcerati dagli cancelli facevano lo stesso, offerendo robba in pegno. Lo stesso huomo da bene che havea fatta la limosina al primo, s’unì con altri curiali, e con la limosina che ciascheduno contribuì secondo le proprie forze fecero una picciola somma di danaro, e stabilirono che fusse impiegata alla comodità de’ poveri prigioni che, per sovvenire alle loro necessità, volevano impegnare qualche cosa: ed a tale effetto ottennero dal regente della Vicaria una picciola stanza nel [171] piano dello stesso cortile presso le scale per le quali si va sù, nella sala del conseglio, dove anche si conservavano i pegni.

Ma questi buoni e pii cristiani non si fermarono in questo; nello stesso anno, ottenuta dagli padri di Santi Apostoli nella loro casa una stanza, vi fondarono una compagnia o sotto il titolo Santa Maria Monte de’ Poveri, e con ferventissimo zelo di carità andavano questurando per mantenere non solo l’impegno già detto, ma per sovvenire altre necessità. A tale effetto, nell’ultima domenica d’agosto eligevano nove governatori, secondo le nove ottine, ed ogn’uno di questi governatori deputava tre o quattro persone del sabbato ad andar questurando per l’ottina che li stava incaricata. Da questi nove governatori, in ogni mese s’eligeva a sorte uno che havesse havuto pensiero d’in[172]troitar le limosine, aprendosi in ogni prima di mese le cassette della questura, ed ancora per tener conto dell’introito ed esito che si faceva in quel mese; e chiamato veniva menzario. Nell’anno poscia 1571, dovendosi rifare la casa dei Santi Apostoli, li fratelli sodetti passarono ad unirsi in alcune stanze che nella chiesa di San Giorgio v’havevano l’estauritatii di quella chiesa, ed ivi attesero con maggiore fervore non solo all’opera de’ carcerati, ajutando a discarcerare coloro che stavan ritenuti per debiti, ma ancora a sovvenire i poveri vergognosi, visitadoli nelle loro casa quattro volte in ogn’anno per tutta la città. E vedevasi che il Signore vi concorreva con modi speciali, essendo che le limosine erano abondantissime. Desiderando poscia i fratelli d’havere un luogo proprio da congregarli, nell’anno 1575 ottennero [173] dal canonico abbate di San Giorgio il portico della chiesa ed una cappella che li stava nel lato, intitulata San Severo il Vecchio; e qui diedero principio ad una famosa cappella per lo publico, e sopra ad un ampio oratorio dove si congregavano in ogni festa a recitare i divini officii et ogn’altra cosa che per detta opera era di necessario; e questa fabrica fu fatta a spese de’ medesimi fratelli, senza toccare il danaro dell’opera, e non havendo tutto il danaro pronto, ne presero una somma ad interessi, obligandosi ogni fratello nomine proprio. Essendosi nell’anno 1579 terminata la fabrica, vi passò la Compagnia, et ivi con nuove regole s’assodò; e fra l’altri fu stabilito che non s’eligesse governatore che fratello non fusse. Impetrarono larghe indulgenze dalla santità di papa Gregorio XIII e si diedero con maggior fervore alle di già principiate opere di pietà. [174] S’assodò il monte per l’impegno non solo per li carcerati della Vicaria, ma per altri poveri, con ampio privilegio di don Pietro de Giron duca d’Ossuna, viceré. Nell’anno 1585 s’ampliò il luogo già detto “dell’Impegno”, dentro del cortile della Vicaria, dove ancora eressero una cappella, che fin hora vedesi in piedi; ed in ogni mese eliggevano un fratello, con titolo di Menzario, che havesse dovuto assistervi e tener peso del danajo, un altro per Guardarobba che custodiva i pegni, ed un altro con il titolo di Secretario, che notava i pegni, i dispegni e tenea conto delle spese del Menzario e del Guardarobba. S’ottenne ch’i fratelli sudetti potessero ricevere depositi per servirsene, bisognando, per l’opra sudetta, e per cautela de’ depositanti farne fede che havesse forza di scrittura publica. Hor dopo molte e molte contrarietà incontrate su questo - come è solito ne’ principii dell’o[175]pere di Dio - per la somma diligenza, valore ed assistenza zelante de’ fratelli, e particolarmente di Lorenzo de Franchis, figliuolo di Vincenzo, insigne presidente del Sacro Consiglio in quel tempo avvocato fiscale di Vicaria e priore di questo luogo, huomo d’una eccessiva carità, restò in tutto sodamente stabilito, in modo che viddesi crescere a momenti e principiò ad haver forma di publico banco, havendo di già sodisfatti tutti i debiti che contratti haveano, chiamandosi bensì per molto tempo Cassa di Depositi, continuando il modo de’ conti, nella forma come sopra, in modo che stimossi maraviglia che gente in esperta nella materia de’ conti, perché tutti eran quasi della profession legale e dottori non fussero caduti in errori e disordini. Bisogna dire che così sa fare il Signore, ch’elegge poveri pescatoi al gran ministerio dell’evangeizzare. Nell’anno poi 1608 essendo cre[176]sciuta l’opera, vi si posero ministri stipendiati, come negli altri banchi; cioè cassiero, libro maggiore, pandettario e giornali, e così si mutò nell’anno 1609 il nome di Cassa di Depositi in quello di Banco, e doppo degli stessi fratellivi si fecero sodissime costitutioni circa l’amministratione che approvate vennero poi dal regio Collaterale, e con privilegio confirmate dal signor viceré.

Cresciuta a tal segno l’opera, incapace si rendeva l’antico luogo della Vicaria, che però nell’anno 1616 comprarono per diecimila scudi da Gasparo Ricca questo palagio, ed havendolo reso atto all’opera de’ pegni e per lo banco, vi si trasferirono a’ 9 di marzo del 1617. Hoggi, per la vigilante accuratezza di chi lo governa, è de’ più ricchi e de’ più sodi luoghi della nostra città, in modo che ne’ tempi calamitosi della nostra patria, quando gl’altri banchi vacillavano, que[177]sto si mantenne sempre fermo.

S’intitula questo banco del Monte de’ Poveri del Nome di Dio, e questo aggiunto del Nome di Dio l’hebbe così. Nell’anno 1583 formata venne una compagnia di 29 gentil’huomini dentro la chiesa di San Severo, sotto la guida del padre maestro fra Paulino da Lucca de’ predicatori, religioso per la bontà della vita venerabile; ed i fratelli di questa compagnia attendevano non solo alle cose appartenenti alla buona via dell’anime loro, ma all’ajuto del prossimo, visitando i carcerati e sovvenendo i poveri vergognosi et altre opere di misericordia. Ma perché questa compagnia s’esercitava in opere di pietà consimili a quelle del Monte de’ Poveri, con questo s’unì nell’anno 1588 e chiamossi la Compagnia del Nome di Dio del Monte de’ Poveri. Poscia questa unione, per gelosia di precedenze, si disunì non essen[178]do durata più che per nove mesi. Nel gennajo dell’anno 1599 si riunirono di nuovo formando nuove regole e statuti fra di loro, quali furono assodati con decreto dell’ordinario, chiamandosi il Monte de’ Poveri del Nome di Dio. La chiesa, poi, e l’oratorio che stavano eretti, come si disse, nella porta maggiore della chiesa di San Giorgio, con l’occasione che i padri pii operarii furono trasportati nell’anno 1643 nella casa del banco, dove rimediarono un oratorio al meglio che si poté, sopra del guardarobba de’ pegni; indi fabricarono col disegno di don Giuseppe Caracciolo, nobile molto virtuoso, dentro la cappella del cortile, un nuovo oratorio, che per l’ampiezza, politia ed ornamenti è degli più belli di Napoli. E nel cavarsi per far le fondamenta vi si trovarono maravigliose vestigia dell’antico ginnasio e delle [179] terme. Le dipinture che in questo si vedono, così ad oglio come a fresco, sono del pennello del nostro Luca Giordani, e sono delle studiate; i sedili son tutti di finissimo legname di noce; il quadro che sta nella cappella di fuori è di mano del nostro Giovanni Antonio d’Amato.

Viene la Piazza de’ Tribunali et i tribunali medesimi, detti, con volgato nome, la Vicaria. Questo luogo fu egli edificato per castello da Guglielmo Primo normando e fu habitatione dell’istesso Guglielmo e de’ suoi successori. Fu poscia nell’anno 1231 ridotto in miglior forma e finito da Federico Svevo, per opera di Giovanni Pisano architetto fiorentino. Restò anco habitatione degl’Angioini e degl’Aragonesi; havendo poi Ferdinando Primo principiato ad ampliare la città e circondatala di nuove mura, come si vede dalla Porta del Carmine fino a San Giovanni a Car[180]bonara, detto castello restò dentro; né serviva più a cosa alcuna, che però fu egli donato a Carlo della Noja, principe di Sulmona. Don Pietro di Toledo poi volle unire tutti i tribunali et il motivo principale a questo fu per togliere il Tribunale della Regia Camera dalla casa del Marchese del Vasto, gran camerario, né trovando luogo più opportuno che il vecchio Castello di Capuana, se lo fece cedere dal Principe di Solmona, et in luogo di questo gli diede un palazzo nella contrada dell’Incoronata, pervenuto alla corte per un debito d’un mercadante fallito; e con ispesa grande lo ridusse commodo per tutti i regii tribunali, e nell’anno 1590 glieli trasportò. Vi è quello detto del Sacro Conseglio, che stava primo nel chiostro di Santa Chiara, e nominavasi Consiglio di Santa Chiara. Questo tribunale ha quattro ruote, et in ogni una di esse vi sono cinque consiglieri, et [181] in tutto sono ventidue, perché due presiedono capi nella ruota della Vicaria criminale. Di questo tribunale dovrebbe esser capo il gran protonotario, ma in suo luogo da sua maestà vi si pone un ministro, con titolo di presidente. Ogni ruota poi have il suo capo, che li dà nome, e questo s’ottiene dall’anzianità nel ministerio. Il presidente siede in quella ruota dove più li piace e dove richiede il bisogno, essendovi a tal fine, in ogni ruota, una sedia con appoggi e spalliere maggiore dell’altre. Avanti di queste quattro ruote vi è un ampio e gran salone dove siedono gl’avvocati, e vi sono molti archi dove stanno le banche de’ maestri d’atti e scrivani, per attitare i processi. Negli giorni di negotii in questo salone si vedono migliaja d’huomini a segno che non si può spuntare avanti senza forza. Vi è il suo secretario, portieri et altri ministri; et in questo tribunale [182] non si trattano che liti tra particolari. Da questo si passa in altri due gran saloni, in capo de’ quali vedesi la ruota della Regia Camera, dove si trattano i negotii del patrimonio regale e degl’interessi camerali. Vi sono sei presidenti dottori, tre italiani e tre spagnoli, e tre altri presidenti detti Idioti, quali sogliono essere due italiani et uno spagnolo. Vi è il suo avvocato e procurator fiscale con ventiquattro rationali, ancorché di questi, como anco de’ presidenti Idioti, Sua Maestà ne suole fare sopranumerarii. Doveria presedere a questo tribunale il Gran Camerario, ma da Sua Maestà vi si destina un ministro con titolo di luogotenente. Presso di questa ruota vi è la Ruota dei Conti e le stanze per i rationali. Nei già detti saloni vi si vedono una quantità di banche per i maestri d’atti e per gli attuarii, e queste due sale in tempo di negotii si veggono al maggior segno [183] piene di negotianti. Vi si può vedere ancora un meraviglioso archivio. Nella cappella dove prima di principiare il tribunale s’ascolta la santa messa, che sta nel principio del primo salone, vi è un bellissimo quadro della Pietà opera di Francesco Ruviale, discepolo di Polidoro, che per la sua eccellenza nel dipingere fu chiamato il Polidorino.

Da questo tribunale si passa a due altre sale della Vicaria, detta la Gran Corte. Nella prima si trattano le cause civili, e vi sono due ruote et ogni una di esse ha tre giudici, e di questi alcuni sono perpetui posti dal re, e gl’altri vengono destinati dal signor viceré e sono biennali. Nella seconda si giudicano le cause criminali e nella ruota assistono sei o pure otto giudici o più, come piace al signor viceré, e due consiglieri per capi di ruota. Questo tribunale della Gran [184] Corte giudica le cause civili e criminali, non solamente della città, ma ancora di tutti i tribunali del Regno, così baronali come regii in grado d’appellatione, e detta Gran Corte similmente in grado d’appellatione soggiace al Sacro Consiglio. Dovrebbe presedere a questo tribunale il gran giunstitiere, ma in suo luogo dal signor viceré vi si destina un ministro con titolo di regente; quale officio dura per due anni, quando dall’istesso signor viceré non viene confermato. Nella cappella della sudetta sala dove i giudici, così civili come criminali, ascoltano la messa, vi è un quadro dove sta espresso il Signore deposto dalla Croce, opera similmente del Ruviale. Questo tribunale fu qua trasportato dalla sua antica stanza, che stava presso la chiesa di San Giorgio Maggiore, e prima dove al presente sta la chiesa dell’Incoronata. [185] Per le scale del detto tribunale si sale ad un altro tribunale, detto della Zecca, che altro peso non ha che di segnare con un segno regio i pesi e le misure delle bilancie, e questo tribunale have il suo giudice et altri ministri; e prima ne stava presso la chiesa di Sant’Agostino. Vi è un altro tribunale, detto della Bagliva, nel quale sommariamente si trattano le cause di trenta carlini in giù, e s’accusano l’obliganze che per questo tribunale si fanno tra le parti; e gli giudici di questo tribunale vengono creati dalle piazze nobili; et ogn’uno di questi tribunali have i suoi maestri d’atti et altri ministri. Questo tribunale della Bagliva ne stava prima presso la chiesa già detta dell’Incoronata, in un vicolo che fin hora serba il nome della Bagliva.

Sotto di questi tribunali vi stanno le carceri, e vi sono stati talvolta da duemila e più prigioni, per[186]ché qui sono imprigionati non solo quelli della città ma anco del Regno. Nel cortile presso la porta picciola si vede un leone di marmo che sta sopra diverse fonticelle e queste erano l’antiche misure del vino, dell’oglio e d’altre cose simili che si vendeano da’ bottegai. In questo luogo, essendo egli castello e habitandovi la regina Giovanna Seconda, successe l’infelicissimo caso di Ser Gianni Caracciolo.

Usciti da questo tribunale si può tirare da sotto, verso Porta Capuana, et a sinistra vedesi un’antica chiesa dedicata a Sant’Honofrio, presso della quale vi è un seminario d’orfanelli, detti di Sant’Honofrio. Questo principiò da una miseria grande accaduta nella nostra città, per la quale molti poveri ragazzi andavano dispersi senza ajuto alcuno. Quivi s’allevano col santo timor di Dio e si fanno attendere [187] alle lettere et alla musica, nella quale riescono molti buoni soggetti.

Vedesi poi la bella e famosa chiesa dedicata a Santa Caterina vergine e martire, detta a Formello, e prende questo nome da un perennissimo fonte che vicino se gli vede; e chiamasi Formello perché qui principiano l’acque ad entrare nei nostri formali, quali, se come stanno fabricati sotto terra stassero sopra, cosa più meravigliosa veder non si potrebbe in tutto il mondo. Questi che noi chiamiamo formali, altro non sono che aquedotti che van serpeggiando per tutta la città, né vi è casa, per picciola che sia, alla quale non diano comodità d’acqua; e nella parte bassa formano vaghissime fontane e sono così ben fatti che adagiatamente vi si può caminare da huomini prattichi in questo (che noi chiamiamo pozzai). Et è tanto che uno entrando per questa parte potrebbe uscire per l’ultimo della città, e da quand[188]do in quando, per le strade della nostra città vi sono publici aditi per dove i già detti pozzai ponno calare, o per accomodar qualche cosa o per dare acqua alle conserve.

Si può entrare a vedere la detta chiesa di Santa Caterina. Era questa anticamente una picciola chiesa et uno stretto monasterio, dove habitavano alcuni monaci celestini, detti di San Pietro a Majella. Alfonso Secondo re di Napoli, havendo bisogno del monasterio della Madalena per ivi fabricare presso del suo giardino un’habitatione per la sua famiglia, nell’anno 1492 si comprò da detti monaci per due mila docati e la chiesa e il monistero, et ivi trasferì le già dette monache della Madalena; ma essendo il monasterio delle monache profanato et habitandovi i cortegiani d’Alfonso, s’ammalarono e questi tutti morirono: lo che essendo da’ napoletani attribuito a castigo di Dio, Alfonso restituì al[189]le monache stesse l’antica loro habitatione, e questo di Santa Caterina restò quasi in abbandono. Nell’anno poi 1499 il re Federico lo concedé a’ frati predicatori della congegatione lombarda, e particolarmente a fra Bartolomeo de Novis, limosiniere di esso re, huomo di gran bontà di vita, che semplicemente con frutto grande dell’anime christiane predicava la divina parola; e questo fu il primo priore in detto convento. Havuta questa concessione, vedendo angusta la chiesa et angustissimo il convento, si diedero e l’una e l’altro a rifare, e per primo cominciarono dal convento; poscia a’ 12 d’aprile dell’anno 1523 si diede principio alla chiesa, e terminata si vidde nell’ottobre del 1577, il tutto con le limosine e sovventioni di pii napoletani, e particolarmente de’ signori Spinelli de’ prencipi hora di Cariati. Questa sì bella chiesa fu architettata e guidata nella fabri[190]ca da Antonio Fiorentino della Cava, architetto famoso in quei tempi; da questo fu designata la cupola, che oltre d’esser di tutta perfettione, fu passata in quei tempi per una meraviglia, essendo la prima che fusse stata vista in questa nostra città; e questa è servita d’esempio all’altre che sono state fatte appresso, e si è presa la facilità d’inalzare simile sorte d’edificii.

Vedesi l’altare maggiore di bianco marmo con molti sepolcri e statue bellissime de’ signori Spinelli, al presente principe di Cariati, con altre. Il tutto fu fatto per mano di due eccellentissimi scultori detti Scilla e Giannotto, milanesi. Nel cappellone dalla parte dell’Epistola, dedicato alla Vergine del Rosario, vi si conservano li corpi di ducento quaranta christiani uccisi da’ Turchi nell’anno 1480 nella città di Otranto perché si mantennero costanti nella cattolica fede; da Alfonso Secondo, all’hora [191] duca di Calabria che andò a liberare la città sudetta dalle mani di quei barbari che posseduta l’havevano per mesi tredici, furono fatti trasportare i già detti corpi martirizzati in Napoli, dove edificare li fece presso la chiesa già detta di Santa Caterina (in tempo che vi stavano le monache della Madalena) una regal cappella intitolata Santa Maria de’ Martiri, e fu dotata di commode rendite, ponendovi a servirla sei sacerdoti. Queste sante reliquie poi, essendo compita questa chiesa, vi furono sollennemente trasportate nell’anno 1574 a’ 26 di maggio e, riconosciute dall’arcivescovo, furono collocate nel luogo dove al presente si vedono, e la cappella di Santa Maria de’ Martiri fu a detta chiesa incorporata. Vi sono altre reliquie, come la testa d’una delle compagne di sant’Orsola vergine e martire, un osso della spalla et il deto di santa Caterina da Siena. [192] Vi sono molte belle dipinture. Nella Cappella della famiglia delle Castella vi è una tavola in cui s’esprime l’Adorattione da’ Maggi al nostro Redentore, con molta turba di soldati et altri, dipinta con grand’arte et ingegno da Silvestro Buono nostro napoletano; nella Cappella del Marchese di Chiusano Acciapaccia vi è una tavola nella quale si vede la Conversione di San Paolo, vagamente dipinta da Marco da Siena; nella penultima cappella dalla parte dell’Evangelio, vedesi un quadro nel quale con gran furore e bellissimo colorito sta espressa la Strage degl’Innocenti, benché habbia della maniera antica, opera di Matteo di Giovanni da Siena, quale la dipinse nell’anno 1418. La tavola che si vede nella Cappella della famiglia Maresca, nella quale vedesi la Vergine col suo Figliuolo in braccio e di sotto il dottore angelico San Tomaso, fu ope[193]ra di Francesco Curia. Vi sono molte belle sepulture et epitaffi, che si ponno leggere da chi ha tempo. Nella sacristia vi è una nota in marmo nella quale si leggono i nomi di molti huomini illustri che in questa chiesa sono stati sepolti, e fra questi vi è il cardinale Andrea Palmiero napoletano, del titolo di San Clemente.

Dalla chiesa si può passare a vedere il chiostro et il convento nel quale vi è una libreria antica qua trasferita da Alfonso Secondo per uso dei frati. Si può anco osservare una famosa farmacopea, forse delle più belle e delle più curiose che veder si ponno per l’Italia, sì per l’abbondanza d’ogni compositione necessaria all’humana salute, come anco per molte ricche e belle curiosità che vi si veggono; et in ogni tempio vi sono stati frati segnalatissimi in questo mestiere. Con la già detta farmacopea sta unito il museo del padre fra [194] Mauritio di Gregorio, ancorché in gran parte sfiorato e non ancora totalmente posto in ordine in quello che vi è rimasto.

Usciti da questa chiesa si può tirare su per l’ampia e famosa Strada detta di Carbonara. Questo nome di Carbonara era pervenuto a’ napoletani al tempo degl’Angioini, trattando di questa strada Francesco Petrarca nelle sue epistole scritte quando fu in Napoli in tempo del re Roberto d’Angiò. Alcuni de’ nostri scrittori vogliono che questa era una piazza dove si facevano i duelli, all’hora permessi, e ch’i cadaveri di quei che vi morivano eran bruciati. Questo non può aver piede, perché non trovamo, né prima né doppo il regno di Roberto, cadavero alcuno che in questo luogo fusse stato bruciato, oltre che in quei tempi il duello era permesso, e, come dice il Petrarca, v’interveniva il Re medesimo. Altri dicono che si chiamava Car[195]bonara perché vi si facevano carboni, ma questo è ridicolo, perché essendo questa quasi sotto le mura della città, vi erano giardini et altri luoghi ameni, né è credibile che havessero fatte sotto delle mura le carboniere, e tanto più che non vi era prossima la materia da farle. Vogliono cert’uni che si dica Carbonara per alcune case che vi erano della famiglia Carbone; se havessero detto che vi era qualche villa di questa famiglia sarebbe stato in qualche parte credibile, ma, dicendo case, non è possibile, perché questo luogo che sta chiuso dentro della città dalla nuova muraglia fatta da Ferdinando Primo, che per prima stava fuori; oltre che la fameglia Carbone habitava in un vicolo presso del Seggio Capuano che, come si è detto, sin hora serba il nome de’ Carboni. Piace agl’intendenti quel che scrive Camillo Pellegrino, che la denominatione di questa Piazza di Carbonara nascesse per[196]ché in questo luogo si buttavano l’immonditie della città, et il Pellegrino l’ha preso dall’accuratissimo scrittore Fabio Giordani, quale dice che Carbonara chiamavasi quel luogo dove l’immondezze si buttavano. Sia ciò che si voglia, era questo un luogo, come si disse, fuori della città, e nel capo dove vedesi la chiesa della Pietà, v’era un piano che chiamavasi, come fin hora, il Campo. Quivi, nei giorni che non erano di lavoro, s’univano i sassajoli a gareggiare con le pietre tra di loro; poi si cominciò a contrastare con bastoni, e per ultimo, nei tempi de’ francesi vi si concorreva a giostrare, proponendosi prima il premio, come a punto si suol fare hoggi nel corso de’ cavalli barbari, nelle lutte et altri simili giuochi. E questo premio s’attaccava in un olmo che stava dentro della città, come al suo luogo si dirà. Nelle giostre, poi, spesso vi resta[197]vano de’ giostratori o morti o feriti, et un di questi casi accadde in tempo del Petrarca; quando poi detti giuochi furono dismessi si dirà appresso. Hor caminando per questa strada verso la chiesa di San Giovanni vedesi a destra il bello e nobile seminario della famiglia Caracciola, nel quale altri alunni non vi stanno che di questa casa; e vi è stato tempo che ve ne sono stati venticinque, dallo che si può argomentare quanto numerosa sia questa gran famiglia. Si eresse questo nobile seminario sono sessant’anni in circa, et in questo modo: il Conte d’Oppido della casa Caracciola, signore molto ricco, non havedo figliuoli lasciò herede del suo havere la Casa Santa dell’Annuntiata, con obligo che delle sue rendite in ogn’anno se ne ponessero da parte docati mille, et arrivati al numero di tre si fussero dati per dono ad una donzella della famiglia, e che del rimanente se ne fussero [198] dati docati sei in ogni mese a’ poveri cavalieri di questo casato. I signori Caraccioli, stimando questa dispositione poco confacente al decoro, diedero supplica al sommo pontefice, e la supplicarono a commutare la detta dispositione del conte nell’erettione d’un seminario per li figliuoli della famiglia Caracciola; benignamente l’ottennero, e fu nobilmente eretto, come si vede. Vien governato questo luogo dai padri sommaschi et i ragazzi sono allevati nel timore di Dio, nelle buone lettere e negli esercitii che convengono et adornano i cavalieri, come nella scherma, nella musica et altro.

Si può arrivare alla chiesa di San Giovanni, che prende il nome dalla strada e dicesi a Carbonara. Questa è ricca di curiosità, ma per dare qualche breve notitia della sua fondatione è da sapersi che nel 1339 Gualdiero Galeota donò un fondo, detto Carbonara, al padre [199] fra Giovanni d’Alesandria, all’hora provinciale dell’ordine de’ frati eremitani di Sant’Agostino, perché in esso vi fondasse una chiesa e monasterio sotto il titolo di San Giovanni Battista. Nell’anno 1343 a’ 22 di novembre Giovanni arcivescovo di Napoli concedé a un tal fra Dionigi, del medesimo ordine, l’erettione di detta chiesa. Nell’istess’anno il medesimo Gauldiero donò agli frati i giardini e l’habitatione ch’ei nell’istesso luogo possedeva, e con questo dono ampliarono il convento e si separarono dalla provincia, facendo una congregatione a parte, e si chiamò dell’Osservanza, perché in essa a puntino s’osservava la regola del di loro glorioso fondatore. Fu poi la detta chiesa restaurata, ampliata, abbellita et arricchita dal re Ladislao.

Entrati in questo tempio, vedesi nell’altare maggiore una custodia di bianchissimo marmo fra due statue, una di San Giovanni Battista, l’altra di [200] Sant’Agostino, opera del nostro Anibale Caccavello. Dietro di detto altare scorgesi il sontuoso sepolcro di re Ladislao, opera che in quei tempi veder non si poteva maggiore. L’altezza quasi tocca il tetto; di sopra sta situata la statua del Re, armato a cavallo, con la spada nuda nelle mani, con un cartiglio che vi sta sotto che dice:

Diuus Ladislaus

Di sotto si leggono questi versi:

Improba mors, hominum, heù semper obvia rebus
Dum rex magnanimus totus spe concipit orbem
En moritur, saxo tegitur rex inclytus iste
Libera sydereum, mens ipsa petivit Olimpum.

Nella cornice di sotto:

Qui populos, belli tumidos; qui clamide tirannos
Perculit intrepidos, viator, terraq; marique
Lux Italum, splendor clarissimus, hic est.
[201] Rex Ladislaus, decus altum; & gloria Regum;
Cui tanto heu lacrymae, soror illustrissima fratri
Defuncto, pulchrum, dedit hoc Regina Joanna,
Viraque sculpta, sedens majestas, ultima Regum
Francorum soboles; Caroli sub origine primi.

Dietro di questo vi è un altro sontuoso sepolcro, del gran siniscalco Ser Gianni Caracciolo, della linea de’ Pisquitii; fu questo sommamente amato, per il suo gran valore e sua gran fedeltà, dal re Ladislao, e così caro alla regina Giovanna, sorella del re sudetto, ch’arrivò a tal segno di grandezza e di fortuna che altro non li mancava che il titolo di re. Ma perché le cose di qua giù, quando più avanti spuntar non ponno, è di bisogno che retrocedano, questo, nel sommo de’ suoi ingrandimenti fu fatto violentemente morire den[202]tro del castello di Capuana, per opera di Covella Ruffo duchessa di Sessa e cognata della Regina, a’ 25 d’agosto dell’anno 1432, essendo in età d’anni sessanta. La morte di questo grand’huomo fu dalla pentita regina molto lacrimata. Trojano, figliuolo di Ser Gianni, duca di Melfi, l’eresse con la sua statua al naturale il sepolcro con questo epitaffio, che composto fu da Lorenzo Valla:

Nil mihi ni titulus, summo de culmine derat;
Regina morbis invalida, & senio
Fæcunda populos; proceresque in pace tuebar
Pro domina Imperio, nullius arma timens:
Sed me idem livor, qui te fortissime Cesar,
Sopitum extinxit, nocte juvante dolos.
Non me, sed totum laceras manus impia regnum;
Partenopeque suum perdidit alma decus.

[203] E sotto del sepolcro:

Syriandi Caraczulo, Avellini Comiti, Venusii Duci; ac Regni magno Senescallo, & moderatori, Trajanus Filius, Melphiæ Dux, parenti de se, deque Patria, optime merito, erigendum curavit anno 1432.

Nel lato dell’Evangelio del detto maggiore altare vedesi una famosa cappella, tutta di gentilissimi marmi bianchi. Fu questa nell’anno 1516 fondata da Galeazzo Caracciolo Rosso marchese di Vico, e nell’anno 1557 (come dalle religiose inscrittione veder si può) fu ridotta a perfettione da Col’Antonio suo figliuolo. La grandezza di questi signori, per renderla ammirabile come è et ogetto di stupore alla curiosità de’ riguardanti, v’impiegarono i primi artefici di quel secolo. La tavola centrale, dove s’esprimono i Maggi ch’adorano il Verbo humanato in seno della Madre, fra’ quali re vedesi il ritratto al naturale del re Alfonso Se[204]condo, di mezzo rilievo; le statue tonde che rappresentano San Giovanni Battista, San Sebastiano, San Luca e San Marco evangelista; nel piede della tavola sudetta de’ Maggi, San Giorgio a cavallo ch’uccide il dragone, et il Christo morto avanti all’altare, sono opere dell’illustre scultore Pietro della Piata di natione spagnola, che esercitava l’arte in Napoli. Sta divisa questa gran cappella in tre necchie, e nelle due laterali si veggono quattro statue tonde, fatte a gara da quattro nostri scultori, e furono Giovanni di Nola, Girolamo Santacroce, Anibale Caccavello e l’istesso Pietro della Piata. Le staute rappresentano San Pietro, San Paolo, Sant’Andrea e San Giacomo apostoli. Vi si vedono e le colonne e gl’altri ornamenti tirati con regola et attentione grande. Le statue che stanno su le sepolture furono fatte dallo Scilla milanese. Infine non vi è cosa in questa cappella che non sia mera[205]vigliosa. Da questa cappella passar si può a veder la sacristia, dove si veggono quindeci tavole nelle quali sono espresse quindeci Historie del Vecchio Testamento con vaghi ornamenti di legname di noce, opere di Giorgio Vasari. Su l’arco dell’altare di questo luogo vi è un bellissimo quadro del Bassano il Vecchio. Su l’altare vedesi una tavola di alabastro, con li suoi portelli che la chiudono, nella quale sta espressa, benché non di molta perfettione, conforme come comportavano quei tempi, la Passione del nostro Redentore; questa tavola il re Ladislao la faceva portare dovunque egli andava, fino nei campi militari, per esponerla su l’altare quando udir voleva la messa. Vi si conserva parte del sangue del glorioso Precursore, benché vedasi hoggi molto diminuito; vi si conserva ancora un piviale di ricchissimo broccato e questo fu fatto del manto regale del re Ladislao, [206] che quei padri hebbero in dono; è meraviglia come in tanto tempo si sia così mantenuto.

Poscia si può vedere il chiostro molto bello et ampio, e da questo, per la parte della sacristia, si passa in un altro chiostretto, in mezzo del quale vedesi un grosso albero d’arangi piantato dalle mani dell’istesso re Ladislao che spesso andava a diportarsi in detto convento. L’habitatione de’ frati sono tutte commode et allegre. Si può vedere la libraria che a detto convento fu lasciata dal gran cardinale Girolamo Seripando, nobile napoletano figliuolo di Giovanni e d’Isabella Galeota, la di cui casa stava dove appunto è il seminario de’ Caraccioli detto di sopra. Questo grand’huomo giovane prese egli l’abito agostiniano in questo convento, dove apprese le virtù e le scienze del gran padre delle lettere Agostino, et in esse così illustre si rese che doppo [207] d’essere passato per tutte le cariche della religione fu assunto alla dignità cardinalitia dovuta al gran merito delle sue honorate fatiche. Fu questo grand’ingegno versatilissimo nelle lingue latina, greca, araba et ebrea, e però in questa libraria, se non in quantità, in qualità vi sono libri eruditissimi e reconditi, e particolarmente dell’idioma greco, che di vantaggio non se ne ponno desiderare. Vi è un Alcorano in lingua araba diviso in più volumi, molto stimato dall’intendenti. Vi sono molti codici manoscritti di classici e reconditi autori. Vi sono ancora molti manoscritti dell’istesso Cardinale, e particolarmente degl’atti del sacro Concilio di Trento, nel quale fu legato apostolico; fatiche che sono state di grand’aiuto al cardinale Sforza Pallavicino nella non meno utile che erudita istoria che egli ha scritta del detto concilio. In detta libraria vi si conservano an[208]cora alcuni ritratti antichi in marmo, e particolarmente quello d’Attila re degl’Unni.

Usciti per la detta chiesa, a man destra vedesi una cappella dove s’osserva una tavola nella quale sta dipinto il Nostro Signore in croce, opera forse delle belle che sia uscita dal pennello di Giorgio Vasari. Questa fu fondata da Antonio Seripando, carissimo al cardinal d’Aragona per le sue buone lettere, e vi fece ponere anco la memoria di Giano Parrasio, suo compagno negli studi, e di Francesco Puccio, gran letterato di quei tempi, suo maestro.

Calando per le scale della chiesa sotto del piano già veduto, si vede un’altra chiesa, et è da sapersi che questa fu la prima eretta da’ padri quando donato li fu il luogo da Gualdiero Galeota; poscia, essendo stata eretta la nuova in tempo di Ladislao e di Giovanna Seconda, questa restò in abbandono, indi [209] profanata e ridotta in botteghe locande. Nell’anno poscia 1620 miracolosamente vi si trovò un’imagine dipinta al muro, nella quale vedesi la Vergine che abbraccia il suo Figliuolo che sta mezzo nel sepolcro, e dalla destra vi è San Giovanni Battista, dalla sinistra Sant’Agostino. E degnandosi la Maestà divina di concedere molte gratie a’ napoletani che concorrevano a venerarla, in brieve per le molte limosine raccolte, tornò ad esser chiesa, e fu ridotta nella forma che si vede.

Presso di questa vedesi un’altra chiesa dedicata a San Marco della Pietà. Stava questo luogo fuori della città, e chiamavasi il Campo, perché in questo spesso si facevan giostre e giuochi gladiatori. Un divoto romito, chiamato fra Giorgio, carissimo al re Carlo Terzo angioino, nel 1382 supplicò la Maestà di quel re, per evitare così esecrandi giuochi, di voler concedere [210] ad alcuni pii napoletani il detto Campo per edificarvi una chiesa. Il re volentieri compiacque al buono romito, e così nell’istess’anno vi fu edificata la presente chiesa, e con questa un ospedale per li poveri infermi; e con questa edificatione si tolsero le scandalose morti che allo spesso accadevano, e forse anco con la perdita dell’anime. Nell’anno poi 1542 la detta chiesa col suo ospedale dagli nobili della piazza capuana, dall’eletto del popolo e dagl’habitanti dell’ottina, con assenso del pontefice fu conceduta alla chiesa della Santissima Annunciata, e per essa a’ suoi governatori, i quali incorporarono il detto ospedale al grande della Santa Casa, restando la chiesa governata dagli governatori della Annunciata, i quali la fan vedere puntulamente servita da molti honorati preti. In questa chiesa vi è una cappella della comunità de’ candelari di sevo, et in essa vi è una [211] tavola nella quale dipinse il nostro Francesco Curia la Purificatione della Vergine, dove espressa si vede la Regina de’ cieli che presenta al tempio il suo divino Figliuolo, e proprio nelle braccia di Simeone: quadro, e per lo disegno e per lo costume, il più bello, il più vago et il più considerato che possa uscire da pennello humano, in modo che il nostro gran dipintore Gioseppe de Rivera, detto lo Spagnoletto, mandava i suoi discepoli a studiarvi, solendo dire che solo da un angelo si poteva fare cosa migliore.

Lasciata questa chiesa si vede appressa un famoso stradone che tira verso la Porta di San Gennaro, e questo un tempo chiamossi la Strada del Campo; hora si nomina col nome della Porta. Vi sono commodissimi palazzi dalla man destra, che corrispondono su la muraglia. Ma si può tornare indietro per la stessa Via di Carbonara. Vedesi a destra [212] un famoso Palazzo de’ signori Prencipi di Santo Buono, dove con la sua corte resedé il duca di Ghisa in tempo delle scialacquate motioni populari, e girando per la strada dove sta la porta delle stalle di detto palaggio, a sinistra vedesi una picciola chiesa dedicata a Santa Sofia, e per antica traditione si ha che fusse stata edificata dall’imperator Costantino, ma molto meglio potrebbe dirsi in tempo del detto imperatore, perché, come si disse, Costantino a spese proprie non edificò che la chiesa di Santa Restituta.

Dirimpetto di detta chiesa vedesi un pezzo di muro antico e presso di questo una picciola bocca di pozzo, e per questa sboccarono nella stanza del sarto i soldati d’Alfonzo che vennero per l’aquedotto, e furono cagione che il detto re s’impadronisse della città di Napoli, havendo occupato una torre che stava vicino la porta detta di Santa Sofia. [213] La strada che presso di questa si vede e che tira sù, si dice de’ Ferrari, perché in questa habitavano i fabri del ferro. Tirando poscia a dritta vedesi a destra un vicolo che spuntava al seggio detto di Santi Apostoli, unito, come si disse, a quello di Capuana. A sinistra vedesi un sopportico per lo quale s’entra in un vicolo che va a terminare alla porta dell’Ospedale di Santa Maria della Pace, anticamente detto Corneliano, hoggi detto di Santa Maria d’Agnone perché in questo vicolo vi era la chiesa e monistero di questo titolo, et era appunto dove hoggi sono le carceri dette di Santa Maria d’Agnone. E dentro delle carceri sudette vedesi in piede il chiostro; ma di questo luogo se ne darà più chiara contezza nel vedere la chiesa di San Gaudioso.

Tirando più avanti vedesi un altro vicolo alla sinistra, che tira verso la Strada di Capuana, antica[214]mente detto Dragonario, hoggi della Lava, essendo che per questo, nel tempo delle pioggie, cala il torrente che vien da sù. A destra vedesi un’ampia strada che passando per avanti del Palagio de’ signori Prencipi del Colle, della casa Somma, che gode a Capuana, termina a drittura nella famosa e nobilissima chiesa e casa de’ gentilissimi padri teatini. In questa chiesa vedesi compendiato quanto di bello, di devoto e di maestoso si può vedere in un tempio. Si porta da molti nostri anticarii, e particolarmente dal padre don Antonio Caracciolo, che questo fusse stato in tempo degl’antichi greci o romani un tempio dedicato a Mercurio, per molti caducei che scolpiti si veggono in alcuni adornamenti rimasti nell’antica chiesa. Altri vogliono che fusse dedicato a Marte. Sia che si voglia, non essendo da disputarne per non allungare queste notitie, certo è [215] che nelle vestigia ritrovate nell’erettione della nuova chiesa, si conosce esservi stato tempio per il modo dell’antiche fabriche che indicavano esser fatte alla greca, e nell’antica chiesa vi si vedevano colonne di pietre antichissime venute in Italia solo nei tempi de’ greci e de’ romani; e gl’altri ornamenti, similmente di marmi, eran tutti lavori antichissimi. Alcuni poi dicono che questa fu fatta edificare dall’imperador Costantino il Grande, e che fusse una delle sei chiese greche, all’uso di Costantinopoli, e questo per un’impresa che vi si vedeva di Costantino, simile a quella che si vede nel cupolino della Cappella di San Giovanni in Fonte, dentro della basilica di Santa Restituta. Ma a questo si può rispondere quel che altre volte s’è detto, che se Costantino havesse edificato a sue spese tante chiese in Napoli certo è che sarebbero state registate da san Damaso papa, il quale non [216] solo le registrò tutte, ma anco notò le rendite et i doni che diede alle chiese ch’edificò in diverse parti. Con qualche probabilità si può dire che, essendo stata data la quiete alla Chiesa da Costantino et havendo fatto edificare un sacro tempio in Napoli, la pietà de’ napoletani, che costantemente mantenuto havevano la fede che riceverono dal principe degl’apostoli san Pietro, con licenza dell’istesso imperadore havessero convertiti al culto del vero Dio Redentore i tempii de’ falsi dèi, e che uno di quelli fusse stato questo di Mercurio, e che in riconoscenza del beneficio riceuto da quel gran signore, v’havessero poste l’armi. Altri scrittori asseriscono che questo tempio fusse stato edificato nell’anno 489 da Sotero vescovo di Napoli, e che fusse servito per la Cattedrale. Hor sia ciò che si voglia, diciamo quel che è di certo: nell’anno 1570 essendo questa chiesa beneficiale [217] et juspatronato della famiglia Caracciola, fu da Col’Antonio Caracciolo marchese di Vico, col consenso dell’arcivescovo di Napoli, conceduta alla pia religione de’ chierici regolari teatini, ritenendosi la detta famiglia il jus di presentare l’abbate di detta chiesa, quale jus è passato alla casa Spinello delli duchi d’Aquaro, con l’heredità di donna Maria Caracciola, unica herede del Marchese di Vico, che si maritò col detto duca.

In questa chiesa vi era la parocchia, la quale fu trasferita nell’anno 1586 nella Chiesa Cattedrale, e così essendo rimasta libera la chiesa agli padri, si diedero tutti agli religiosi esercitii in osservanza del loro istituto, et in breve i napoletani edificati, impiegarono la loro divotione a riedificare la chiesa nella forma che si vede. Fu questa architettata e modellata dal padre don Francesco Grimaldi dell’istess’ordine, e la prima pietra vi fu posta [218] solennemente dal cardinale Francesco Buoncompagno nostro arcivescovo, e si principiò a spese di donna Isabella Carrafa, duchessa di Cercia, che poi prese l’habito di san Domenico nel monasterio della Sapienza, col nome di Maria Madalena. Essendo finita la fabrica si diedero i padri ad abbellirla tutta di stucchi posti in oro: tutta la volta con gl’angoli della cupola, la tribuna del coro e le volte de’ cappelloni furono dipinte dal famoso pennello di Giovanni Lanfranchi. E qui fu la prima volta che si viddero stucchi finti in quell’archi, che ingannano la vista. La piscina probatica che sta su la porta dalla parte di dentro, è di mano dell’istesso cavalier Giovanni, la prospettiva però è del Biviano. La cupola fu dipinta dal cavaliero Giovanni Battista Benaschi torinense. Le lunette che stan su gl’archi delle cappelle, dove stanno espresse diverse Virtù, sono opera di Giacomo del Po siciliano. I quadri ad oglio [219] che stanno nel coro son’opera dell’istesso cavaliero Giovanni Lanfranco. Li quadri laterali nel crociero sono del Giordano. L’altare maggiore vedesi tutto, e ne’ piedistalli e nei scalini, di finissimo diaspro ornato di bronzo dorato; vi è sopra il tabernacolo per conservare la Sacra Eucharistia, è fabricato tutto di pietre pretiose, con colonne di diaspro, con molte statue et altri lavori designati e modellati da eruditissimi artefici, tutti di bronzo dorati. L’architettura è maravigliosa e l’architetto fu il padre don Anselmo Cangiano dell’istesso ordine: e vi fu di spesa dodecimila scudi. Vi si veggono ancora due torcieri famosissimi, de’ quali simili forse non se ne veggono in Italia; furono designati e modellati da Giulian Finelli con un capriccioso pensiero, esprimendovi l’imprese de’ quattro Evangelisti, e furono gittati in bronzo dal diligentissimo Giovan An[220]tonio Bertolino di Fiorenza, fratelllo dell’istess’ordine.

Il cappellone dalla parte dell’Evangelio fu egli fatto fare dal gran cardinale Ascanio Filamarino nostro arcivescovo. La magnanimità di questo signore, che non sapeva appagarsi di cose volgari, volle impiegarvi i primi artefici del nostro secolo, perché in questa sua cappella ogni parte havesse dell’ammirabile. Volle ch’il pensiero fusse del cavalier Beromini e che da questo fusse tirato in pianta. Il quadro maggiore, dove sta espresso il mistero dell’Annuntiatione di Maria, con le quattro virtù – Fede, Speranza, Carità e Mansuetudine – furono dipinte dal famosissimo Guido Reni da Bologna et il quadro maggiore fu poscia dal detto cardinale donato al gran monarca delle Spagne, quando fu nella corte accompagnando il cardinal Barberino, legato. Questi quadri, poi, furono posti in mosaico come si [221] veggono da Giovan Battista Calandra da Vercelli, che in questo genere ha superato tutti. L’originale del suo ritratto fu dipinto da Pietro da Cortona, e quello di don Scipione suo fratello da Mosè Valentino e similmente posti in musaico dal Calandra. E tanto più s’ammirano questi quadri perché l’artefice, che divenne cieco, non lasciò opere più perfettamente condotte di queste. I putti che formano un coro sotto del quadro son opera, e forse delle più belle, ch’habbia fatto Francesco Fiamengo. Tutti gl’intagli son opera d’Andrea Bolci. I leoni che sostengono la menza dell’altare col Sacrificio d’Abramo di basso rilievo, che vi sta di sotto, sono uscite dallo scalpello di Giulian Finelli. Le colonne furono tirate in Roma dal Mozzetta ed è da notarsi che ogni minima cosa che non riusciva a sodisfatione e con esatta perfettione, senza sparammio alcuno si rifaceva di nuovo. [222] Questa cappella fu lavorata in Roma in tempo del pontificato d’Urbano Ottavo, né mai il cardinale volle publicare quanto v’era andato di spesa; essendo poi venuto in Napoli arcivescovo con disegno di collocarla nella Cattedrale, non trovandovi luogo opportuno, non seppe eliggere chiesa più nobile e più polita di questa.

Nell’altro cappellone dirimpetto a questo, benché fin’hora ornato di legname in sembianza di marmi, vedesi la miracolosa imagine dell’Immacolata Concettione, della quale era divotissimo il gran servo di Dio don Francesco Olimpio, in modo che morì con fama d’huomo di gran bontà et in atto si sta frabricando il processo della sua vita. Questo divotissimo religioso per mezzo di questa sacra imagine riceveva gratie infinite dalla Divina Misericordia, et in un giorno, stando la città afflittissima per una fiera penuria che li sovrastava, il buon pa[223]dre inginocchiato avanti di detta sacra imagine impetrò un impensato soccorso di fromento, per lo che la città istessa, in memoria d’un tanto beneficio ricevuto, in ogn’anno presenta alla Vergine già detta sette cerei.

Vi sono poi altre cappelle; quella dove sta espresso in una tavola da Marco di Pino il glorioso arcangelo San Michele, sta dipinta a fresco dal cavaliero Giacomo Farelli e da altri nostri dipintori napoletani.

Vi sono in questa chiesa una gran quantità d’insigni reliquie, situate in un reliquiario donato a questa chiesa da Lucretia Carrafa, madre di Giovan Antonio Scodesche. Non mi distendo a notarle per non allungarmi: si ponno bensì osservare da chi v’entra. Si può anco vedere la sacristia ricca d’una quantità d’argenti che formano candelieri, vasi, fiori et altri ornamenti degnissimi e nobi[224]li. Vi si veggono ancora sei candelieri grandi, tutti di corallo commesso, dono di don Ettore Pignatelli duca di Monteleone. Vi si vedono ancora apparati ricchissimi e di ricami e di broccati, come anco una tapezzeria per apparare tutta la chiesa, di lama d’oro con ricamo sopraposto di punto indiano tutto bordato similmente d’oro. E veramente questa chiesa in tempo di feste solenni sembra stanza di Paradiso, e per la pulitezza e per la ricchezza.

La magnificenza poi della casa non è punto inferiore a questa della chiesa e veramente si può dire che simile se ne può vedere in Italia e non maggiore, vedendosi in essa una quantità di stanze tutte commode, lucide e magnifiche. Ha bellissime loggie, belle sale e nell’officine non vi si può desiderare cosa di vantaggio, particolarmente nel refettorio nel quale oltre della grandezza e bella situa[225]tione, vi sono due prospettive degne d’essere vedute, dipinte da Matteo Zoccolini, fratello di detta religione. Ma una buona parte di sì famoso edificio fu buttata giù dal ultimo terremoto accaduto a’ cinque di giugno del 1688 ed hora si sta rifacendo.

Vi è poscia la libraria che senza dubbio alcuno si può stimare la più bella di Napoli, sì per il vaso che è appunto, come scrive Lipsio, [nel modo] che essere denno le biblioteche, sì anche perché vi si vede una gran quantità di libri così d’antichi come di moderni; ma dalla quantità non viene discompagnata la qualità, perché son tutti volumi scelti e degni d’esser collocati in una stanza sì bella. Dirimpetto a questa vedesi un’altra stanza, che vien detta l’archivio, dove si conservano molti antichi codici et infiniti manoscritti originali di grand’huomini, e fra questi la Gierusalemme di Torquato Tasso, scrit[226]ta di mano e con molte emende di sì questo di gran poeta. Et io confesso grand’obligatione alla gentilissima bontà di questi padri, mentre da questo loro sì grand’archivio m’ho fatto somministrare sodissime notitie, in questo che ho scritto, e particolarmente dal nostro eruditissimo Fabio Giordano, dell’antichità di Napoli, che originale vi si conserva di sua mano. Per detta casa vi si trovano bellissimi quadri che da me non si descrivono per lasciarli alla curiosità di chi se ne diletta. Calati poi per la porteria, dall’una parte e dall’altra della porta maggiore della chiesa vi son due porte per le quali si cala in un amplissimo cimiterio formato a cinque navi e tanto lungo e lato quant’è la chiesa. In questo cimiterio stan sepolti diversi huomini insigni, o per la bontà della vita o per le lettere e fra quest’ultimi vi è il nostro poeta Giovan Battista Marino. [227] Tornando alla strada maestra che anticamente, come si disse, veniva chiamata Somma Piazza et hoggi dicesi de’ Santi Apostoli, tirando sù verso il Palazzo Arcivescovale, il vicolo a sinistra che va giù verso Capuano appellasi similmente de’ Santi Apostoli, come si disse. Quello a destra chiamavasi a Corte Pappacavallo, l’altro a sinistra che va giù fu detto di Monocchio, hoggi, come si disse, si nomina di Capuana. A sinistra siegue il giardino e Palazzo Arcivescovale ridotto in questa nobile forma dal cardinale arcivescovo Ascanio Filamarino, per opra del quale fu fatta la piazza che vi si vede, perché prima non v’era, e la strada era così angusta che non vi poteva entrare la carozza a sei cavalli del signor viceré in tempo di visite. I fregi delle stanze di questo palazzo stanno tutti dipinti dal cavaliero Giovanni Lanfranco et il quadro [228] della cappella del salone, similmente è opera dell’istesso Cavaliero.

Il vicolo che sta dirimpetto alla porta di mezzo di detto palagio, dicevasi anticamente di Filamarini; l’altro, che segue dalla stessa mano nel lato della chiesa di Donna Regina, anticamente chiamavasi Cortetorre, adesso ritiene il nome di detto monistero. Et è da notarsi che nel fine di questo vicolo, che termina nella nova Strada detta della Porta di San Gennaro, vi si vede un pezzo d’antica muraglia, et in esso le vestigia della porta della città. Nel mezzo di questo vicolo, e proprio dove vedesi il parlatorio del monasterio, v’era l’antica chiesa della quale gran parte se ne vede in piedi e sta dipinta all’antica.

Si può entrare nella nova chiesa essendo degna d’essere veduta e, per darne qualche notitia della fondatione, fu ella fondata col monasterio dalla regina Maria [229] moglie di Carlo Secondo re di Napoli e figliuola di Stefano IV re d’Ungheria, nell’anno 1325, e ritiene il nome di Santa Maria Donna Regina, et il monasterio fa per armi, l’armi istesse regali della fondatrice, benché nell’anno 1252 in alcuni istromenti si faccia mentione di detto monasterio, che vuol dire trovarsi edificato in tempo de’ Normandi o de’ Svevi. E si trova ancora che le monache viveano sotto la regola del gran padre san Benedetto. Hor sia ciò che si voglia, chiaro è che la regina Maria havesse riedeficato questo luogo et indotte le monache ad abbracciare la regola del padre san Francesco, del quale era devotissima. Volle essere in detto luogo sepellita, dove vissuto haveva doppo la morte di Carlo suo marito, et il sepolcro si conserva dentro, in una parte della vecchia chiesa, dove è la seguente inscrittione, sotto della sua statua:

Hic requiescit sanctæ memoriæ Ex[230]celentissima Domina, Domina Maria, Dei Gratia Hierusalem, Siciliæ, Ungharieq; Regina, magnifici Principis, quondam Stephani Dei Gratia Regis Ungh. filia; ac relicta claræ memoriæ Inclyti Principis domini Caroli Secundi, & mater serenissimi Principis, & Domini Roberti; eadem Gratia Dei, dictorum Regnorum Hierusalem, Siciliæ Regum illustrium: quæ obiit anno Domini m.ccc.xxiii. indict.vi die xxv mensis Martii: cujus anima requiescat in pace amen.

E le signore monache penzano e disegnano di trasferirlo nella nuova chiesa.

Vi erano anco, nella chiesa vecchia, con questo uniti altri sepolcri di nobili napoletani, quali hoggi si son dispersi. Circa l’anno poi 1620 questa chiesa nova fu principiata col modello e disegno di Giovanni Guarini, fratello laico de’ padri teatini, che fu allievo del padre Grimaldi; terminata, si vede abbellita da bellissimi stucchi posti in [231] oro e da diverse dipinture. La cupola e gl’angoli son opera d’Agostino Beltrano nostro napoletano. La volta maggiore sta dipinta da Domenico de Benedictis regnicolo. Le dipinture del coretto sopra la porta son opera di Luca Giordano. Il coro grande è stato egregiamente dipinto da Francesco Solimena, similmente nostro napoletano, giovane che dà speranza di dover fare maraviglie nella dipintura, non havendo fin hora che anni ventisei. La tavola che si vede nell’altar maggiore è opera di Filippo Criscolo, che fu discepolo del nostro Andrea di Salerno. Dalla parte del Evangelio vi è una tela nella quale sta espressa la Vergine Concetta, opera di Carlo Mellin lorenese, e similmente è dell’istess’autore la tela nella quale sta espresso il misterio dell’Annunciata che si conserva nella sacristia. Nella stanza del communicatorio, poi, vi è una quantità di bellissimi qua[232]dri piccioli, che per non allungarci si tralascia di notarli. Vi sono in questa chiesa molte belle et insigni reliquie, e particolarmente una gran parte della testa di san Bartolomeo apostolo, il braccio di sant’Andrea similmente apostolo et altre. Questa chiesa è di bisogno osservarla in tempo di feste sollenni, per vedere ricchezze e pulizie senza pari, così negl’argenti come anco negli apparati quali si conservano dentro del monasterio.

Al lato di detta chiesa, nel principio del vicolo detto di sopra vi si vede una cappella, hoggi estaurita, nominata Santa Maria a Cellaro, ma questo nome vien corrotto dal volgo, dovendosi dire Santa Maria Ancillarum, essendo che in questo luogo si racchiusero le serve della regina Maria quando la detta regina si ritirò nel monasterio già detto; e queste riconoscevano in ogn’anno, nella prima domenica di maggio, l’arcivescovo con un gran ramo di [233] quercia adornato di cirege, ciammelle, cotornici et altri fiori. E questa ricognitione si continuò dagli estauritarii fino al tempo del cardinal arcivescovo Innico Caracciolo, il quale trasmutò la detta ricognitione in un cereo di più libre.

Passando avanti s’arriva al quadrivio dove vedesi la Cappella di San Nicolò, fondata nell’anno 1281 in tempo di Carlo Primo da un chierico per la divotione ch’aveva al glorioso vescovo di Mira: e questo chiamavasi Errido Barat, come si legge dall’antica inscrittione su la porta. Et in questo quadrivio termina la Regione di Capuana, e principia quella del seggio di Montagna. Il vicolo che va alla Piazza Arcivescovale anticamente chiamavasi Gurgise, hora del Piscopio e dell’Arcivescato: qual vicolo in molti istromenti antichi vedesi anco compreso nella Regione Capuana. Quello che va [234] sopra fra il monasterio di Donna Regina e quello di San Gioseffo delle Ruffe, fu anticamente detto Bulgaro, poi si disse di Pozzo Bianco, perché qui, fino a’ nostri tempi, vi era una bocca publica di pozzo, ornato di marmi che gli dava nome di Bianco. E qui dice il nostro curioso cronista Giovanni Villani che Virgilio Marone, per impedire l’entrata alle sanguisughe nei nostri formali o aquedotti, v’haveva fatto, sotto certe costellationi, scolpire alcuni di questi insetti nel marmo; et infatti veramente ve ne stavano da quattro o cinque scolpiti, ma il tutto si de’ stimare novelletta da semplici. Per tornare a noi, hora questo vicolo chiamasi di San Gioseffo delle Ruffe perché in esso vedesi il monasterio fondato da donna Ippolita e donna Caterina Ruffo, e da donna Caterina Tomacella. Queste dame, belle quanto ricche, havendo per loro padre spirituale uno della congregatione [235] dell’Oratorio, si risolsero di lasciare il mondo e di menare una vita ritirata e claustrale, che però si comprarono, presso del Seggio Capuano, il palagio che fu della famiglia Arcella, già spenta nel detto seggio, et erettovi una picciola chiesa dedicata al glorioso San Gioseffo et accomodata l’habitatione ad uso di monasterio, nell’anno 1604 con altre compagne a’ 7 di marzo vi si racchiusero, menandovi una vita esemplare. Ottennero poi dal sommo pontefice di poter fondare una clausura, e questo con molto travaglio e fatiche. In questo luogo vi era una chiesa et antico monasterio intitolato Santa Maria degl’Angeli, quale per essere ridotto a pochissime monache fu dismesso, collocando le monache che vi erano in altri monasterii et il luogo fu conceduto al Capitolo di Napoli. Dal Capitolo fu venduto alle dette signore per undecimila e duecento scudi. Fu presto rifatto et acco[236]modato di tutto punto. A’ due di settembre dell’anno 1611 con licenza del cardinale Ottavio Acquaviva, all’hora arcivescovo, passarono dal primo monasterio in questo, mutando il titolo della chiesa di Santa Maria degl’Angioli, in questo di San Gioseffo, vivendo strettissimamente sotto la regola di sant’Agostino. La chiesa poi essendo angustissima, risolverono di farne una nuova e col disegno e modello di Dionisio Lazari nostro eruditissimo architetto la principiarono, e nell’anno 1682, essendone stata la maggior parte perfettionata come si vede, fu principiato ad officiarvi. Vedesi nobilmente abbellita, e di marmi egregiamente lavorati e di dipinture. L’altare maggiore nei marmi fu egli fatto col disegno et assistenza del detto Dionisio Lazari; il quadro che in esso si vede stimasi opera del Pomarangi. Il cappellone dalla parte dell’Evangelio, il disegno fu fatto da Giovan [237] Domenico Vinaccia e fu posto in opera da Pietro e Bartolomeo Ghetti, fratelli; il quadro che in esso si vede è opera di Luca Giordano. Dalla parte dell’Epistola è disegno et inventione d’Arcangelo Cogliolmelli, e così de’ scalini che sono la maggior parte di matre perle commesse con altre pietre pretiose, adornate di rame dorato; il quadro che in esso si vede, dove sta espresso la Vergine con San Filippo Neri, è opera d’Andrea Malinconico. Le figure che stanno al Crocifisso, sono state fatte da Gioseppe Marullo, e l’altro quadro dell’altra cappella è dell’istesso Malinconico. La porta di questa chiesa ha da venire con una bella piazza avanti nella strada maestra, appunto come quella di Donna Regina. Questa chiesa poi ha belli argenti e nobilissimi apparati e particolarmente di paliotti bordati, in modo che per lo rilievo appariscono anzi fatti con lo scalpello, che con l’ago. [238] Ma si torni al nostro camino: tirando sù, dirimpetto al pozzo già detto, vi era un antico seggio detto di Capo di Piazza, o di Somma Piazza, et alcune volte si trova chiamato degli Rocchi, famiglia hoggi spenta nel seggio di Montagna.

A destra vedesi un vicolo nel quale s’entra per un sopportico, né più spunta a dritto perché incorporato si vede nel monasterio di San Gioseffo. Questo nei tempi andati chiamavasi Vico Friggido e poi si disse delle Voltarelle, per diverse stradarelle che nei lati di detto vico si vedevano. Più sù si veggono due vicoli. Quello che va giù nella chiesa de’ padri dell’Oratorio chiamavasi Cafasino da una famiglia nobile che in esso habitava: hoggi chiamasi il Vico della Stufa per una stufa che da gran tempo vi sta. Quello che va sù dicesi de’ Ferrari, per una famiglia di questo nome che v’habitava, nobile di Montagna ma [239] al presente già estinta. Nel principio di questo vicolo, dove appunto è la cappella di San Pietro della communità de’ fabricatori, tagliamonti e pepernieri, vi era il seggio de’ Ferrari e da questa famiglia fu eretta la detta chiesa, quale, per l’estintione di detta casa, ricadde alla menza arcivescovale e dal cardinale arcivescovo Ottavio Acquaviva fu conceduta alla detta communità.

Trovasi poi l’ampio Palazzo de’ signori Principi d’Avellino et al presente, havendo questi in burgensatico l’officio di gran cancelliere, in questa casa sono graduati et insigniti della laurea dottorale i studiosi nelle facoltà legali, nella filosofia e theologia; e benché quest’ultimi sian promossi al dottorato dall’istesso gran cancelliero, con tutto ciò l’esame e la promotione sollenne si suol fare dai colleggianti in qualche chiesa.

Nella piazza che avanti di det[240]ta casa si vede, stava l’antichissimo monasterio di monache dette di San Potito, monistero che fu edificato dal nostro santo vescovo Severo; ma perché stavano anguste né si potevan dilatare, mutarono luogo come si dirà a suo tempo, havendo venduto il vecchio monasterio al Principe d’Avellino, il quale lo fece diroccare e formarne la presente piazza. Dall’altro lato di questa vedesi un vico, anticamente detto de’ Verticelli, poscia di Squarciafico, al presente del Gigante, per una statua di gigante che vi stava dentro d’un palazzo. Dentro di questo vicolo si fecero vedere la prima volta i padri della Compagnia di Giesù in Napoli, e la loro chiesa fu la cappelletta di Sant’Anna che in detto vico si vede, e l’habitatione nel palazzo a detta cappelletta attaccato. Nel capo di questo vico, dalla parte però di Somma Piazza, vi era l’antico seggio detto de’ Saliti, [241] e proprio dove è la casa de’ Lottieri. Prendeva il nome da una famiglia nobile che presso v’habitava, hoggi spenta nel seggio di Montagna. L’estaurita di questa piazza era una cappella detta San Francesco de’ Saliti, che stava nella strada maestra sotto la casa de’ già detti Lottieri, hoggi profanata.

Il vico che va sù per dove ci potremo incaminare, anticamente veniva detto Marmorata, hoggi dicesi il Vicolo del Collegio d’Avellino. Tirandosi sopra vedesi la chiesa parocchiale, collegiata dedicata a San Giovanni Aposotolo, detto “a Porta” perché vicino ne stava alla porta antica di San Gennaro. La fondatione di questa chiesa non si trova con chiarezza; vogliono alcuni che fusse stata fondata dall’antichissima famiglia Carmignana, per l’estaurita di detta famiglia o del seggio de’ Carmignani che in detta chiesa collocato ne stava. Questa chiesa nell’anno 1682 rui[242]nò, ma presto fu a spese del cardinale Innico Caracciolo da’ fondamenti riedificata nella forma che si vede; quale essendo andato col suo capitolo a benedirla, con la solita sua pietà et amore donò all’istesso capitolo tutte le cappelle, con facoltà di poterle concedere et il prezzo impiegarlo alla rifettione di Santa Restituta. Il disegno di questo tempietto è di Matteo Stendardo. Il quadro che sta nell’altare maggiore, dove sta espresso San Giovanni evangelista, è opera di Francesco Solimena; il ritratto del signor Cardinale che in esso si vede è somigliantissimo all’originale.

Presso di questa chiesa vi era l’antico seggio detto della Porta di San Gennaro, perché vicino a detta porta ne stava. Ma infatti era il suo nome de’ Carmignani, nobili che godono nella piazza di Montagna, e stava questo attaccato ad un’antichissima casa di detta fami[243]glia presso i parlatorii di Santa Maria del Giesù. Il luogo dove la detta chiesa di San Giovanni ne sta, veniva anticamente detto Casurio, e poco lungi vi stava un altro antico seggio, detto di Calandi, che prendeva il nome da detta famiglia, già spenta nel seggio di Montagna, e se ne veggono le vestigia nelle case che furono degli Palomba. I vicoli che si ritrovano dirimpetto a detta chiesa, che tirano per dietro il monasterio di Santa Patritia e calano per lo vicolo hoggi detto dello Limoncello, anticamente si chiamava de’ Giudei, perché vi habitavano giudei, e si disse ancora Spogliamorti come fin’hora, cioè spolia mortuorum perché qui, dall’istessi giudei, si vendevano le spoglie di coloro che morivano negli ospedali; dietro della chiesa di Santa Patritia vi era il seggio antico detto de’ Cannuti, famiglia nobile estinta nel seggio di Montagna.

Dalla parocchiale già detta, ti[244]rando sù a man sinistra vedesi un vicolo che tira verso lo Ospedale dell’Incurabili per la strettola, e vi si vede il monasterio di monache franciscane sotto il titolo di Santa Maria della Consolatione, e fu egli fondato circa gl’anni del Signore 1524.

A destra vedesi la chiesa e monasterio di monache di Santa Maria del Giesù. Questo luogo fu egli fondato nell’anno 1527 da Lucretia Capece e da Antonia Monforte, nobili napolitane che con altre monache uscirono dal monasterio di San Girolamo del terz’ordine di san Francesco, perché desideravano di vivere nella strettezza della regola di santa Chiara. E questo motivo lo riceverono dal vedere afflitta la città dalla peste che durò dall’anno 1525 fino all’anno 1528 e la spesa nella fabrica fu fatta dalla famiglia Mont’Alta, come si può leggere dall’inscrittione che sta nella facciata della chiesa medesima. La chiesa hoggi vedesi nobilmente [245] modernata con capricciosi disegni così nelle cappelle come nell’altar maggiore, con istucchi tutti posti in oro. La tavola dell’altare maggiore è opera del Turco nostro napoletano, che fiorì in quei tempi che principiava a perfettionarsi la dipintura. La tavola che sta su l’architrave, nella quale sta espresso il Bambino Giesù, è opera di Luca Giordano come anco altri quadri che stan per le cappelle. La chiesa fu ridotta in questa forma et abbellita da Arcangelo Cogliolmelli.

Avanti di questa chiesa stava l’antica porta detta di San Gennaro, poi fu passata nel luogo dove si vede nell’edificatione della nuova muraglia in tempo di don Pietro di Toledo, regnando come re di Napoli il gran imperador Carlo V. A man dritta poi vedesi una salita di mattoni che va su la muraglia et al principio di questa salita vedesi una polita chiesetta della comunità de’ cocchieri dedicata a [246] San Francesco. Arrivati nel piano, a man sinistra vedesi una cappella dedicata a Santa Maria succurre Miseris. In questa vi sta una compagnia, detta de’ Bianchi per l’habito che vestono, e vien formata tutta di sacerdoti dei più esemplari e conspicui della nostra città, per lettere, per nascita e per dignità, essendovi aggregati molti prelati, cardinali et altri, tra de’ quali furono i due sommi pontefici Paolo IV e Clemente X. Hanno per instituto questi honoratissimi preti di confortare a ben morire tutti quei miseri che per delitti capitali son condennati a morte, e li menano processionalmente al patibolo. Morti che sono, nel giorno seguente – se altro del cadavero non dispone la giustitia – sono con ogni carità da detti padri sepelliti. Essendo povero il morto, lasciando figliuole donzelle, overo mogli e sorelle, sono dalla compagnia maritate con dote di [247] cinquanta scudi per ciascheduna. Impiegano gran quantità di danaro in liberare i poveri carcerati per debiti, come anche per gl’infermi in dette carceri et altre opere pie. Infine la caritativa esemplarità di questi ottimi padri, che chiamar si ponno “angeli in terra”, non è da potersi esprimere. Questa compagnia fu nell’anno 1430 fondata dal beato Giacomo della Marca, frate dell’osservante famiglia di san Francesco, nel convento della Santissima Trinità, presso quello della Croce di Palazzo, e del detto beato anco se ne conserva la veste bianca che portava in simile esercitio. Nell’anno poi 1443, per le guerre che travagliavano non solo il Regno ma la città, s’estinse. Nell’anno 1519 Giovan Pietro Carrafa, all’hora protonotario apostolico e per ultimo sommo pontefice nominato Paolo Quarto, parlando col padre don Calisto Piacentino, canonico regolare lateranense, [248] disse che sarebbe stato bene rimettere in piedi un’opera così necessaria nelle città grandi, acciocché i miserabili condannati havessero da persone esperte sicuri gli ajuti e sempre pronti per l’anime loro. Al padre piacque la cosa, la conferì con alcuni napoletani di vita spirituale, fu approvata e doppo pochi giorni si ricominciò l’opera nel monasterio di San Pietro ad Ara; in brieve vi s’ascrissero molti e s’ordinò la compagnia sotto certe regole, indi si trasferì nel luogo predetto. Si formava però da pochi sacerdoti e da molti mercadanti et altra gente popolare; in progresso di tempo, essendovi stati ammessi alcuni nobili, in brieve si vidde piena tutta de primi signori e titolati della città, in modo che se qualche prelato o altro degno sacerdote faceva istanza d’esservi ascritto, con difficoltà grande veniva ricevuto. Si ridusse che nell’anno 1579 don Giovanni Zunica, prin[249]cipe di Pietrapersia, viceré di Napoli fu ammesso. Essendo poi stato raguagliato il monarca Filippo Secondo che questa numerosa unità de’ principali nobili della città e Regno, et in luogo così secreto, havrebbe potuto un giorno riuscir dannosa al servitio della corona, ordinò a don Pietro Girone, duca d’Ossuni, viceré, che dovesse a fatto prohibire così fatta unità di nobili. E così a’ 3 d’aprile dell’anno 1585 mentre che tutti i fratelli stavano congregati dal signor regente salernitano, fu loro fatto ordine che, sotto pena di ribellione, laico alcuno in detto luogo si congregasse. Fu bene obbedito l’ordine e la congregatione restò sotto la protettione e governo di quei sacerdoti che vi si trovarono ascritti, quali havendone aggregati altri si è mantenuta e si mantiene con isplendore grande, essendo stati fra d’essi san Gaetano Tiene et il venerabile Giovanni Marino[250]nio de’ chierici regolari et altri conspicui nella bontà di vita.

La porta maggiore della cappella non s’apre al publico se non due volte l’anno che sono nella Resurettione del Signore e nel giorno dell’Assunta. E certo che veder non si può cappella né più bella né più bene adornata. Nell’altare v’è la devotissima statua della Beata Vergine, fatta da Giovanni di Nola.

Presso di questa vedesi la porta del cortile del nostro famoso Ospedale degl’Incurabili, detto dalla parte di Sant’Anello. È luogo questo degno veramente d’essere osservato per meditarvi l’opere di Dio e la gran pietà de’ napoletani, nella magnificenza dell’edificio e nel mantenimento di tanti poveri. Conosce la sua fondatione da una donna, per verificarsi che molte volte il Signore eligge i più fiacchi a far cose grandi. Francesca Maria Longa, moglie [251] di Giovanni Longo, regio consigliero e poi regente di cancellaria, nell’anno 1519 fu ella soprapresa da una fiera infermità che torpandoli le mani et i piedi la rendeva inhabile al moto; disperando ogn’ajuto dagl’humani remedii ricorse agli divini, entrandoli nel cuore che per intercessione solo della Vergine ella poteva ricevere la gratia della salute dall’onnipotenza divina: però si risolse di volere andare a supplicarla nella sua propria e santa Casa di Loreto. Pertanto si fe’ portare in lettica in quel miracoloso santuario. Giuntavi nel giorno della Pentecoste, con una viva speranza della salute, si fe’ introdurre in quell’officina de’ miracoli, in quella Santa Casa dove principiò il miracolo de’ miracoli; ma havendo pregato prima un nobile suo genero che l’accompagnava che havesse detto al suo sacerdote che celebrasse la messa nella quale si legge quell’Evangelio di [252] Christo signor nostro che sanò il paralitico, il gentil’huomo rispose che nella sollennità di quel giorno, non si poteva leggere quell’Evangelio, assignato nel venerdì doppo la Pentecoste. Si quietò Francesca, ma entrata nella cappella, come si disse, trovò un sacerdote che principiava la messa, et era appunto quella che desiderava; onde piena d’una fiducia consolata della sua salute nell’udire quelle parole “paralitico, tibi dico, surge” si sentì di fatto sciogliere le membra e s’alzò libera. Si prostrò in rendimento di gratie avanti l’imagine della Vergine, e fe’ voto di servire gl’infermi in tutto il tempo che l’avanzava di vita. Stupito ogn’uno all’evidenza di così gran miracolo, rendeva gratie alla Madre delle Misericordie, e tanto più vedendo Francesca tornarsene in casa a piedi. Fu cercato da per tutto il sacerdote che celebrato haveva, ma non fu possibile haverne novella. Un di[253]votissimo sacerdote che serviva quella Santa Casa ricorse all’orationi e nell’orationi li fu rivelato essere stato il principe degli apostoli san Pietro, comandando ch’avertisse la donna ad adempire il voto già fatto. Francesca, avanti l’imagine della Vergine, sollennemente lo ratificò. Tornata in Napoli con meraviglia d’ogn’uno sana e vigorosa, si diede con una carità da serafina a servire gl’infermi nell’Ospedale di San Nicolò della Carità, presso del molo. Vi continuò il servitio per un anno, ma conoscendolo la fervorosa serva di Dio campo troppo angusto alla grandezza del suo fervore, deliberò di fondare a proprie spese una casa più ampia, et in luogo più ameno; che però, col parere dei primi medici della città non trovando aria più salutevole e confacente di questa detta di Sant’Anello, qui vi comprò alcune case e nell’anno 1521 con breve del sommo pontefice [254] Leone Decimo, diede principio alla nuova fabrica, et in brieve ne ridusse una parte habitabile. Havendo di già speso Francesca tutto il suo havere, per non far restare l’opera imperfetta, confidata nella divina provvidenza, principiò a chiedere elemosine a quei caritativi che venivano a visitare gl’infermi. Un giorno vi capitò un gentil’huomo per nome Lorenzo Battaglini bergamasco; Francesca li chiese qualche elemosina per la fabrica di quella santa casa. Il divoto Lorenzo, chiesto da scrivere, li fece una polisa bancaria di dieci mila scudi e gliela diede. Francesca credendosi burlata, stiede in punto per lacerarla; un familiare di Lorenzo che se n’avidde, l’impedì dicendo: “Signora, mandate hora nel Banco che havrete il denajo”. E così appunto fu, onde ricevuto quest’impensato soccorso, rese gratie infinite alla divina pietà che non manca mai d’ajuto a’ suoi poverelli. Si diede a [255] perfettionare l’opera, et havendovi instituito un modo di governo di laici, ella essendo di già vecchia, si ritirò nel monasterio delle Cappuccinelle, da lei medesima fondato, et ivi santamente morì, come nella seguente giornata si dirà.

I napoletani poi inclinatissimi all’opere di pietà, coll’esempio di Francesca Maria, concorsero a gara all’aiuto e mantenimento del luogo e, con molte ampie heredità lasciateli, in brieve si vidde non solo perfettionato et ampliato anche nella chiesa, ma arricchito in modo che non ha in che cedere a qualsisia ospedale dell’Europa. L’opere di questa santa casa sono queste: ricevono tutti gl’infermi incurabili, così huomini come donne (le quali hanno ospedale a parte); mantengono tutti i matti della città, vestendoli di panno bianco; ricevono e governano tutti i ragazzi tignosi, et in tempo di necessità ricevono ancora i febricitanti. Né so[256]lo questo, ma tengono un luogo per curare le piaghe dell’anime che vengono fatte dal peccato, che però, attaccato all’ospedale, vi è un ampio monasterio per quelle donne che lasciar vogliono le laidezze del mondo, e vivono sotto la regola di san Francesco. Sotto di questo vi è un altro monasterio, per quelle che entrate nel primo vogliono poscia vivere con più strettezza di regole, e da riformate. Le monache del primo hanno cura di governare le donne inferme e le donne matte, potendo dal di loro monasterio passare nell’ospedale nel quale non vi ponno entrare se non i medici, barbieri e sacerdoti che vi son di bisogno, e le dame delle più principali della nostra città che in alcuni giorni della settimana vi si portano con indicibile carità a servire quelle miserabili, nettando loro con le proprie mani il capo, facendoli i letti e somministrando loro il cibo, come anco si [257] vede l’ospedale degl’huomini, con pietà christiana in ogni giorno fraquentare da congregationi di mercadanti, di gentil’huomini e di cavalieri, servendo quei poveri infermi, somministrando loro a proprie spese pulitissimi e commodi pranzi. E veramente questa grand’opera pia è degna per l’esemplarità et edificatione d’essere da’ signori forestieri osservata. Mantiene questa santa casa un altro spedale nella Torre del Greco, per li poveri ettici, essendo quest’aria esperimentata per ottimo rimedio a simili malori. Un altro spedale apre a Pozzuoli, quando si danno i remedii de’ bagni.

Vedesi in questa santa casa formata un’ampia e commoda chiesa, servita da venti preti e dodeci chierici, agli quali, oltre del solito salario, loro si dà stanza, pane, vino e carne et il companatico nelle giornate di magro; e questi soggiacciono al di loro superiore [258] che detto viene correttore, il quale anco presiede nelle cose spirituali agli già detti monasterii. In detta chiesa vi sono le seguenti reliquie: il braccio di san Mauro abbate, il braccio di sant’Agata vergine e martire, la testa di santa Dorodea, similmente vergine e martire. Su la porta dalla parte di dentro di detta chiesa, vi era una bellissima tavola nella quale stava espressa la Trasformatione del Signore nel Monte Tabor che fu dipinta da Giovan Francesco Fattore carissimo discepolo e allievo di Raffael d’Urbino, dal quale fu insieme con Giulio Romano lasciato herede; ma hora non vi è più, essendo che da’ signori governatori del luogo fu donata ad un viceré. Vi si vedono molti sepolcri e fra questi quelli d’Andrea di Capua e di Maria Aierba d’Aragona, le statue degli quali et i mezzi rilievi sono opera di Giovanni di Nola. Nel cortile poi vi si vede una fa[259]mosa farmacopea, macello, forno, cantina et ogn’altra officina necessaria al mantenimento di detto spedale.

Usciti da questa santa casa, dalla parte delle mura vedesi una bellissima piazza, detta di Sant’Anello, che serve di delitia nell’estate a’ napoletani, sul tardi del giorno, poiché oltre dell’aure fresche che in esso si godono, le nostre amene colline, i giardini, e l’habitationi de’ borghi di Santa Maria della Stella e della Montagnola, formano alla vista un teatro molto dilettoso, e nella sera in questo luogo vi si vedono adunanze d’huomini eruditi e letterati.

A sinistra di questa piazza se ne vede un’altra avanti il monasterio e chiesa di Santa Maria delle Gratie, et in questo luogo devesi dar notitia della più bella antichità ch’habbia havuta la nostra città: et è che qui stava eretto il tempio, et in esso il sepolcro, della nostra Partenope. [260] Non vi è dubbio che tutti i scrittori così antichi come moderni che han trattato della nostra città convengono che a Partenope fusse stato eretto il sepolcro nel più luogo elevato della nostra Napoli, et essendo così non poteva essere se non questo, che chiamasi la Regione della Montagna. Il nostro accuratissimo Fabio Giordano v’aggiunge che ne’ suoi tempi se ne trovarono alcune vestigia, poco distanti dalla chiesa di San Gaudioso e, per convalidare che fussero del sepolcro o tempio di Partenope, porta un antico uso della nostra antica chiesa et era che, tornando dalla statione di San Gennaro fuori delle mura processionalmente il vescovo, il diacono accendeva un lume, et ad alta voce diceva: “Lumen Christi”, lo che replicato veniva allo stesso tuono, e questo si faceva per dirla con parole dell’autore, “ad Sancti Gaudiosi Oratorium, contra Partenopes Sepulcrum”; et io vi aggiun[261]go che, in un de’ libri lasciati per memoria dall’eruditissimo Giovan Battista della Porta al già fu Salvatore Celano, suo grand’amico e mio amatissimo padre, vi si trovò notato di mano dell’istesso Giovan Battista, che essendosi cavato per far le fondamenta del belvedere grande del monasterio di San Gaudioso, da questa parte di Sant’Anello vi si trovarono, quindeci palmi sotto, bellissime vestigia dell’antico tempio et in queste molti capitelli e colonne scandellate di bianco marmo, de’ quali parte n’hebbero le monache che se ne servirono per altri loro affari; et un pezzo di dette colonne fu posto nell’angolo di detto belvedere, come al presente appare, ed un’altra a’ padri di Sant’Anello. Et essendosi cavato quasi fin avanti la chiesa, vi si ritrovò un’urna ben massiccia di marmo africano sostenuta da certe colonnette. Havendo io fatta diligenza per vedere se fusse stata [262] in piedi, ho trovato che da poco curiosi dell’antico sia stata guasta, né se ne vede altro che due angoli che credo siano della facciata, che stanno posti uno da una parte e l’altro dall’altra delle due scalette che stanno a’ lati della porteria del monasterio, cioè in quella che conduce alla porta picciola della chiesa, e l’altra ad alcune camere locande del detto monasterio. Una delle colonnette già dette fu situata nell’angolo della chiesa, presso la prima scaletta, quando fu rifatta.

A sinistra poi di questa piazza vedesi la chiesa e convento di Santa Maria delle Gratie. Era questa una picciola cappella fondata dalla famiglia de’ Grassi, nobile estinta nel seggio della Montagna. Questa cappelletta fu poscia ampliata dalla pietà de’ napoletani, per le gratie che di continuo riceveano dal Signore per mezzo della Santissima Vergine che dipinta vi sta[263]va. Nell’anno 1500, perché fusse più esattamente servita, fu conceduta a fra Girolamo da Brindisi della congregatione di San Girolamo, il quale, havendo edificato con le limosine de’ nostri concittadini un commodo convento, fe’ venire i padri del suo ordine da Lombardia ad habitarlo; ampliò poscia la chiesa nella forma con la quale hoggi si vede. Questo frate fu per diecinove anni priore e moderatore, come si può leggere dall’inscrittione della sua sepultura, che sta avanti del’altar maggiore. Vivono questi frati sotto la regola di sant’Agostino, e principiarono nel pontificato del santissimo Pio Quinto a fare i tre voti sollenni, perché prima vivevano liberi da detti voti.

Nella chiesa predetta si ponno osservare le seguenti curiosità. La tribuna era ella dipinta la maggior parte da Andrea di Salerno, hora sta dipinta dal pennello del cavaliero Giovan Battista Benasca, e [264] ne sono state tolte molte figure che stavano di sotto di detto Andrea e di Polidoro da Caravaggio. Vi è il sepolcro di Fabritio Brancaccio, la cassa del quale mantenuta ne viene da due figure, e questo fu opera d’Anibale Caccavello e di Giovan di Nola; hoggi vedesi trasportato da una parte e l’altra de’ lati della porta maggiore. L’altare sta rinovato alla moderna di marmi mischi elegantemente commessi. Usciti dal coro dalla parte dell’Evangelio vi si trova una bellissima Cappella della famiglia Poderica, nella quale si può osservare una tavola di marmo, nella quale, a bassorilievo, vedesi espressa la Conversione dell’apostolo Paolo, con cavalli e figure di molta bellezza, spirito e disegno, opera di Domenico d’Auria, illustre scultore napoletano. Nel muro della croce presso la sacristia e proprio nella Cappella [265] de’ Gualdieri, si vede una statua tonda della Regina de’ cieli col suo Bambino in braccio, con alcune anime del Purgatorio di sotto, degna d’osservatione; et è opera di Giovanni Merliano, detto di Nola. Appresso poi, nell’istessa croce e proprio nella Cappella della famiglia de’ Lauri, vedesi una tavola espressovi dentro l’apostolo Sant’Andrea con un’altra figura, opera d’Andrea di Salerno. Appresso nell’antica Cappella della famiglia Senescalla, hoggi della casa Migliore, si vede una tavola di marmo et in essa scolpito a bassorilievo San Tomaso, l’apostolo che palpa la piaga del costato del Redentore in mezzo degl’altri apostoli, opera degnissima di Girolamo Santacroce. Tra le due colonne della nave maggiore sta situata una testa di marmo del Redentore, molto divota e miracolosa che fu trovata illesa tra gl’incendii del Vesuvio. [266] Segue appresso la cappella dell’antica famiglia Altomare, dove si leggono molti epitaffi; in questa vi è una tavola dove espresso si vede il misterio dell’Annunciatione della Vergine, opera delle belle di Giovan Bernardo Lama. Nell’ultima cappella, della famiglia Giustiniana, si vede maravigliosamente scolpito in una tavola di marmo il Redentore morto, pianto dalla Madre, da San Giovanni e dalla Maddalena, con altre figure, opera di Giovanni di Nola che la fece a gara del Santacroce.

Dall’altra parte dell’Epistola, nella prima cappella presso il maggiore altare, si conserva una reliquia del santo anacoreta Onofrio. Nelle cappelle appresso vi si vedono molte tavole dipinte da’ nostri napoletani, come dal Criscolo et altri, et il Sant’Antonio da Padua è d’Andrea di Salerno. Nella nave poi, dall’istessa parte [267] dell’Epistola, nella Cappella della famiglia Sarriana vi è la divotissima imagine della Vergine, et è quella che ne stava nella picciola chiesa che fu agli frati conceduta, e per le gratie che per mezzo di questa si ricevono dal Signore è molto frequentata. Appresso v’era una delle belle opere d’Andrea di Salerno, nelle quale espressa si vedea la Vergine col suo Figliuolo in braccio, ma adesso non si sa cosa ne sia fatta, ed in suo luogo vi si vede una tela dipinta dal nostro Andrea Vaccari. Nell’ultima cappella vi è una tavola nella quale vedesi espressa la Vergine santissima col suo Figliuolo, e da una parte Sant’Andrea Apostolo, dall’altra San Giovanni Battista, opera di Giovan Filippo Criscolo, tavola che dagl’intendenti fu stimata molto bella: hoggi dall’acqua calata dalle finestre della cappella sta quasi tutta consumata. Nella cappella che sta presso la [268] porta vi è una tavola nella quale sta espresso il Battesimo di Giesù Christo col Battista, con un paese molto ben fatto, opera di Cesare Turco. Hora sta trasportata su la porta. La suffitta della croce ultimamente è stata rifatta perché minacciava ruina, e vi è stato collocato un bel quadro del pennello del cavalier Benasca. In questa chiesa si ponno osservare molte antiche sepolture. Veduta la chiesa si può passare a vedere il chiostro et il convento forse de’ più belli che detti padri s’habbiano e per la grandezza e per la commodità. Nell’uscire dalla porta del chiostro si vede un’ampia cappella della communità de’ sartori e tirando avanti per l’istessa strada, si può andare a vedere l’antichissima basilica di Sant’Anello, la di cui porta sta dirimpetto al vicolo anticamente detto del Settimo Cielo, per quel ch’appresso si dirà.

Questa chiesa era per prima una [269] picciolissima cappella, dove dipinta ne stava nel muro l’imagine della gloriosa Vergine col suo Figliuolo in seno. In questa cappella spesso si portava a fare oratione Giovanna, che fu poi madre di sant’Anello. Questa, essendo sterile, per intercessione della Madre di Dio ottenne un figliuolo che fu Anello, onde per gratitudine della riceuta gratia, con Federico suo marito (che come per antica traditione s’have fu della famiglia Poderica o come altri vogliono della casa Marogana) fabricarono all’istessa Vergine una chiesa più ampia, intitolandola Santa Maria Intercede, per haver loro da Dio interceduta la prole. In questa chiesa si ritirò Anello fin da’ suoi primi anni, a vivere una vita santa e solitaria; indi vi fabricò vicino un ospedale per i poveri infermi et una spelonchetta dove viveva et orava e dove nell’anno 599 santamente morì. E volendo i suoi discepoli e cle[270]ro farli l’esequie, per lo concorso del popolo fu di bisogno per nove giorni lasciarlo insepolto, nel fine de’ quali trovandosi non haver patito il cadavere corruttione alcuna, anzi dare un odore di Paradiso, Fortunato vescovo di Napoli volle andar di persona col clero a celebrarli i funerali; e mentre i santo vescovo faceva la fontione con altri quattro vescovi che vi stavano assistenti, furono veduti sopra la detta chiesa sette circoli a modo d’iridi, l’un sopra dell’altro, e nell’ultimo star l’Imperatrice de’ Cieli et appresso sant’Anello che teneva la mano distesa sopra la nostra città in segno di protettione. Finita la messa e sparita la visione, fu dato al santo cadavere sepoltura sotto dell’altar maggiore, et a detta chiesa fu tolto il titolo di Santa Maria Intercede e detta Santa Maria del Settimo Cielo, per li sette archi veduti come si disse; poi per le continue gratie che dal nostro santo [271] si sono ricevute, la chiesa da’ nostri napoletani è stata detta di Sant’Anello, come al presente.

Questa chiesa nell’anno 1517minacciava ruine, fu rifatta di nuovo da Giovanni Maria Poderico, arcivescovo di Taranto, trasferendo il corpo del santo sotto dell’altare maggiore che egli haveva fatto fare di nuovo di finissimi marmi, dall’eccellente scalpello del nostro Giovanni di Nola, dove si vede una bellissima tavola di marmo colla Vergine di mezzo rilievo circondata d’angeli e di sotto alcuni santi e l’arcivescovo che vi si vede inginocchiato è ritratto al naturale del detto Giovanni Maria Poderico. L’altro, che similmente sta inginocchiato con un puttino nelle fascie in mano, è il padre di sant’Anello. L’altre statue che vi stanno sono opera di esso Giovanni. Questa chiesa era canonica di preti secolari, capo de’ qual’era l’abbate. Questi per degni rispetti, havendo rassignata [272] l’abbadia in mano del pontefice Leone Decimo, fu da detto pontefice concessa in perpetuo agli canonici regolari di Sant’Agostino, detti della congregatione del Salvatore, riformati. In questa chiesa vi sono molte belle curiosità; e per prima dietro l’altare maggiore vedesi una nave che fa quasi una croce. Questa era la chiesa vecchia, la quale rimase in quella forma per riverenza della sacra imagine di Santa Maria Intercede che stava dipinta nel muro dalla parte della porta picciola, dove ancora s’osserva un arco, e perché stava oscura in quel luogo, i padri facendo con ogni diligenza segare il muro dove detta immagine dipinta ne stava e bene incassata trasportaronla dirimpetto, dove al presente si vede. Questa è quella miracolosa imagine che parlò più volte a Giovanna, madre di sant’Anello. Questa è quell’imagine che fu dall’istesso [273] santo, essendo bambino nella fascie, salutata con la salutatione angelica, et infine questa è quella sacra imagine, doppo quella di Santa Maria del Principio, sommamente da’ napoletani venerata. Et è veramente per altro capo degna d’essere osservata, essendo che sono mille e duecento anni dal tempo che parlò a Giovanna, e dovendosi supponere che fusse stata prima dipinta con meraviglia grande, per lo spatio di tanti secoli ha mantenuto il suo colorito. Presso del luogo dove ne stava prima detta cappella, vi si vede un picciolissimo oratorio, o per meglio dire grotticella, nella quale il glorioso sant’Anello se ne stava vivendo et orando et ivi terminò la sua vita, presso di quella santissima imagine, per intercessione della quale egli era stato dato alla luce vitale, come si può leggere dall’inscrittione che vi sta di sopra. Dalla parte destra di detto sa[274]cro oratorio, vi si vede una cappella di bianco marmo con una ben fatta e nobile statua che esprime Santa Dorotea, opera di Giovanni di Nola. Questa fu fatta dagli padri per gratitudine a Dorotea Malatesta, divotissima di sant’Anello, quale nell’anno 1534, essendo vicina a morte, inviò agli detti padri un baullo d’invogli di filato pieni tutti di monete d’oro, e però v’han posto il motto: memores beneficii. Dirimpetto a detta cappella vi è una statua di San Girolamo similmente di Giovanni di Nola, stimata dagl’intendenti la più bell’opera che s’habbia fatto. Dietro l’altar maggiore vi sono alcuni sepolcri de’ signori Poderici con le loro staute giacenti, opera similmente di esso Giovanni.

Nella prima cappella della nave di fuori della famiglia Lottieri, che sta dalla parte dell’Epistola, vedesi una tavola di marmo, nella quale sta espressa a mezzo rilievo, la [275] Vergine col suo putto in braccio, con molte anime del Purgatorio sotto, che dal giuditio de’ ben intesi nell’arte, viene stimata ammirabile. Questa fu opera del nostro Domenico d’Auria. Appresso poi nella Cappella della famiglia Monaci, hora abbellita e posta tutta in oro con ornamenti di vaghissimi marmi commessi, per legato fatto nell’ultimo suo testamento da Luigi Poderico, capitan generale, penultimo di questa gran famiglia, nel mese di novembre dell’anno 1685 estinta, vedesi la miracolosa imagine d’un Crocifisso di legname, scolpita in tempo che sant’Anello vivea, e veneratissima si è resa e si rende sempre, per un gran miracolo accaduto nell’anno 1300, regnando Carlo Secondo re di Napoli, e fu che un certo tal Tomaso huomo da bene e molto divoto che di continuo venerava questa sacra imagine, fu pregato un giorno da un suo compadre [276] che l’improntasse una certa somma di danaro; il buon Tomaso lo compiacque e li contò le monete richieste su l’altare del Crocifisso, et offerendoli il compadre cautela, Tomaso la ricusò, dicendo che non occorreva, mentre dati gliel’haveva avanti del Signore. Passato molto tempo Tomaso disse al compadre che si ricordasse della restitutione del danaro improntatoli; il compadre negò d’haverli ricevuti. Tomaso li disse: “andiamo dal Crocifisso avanti del quale io te l’improntai”; il compadre c’andò et appena giontivi dalla sacra imagine uscirono questa voci: “Rendi, rendi quel che devi”. Ma l’empio invece d’atterrirsi ad una tal monitione, prese adirato un mattone e lo scagliò colpendo la sacra imagine nel volto, in modo che s’allividì et insanguinò, come appunto fusse stata di carne humana, ma ben tosto ne rimase punito, perché restò col braccio attratto, ma pentito prorom[277]pendo in amare lagrime, chiedendo perdono delle sue colpe, assaggiò ancora quella Divina Misericordia che non sa mancare a’ veramente pentiti.

Passato il Crocifisso vi è un quadro nel quale vedesi espresso San Carlo Boromeo in atto d’orare, opera molto bella di Carlo Sellitto nostro napoletano. Nel lato di detta cappella dalla parte dell’Epistola, vi si vede una tavola che prima stava nel’altare dove sta espressa la Vergine col suo Figliuolo in gloria, e di sotto Santa Catarina martire, con Sant’Onofrio e San Girolamo ed un ritratto. Questo quadro sia mal ridotto come cosa vaga è degna d’esser veduta; egli è del pennello del nostro Piernigrone, come si può leggere dall’iscrittione che vi sta. Nella penultima cappella dalla parte dell’Evangelio vedesi una tavola nella quale sta espressa la Vergine col suo Figliuolo un braccio, [278] con San Paolo e San Giovanni Battista opera di Girolamo Cotignola, che fiorì nell’anno 1500. Lo sgabello di sotto nel quale sta espressa la Predicatione di San Paulo e San Giovanni, erano dello stesso ma sono stati tolti e lasciatevi le copie.

Si può vedere il chiostro per osservarvi la memoria del cavaliero Giovan Battista Marino, famoso poeta nostro napoletano. Questa col suo ritratto naturalissimo di bronzo li fu eretta dal marchese di Villa Giovan Battista Manso, suo grand’amico e gran fautore de’ letterati nella cappella che stava sotto del suo palazzo presso la chiesa de’ padri dell’Oratorio, qual palazzo essendo stato comprato dagli padri per quadrare la piazza della chiesa et essendo stata profanata la cappella, i governatori del monte detto de’ Mansi, perché da esso marchese fu fondato, some si dirà a suo tempo, in questo luogo collocarono la memoria già detta. [279] Usciti da questo luogo per la porta maggiore della chiesa a man destra, per il vicolo già detto che anticamente si chiamava del Settimo Cielo, vedesi un bellissimo monasterio dedicato al glorioso apostolo Sant’Andrea, e fu egli fondato da Laura, Giulia, Lucretia e Claudia Palascandole, sorelle e gentil donne della città di Vico. Queste con l’occasione d’havere don Mario e don Innocentio loro fratelli chierici regolari, frequentavano la chiesa di San Paolo, et havendo sortiti per loro padri spirituali il padre don Giovanni Marinone, il padre don Andrea Avellino, hora beato, et il padre don Giacomo Torno, religiosi d’approvata bontà, s’incaminarono per la vera via dello spirito, risolvendosi di vivere nella propria casa da vere claustrali; onde nell’anno 1579, a’ 29 di settembre, ferno in mano dell’arcivescovo Anibale di Capua la professione con i tre voti solenni, e nella propria casa [280] presso San Paolo (havendola prima ridotta in forma d’uno ben stretto et osservante monasterio) vi si racchiusero, et ivi santamente vissero, per lo spatio di diecinove anni, e con tanta osservanza che altro volto humano non vedevano se non quello del di loro padre spirituale e medico in tempo d’infermità. Questa vita che menavano invogliava molte nobili napoletani a seguitarla et abbracciarla, che però le serve di Dio, per assicurare la salute di quell’anime, desideravano di fondare una clausura formale. L’arcivescovo già detto, conoscendo giovevole il desiderio di quelle buone serve di Dio, abbracciò l’impresa, perché sortisse, che però consultato bene il negotio con li padri chierici regolari et anco col padre don Paolo Feneste abbate di San Severino (huomo che haveva uguale la dottrina alla bontà della vita) e formate le costitutioni sotto la regola di sant’Agostino, [281] s’ottenne dalla santa memoria di Gregorio Decimoterzo la conferma di dette costituzioni e la potestà di potere fondare un nuovo monastero di clausura. E perché il luogo dove habitavano era incapace, lo fondarono dove al presente si vede, con ispesa considerabile, essendo de’ più belli e de’ più grandi della nostra città; e vi furono trasferite, colle debite sollennità alli 7 di marzo del 1587, et in esso vi si rachiusero, com’al presente vi si chiudono, delle prime nobili napoletane. et è meravilgia che con quella esattezza e rigidezza di regola con la quale si principiò, si sia mantenuto e si mantenga fin’hora, in modo che chi v’entra per monacarsi può dire di veramente lasciare il mondo, perché non hanno crate, né anco nella chiesa, per dove si possono vedere huomini, e si può dire essere de’ più ricchi, de’ più esemplari e de’ più ben governati. La chiesa non è molto grande, ma [282] pulitissima e divota, disegno del padre Grimaldi, come anco è il monasterio. Sta dipinta a fresco per mano di Giovan Bernardino Siciliano. La tavola che sta dipinta nell’altare maggiore è opera del Criscolo. Bisogna questa chiesa vederla in tempo di feste solenni per vedere gl’ornamenti e gl’apparati che in uno istesso tempo mostrano ricchezza e divotione.

Calando poi per il vicolo si va alla porta che hoggi prende il nome dalla chiesa che gli sta vicina, di Santa Maria di Costantinopoli; questa porta prima stava presso del monasterio di Sant’Antonio, come nella seguente giornata si vedrà. Fu poscia da don Pietro di Toledo, nell’ultima ampliatione della città, qua trasportata, e prese il nome, come si disse, dalla vicina chiesa, quale hebbe questa fondatione. Nell’anno 1526 vi fu in Napoli una peste che durò fino all’anno 1528 colla morte di 60000 [283] persone, i cittadini de’ sette rioni che noi chiamamo ottine, piazze o quartieri, ricorrendo all’intercessione della Vergine, l’edificarono una picciola cappella e l’intitolarono Santa Maria di Costantinopoli, per havere la Vergine, per mezzo d’una sua imagine dipinta da san Luca, liberata quella città da un fierissimo incendio, della quale imagine in Napoli se ne vedeano le copie impresse nella carta; poscia per le molte calamità succedute nella città, la cappella restò in abbandono e ruinò. Stava questa cappella presso la chiesa che hoggi si vede, essendo in piedi la porta. Nell’anno 1575 la peste fieramente assalì quasi tutta l’Italia; la nostra città e Regno temeva per le proprie colpe l’istesso castigo, aspettando da hora in hora. Havendolo vicino una semplicissima vecchiarella che habitava presso delle mura, fece intendere a’ napoletani che nella notte l’era comparsa tutta cinta di [284] luce la Vergine et ordinato l’havea: “Di’ a’ napoletani che cavino nelle ruine della mia antica chiesa che ivi troveranno sotterrata l’imagine mia dipinta in un muro, e che a detta imagine inalzino un nuovo tempio ch’io loro prometto impetrare dal mio figliuolo la preservatione dal vicin castigo”. Udito questo l’intimoriti cittadini, senza fraponer tempo andarono a cavare nel luogo loro descritto e trovarono appunto l’imagine fra quelle ruine, come dalla buona donna loro era stato detto. Trovatala, come meglio si poté, con tende rimediarono un luogo in forma di chiesa, concorrendovi con gran divotione et ampie elemosine tutto il popolo, e si vidde che non solo la città et il Regno preservati vennero dal contaggioso morbo, ma furtivamente essendo entrati e nel Regno e nella città alcuni infetti, miracolosamente risanarono.

[285] Colla direttione et aiuto dell’illustrissimo magistrato della nostra città e col modello e disegno di fra Gioseppe Nuvolo, frate conservo della Sanità, domenicano, si diede principio al nuovo tempio, quale, ridotto nella perfettione che si vede, nel giorno della Purificatione della Santissima Vergine vi fu trasferita la sacra e miracolosa imagine dall’antico luogo dove fu trovata e collocata nell’altar maggiore, dove al presente venerata ne viene con frequenza grande e divotione in ogni martedì; coll’elemosine poi de’ cittadini è stata abbellita. Vedesi un bellissimo capo altare di marmi mischi commessi, opera designata e guidata dal cavalier Cosimo Fansaga. Le dipinture a fresco, così del coro come della cupola e delle volte sono del pennello di Belisario Corentio.

Fra le cappelle dalla parte dell’Epistola, si vede una tavola [286] nella quale sta espresso con molte figure, il Martirio di Sant’Erasmo; questa fu opera del nostro Giovan Filippo Criscolo. In un altra cappella dalla parte dell’Evangelio vi è un’altra tavola, nella quale sta espressa l’Adoratione de’ Maggi, opera di Fabritio Santafede; vi è un bellissimo pergamo. Nell’anno poscia 1603 dagli governatori del luogo vi fu eretto un collegio di donzelle quali vivono da più che claustrali, benché non habbiano voto di perpetua clausura. Vestono habito bianco collo scapulare azurro, per divotione dell’Immacolata Concettione; da queste monache s’ufficia nella chiesa, nelle feste sollenni, ancorché vi sia un numeroso clero.

E questo può bastare per la prima giornata, quale se bene sembri nello scritto lunga, potrà dare solo a’ signori forestieri notitia de’ luoghi per godere del bello e del curioso e dell’antico ch’in essi si vede.

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Giornata II.

Nella quale si principia il camino dal pontificio Palazzo della Nunziatura, e segue per la Porta Reale, dalla quale usciti si può entrare per la Porta Alba, tirar su per la Strada di Costantinopoli, entrare per quella della Sapienza, e caminando per la Somma Piazza fino al vicolo della Maggiore Chiesa e calando per questo alla Piazza di Sole e Luna, continuare per San Lorenzo a dritto, di nuovo fino alla Porta Alba.

L’intento mio è stato di scrivere queste notitie più per li signori forastieri che per i miei cari paesani, stimando che da questi sian cose sapute. Suppongo poi che per lo più i primi [2] habbian le loro posate nel luogo presso del Palazzo della Nuntiatura, nella strada detta la Corsea; e però da qui fo principiare le giornate per portarsi a vedere con facilità il curioso della nostra città; e per dar principio a questa seconda, principiaremo dalla nobilissima Strada Toledo.

È da sapersi che prima i serenissimi re di Napoli et i signori viceré havevano le loro habitationi o nel Castello di Capuana o nel Castel Nuovo; pervenuto il Regno nel dominio dell’invittissimo imperador Carlo Quinto, et essendo suo viceré don Pietro di Toledo, doppo d’havere ampliata la città, e cintala di nuove mura, seguitando quelle ch’haveva principiate Ferdinando Primo d’Aragona, cioè da San Giovanni a Carbonara fin sotto il monasterio della Trinità delle Monache, non gli parve molto commoda et a proposito l’habitatione del Castel Nuovo per la frequenza [3] de’ negotii; che però edificar volle un palaggio alla reale presso del detto castello, dal qual palagio per ponte si fusse potuto passar nella fortezza, come in effetto fu edificato col disegno e direttione di Ferdinando Manlio, architetto napoletano. Havendo poi fatta passare la Porta Reale dalla Piazza della Casa Professa presso la chiesa dello Spirito Santo, dalla quale prende il nome, volle aprire un’ampia e dritta strada dalla detta porta fino al palazzo, come al presente si vede; e fu fatta col disegno dell’istesso Manlio, ritenendo il nome di Strada Toledo. Hor, come dissi, usciti dalle posate a detta strada, vedesi il Palazzo Pontificio, dove albergano i nuntii del papa che assistono in Napoli. E questi hanno giurisdittione sopra i frati e monaci et altri, mantenendovi una corte formata con due auditori, fiscali, maestri d’atti, notai, commissarii e consori, colle sue [4] carceri. Questo palazzo mezzo quasi ruinò nel tempo dell’orrida peste di Napoli, nell’anno 1656, e fu rifatto nel fine del pontificato d’Alesandro Settimo, col danaro che si ricavò dalla vendita del monasterio degli Miracoli, de’ frati riformati minori conventuali, ricaduto alla Camera per essere rimasta detta riforma estinta, come a suo luogo si dirà.

Segue poscia la famosa piazza detta della Carità, di cui veder forse non si può simile in tutta l’Europa, essendo che in essa, in ogni tempo, in ogn’hora, vi si può havere quanto si sa desiderare di comestibile, e particolarmente di frutta, che in tutto l’anno vi si trovano freschi, e talvolta se ne vedono e nuovi e vecchi. Non vi mancano mai fiori, e quanto in somma può dilettare il gusto humano. Prende il nome da una chiesa che in detta piazza si vede, dedicata alla Vergine col titolo della Carità; e la [5] sua fondatione l’hebbe così: molti pii napoletani, vedendo che molti poverelli miserabilmente morivano, essendo impotenti a spendere a medici et a medicine, instituirono una compagnia, con istituto d’andar continuamente attorno per il loro quartiere osservando dove erano poveri infermi per sovvenirli; et a tale effetto eressero la detta chiesa, dove si fussero potuti adunare; e presso di detta chiesa un’ampia e ben proveduta farmacopea, appunto dove al presente si vede. Fu l’istituto approvato da Paolo Terzo, che l’arricchì d’infinite indulgenze, inviandoli una tavola dalla Santità Sua benedetta, dove sta espressa la Santissima Vergine col suo Figliuolo in seno e san Giovanni Battista, opera di Giulio Romano, che è l’istessa che sta situata con molta veneratione nell’altare maggiore. Poco doppo Paola Acquaviva lasciò, nell’ultimo suo testamento, a detta confraternità docati 3000 con [6] obligo di fondare un conservatorio per le povere donzelle che non havevano modo di potersi collocare in qualche monasterio, e per le miserabili che portavano qualche pericolo in casa de’ parenti. Fu puntualmente eseguito, ma poi, essendo stati fondati nella città ampii famosi e commodi ospedali per l’infermi, la prima opera fu dismessa; et essendo mancate le rendite nel già detto conservatorio, si risolse d’accettarvi donzelle con l’elemosine dotali, et al presente è uno de’ famosi collegii che sia in Napoli, dove non s’ammettono che figliuole de’ primi et honorati cittadini di Napoli.

Nell’anno 1626 vi furono introdotti i padri della congregatione de’ pii operarii a governarle, ma doppo molt’anni per alcuni degni rispetti se ne partirono.

Questa chiesa era prima governata da nove governatori, che s’eliggevano dalla detta confrater[7]nità, ma hora ha mutato forma e si eliggono dal signor viceré in numero di cinque con un delegato, restando il detto colleggio sotto la regia protettione.

La tribuna di detta chiesa vedesi dipinta da Pietro d’Arena.

In questa chiesa, nell’anno 1597, dal signor cardinale Alfonso Gesualdo di buona memoria vi fu appoggiata una delle 15 parocchie dal detto signore fondate, essendosi ampliata la città, e particolarmente in questa parte, con la accennata nuova strada detta di Toledo. A sinistra, passata questa chiesa, vedesi la casa dell’antica famiglia Della Porta, dove nacque il nostro Giovan Battista della Porta.

Caminando più avanti a destra, tutte le case che si vedono prima di farsi la nuova piazza, era un giardino del monasterio di Monte Oliveto, donato a’ monaci olivetani da Corrello Origlia.

Siegue la chiesa di San Nicolò [8] vescovo di Mira, con la casa de’ padri pii operarii. La fondatione, come opera di Dio, è degna d’esser notata: governarono per molt’anni i padri pii operarii nello spirituale la chiesa e collegio della Carità, e con grand’utile insieme del quartiere per le confessioni et altri esercitii di carità a pro degl’habitanti. Gl’incommodi poi che pativano erano a’ detti religiosi quasi insoffribili, essendo che habitavano in una picciola casa dirimpetto alla porta minore della chiesa; nella qual casa havendo una sola stanza grande, la destinarono per congregatione de’ ragazzi, col titolo dell’Immacolata Concettione.

Soffrirono per molto tempo una strettezza così scommoda, ma sopravenendo a questa altre novità che l’inquietavano, la consulta della congregatione stabilì di richiamarli nella casa di San Giorgio. Trovandosi in quel tempo proposito quel gran [9] servo di Dio don Antonio de Colellis, andò sempre riparando, non comportando la sua carità di veder privo questo quartiere degl’ajuti spirituali che dai padri ricevea: che però con lagrime continue ardentemente supplicava la divina misericordia a non voler che sortisse. O grand’Iddio! S’inferma a morte un che andava accattando, e che più volte s’era portato alla porteria de’ padri per la limosina. Mandò a chiamare uno de’ padri perché l’assistesse a ben morire, e doppo confessato li disse: “Padre mio, prenditi quei danari che stanno in quella cassa sotto di quei stracci ed impiegateli a’ vostri bisogni, perché così sono inspirato da Dio”. Il buon padre negò di farlo, ma li replicò l’infermo: “Fate come io vi dico, prima ch’altro succeda, e per utile dell’anima mia”. Fu compiaciuto, e vi trovò sei mila scudi d’ottima e bella moneta; e con questo danaro comprarono in questo luogo un [10] mediocre palazzo, et accomodata nel cortile una picciola chiesa, non senza contradittione de’ convicini religiosi, vi si celebrò la prima messa all’8 di gennaio del 1647.

Con fervore grande principiarono i loro soliti esercitii, aprendovi anco congregationi, dove in quantità vi concorreva non solo la gente del quartiere, ma anco di fuori, e fra questi un ricco gentil’huomo di casa D’Angelo, il quale, vedendo la chiesa picciola e la frequenza grande, disse al padre don Antonio de Colellis: “Padre, fatevi fare un disegno d’una nuova e comoda chiesa, ch’io sarò per fare tutta la spesa; con questo patto, però, che non s’habbia da sapere da persona viva ch’il danaro della spesa sia mio”. I padri fecero disegnare la chiesa, come si vede, da Onofrio Gisolfi regio ingegniero. Si fece la prima nave dalla parte dell’Epistola per poterci officiare; ma sopravenuta la peste, e morto il pio genti[11]l’huomo et anco quasi tutti i migliori padri della congregatione, per non volere mancare alla dovuta carità verso del prossimo, l’opera restò imperfetta. Passata poi la peste, e rifatta in parte la congregatione, essendo rettore di questo luogo il padre don Pietro Gisolfi, soggetto di somma bontà di vita, la chiesa era al maggior segno frequentata dai primi gentil’huomini non solo del quartiere, ma quasi di tutta la città; e questi contribuirono, con affetto, grande limosine, perché la chiesa si fusse compita, et anco perché i padri havessero commodità di stanze, habitando all’hora strettissimamente. In fine, con l’assistenza del padre don Pietro, che anco v’impiegò il suo patrimonio, che non era tenue, si è ridotta in questo segno.

Nella casa vi sono quattro congregationi: una detta de’ Dottori, nella quale v’intervengono anco nobili e ministri regii, e tal’hora [12] è arrivata al numero di 300 fratelli; un’altra di ragazzi, tutti ben nati; un’altra d’artegiani; et un’altra de’ Chierici, che vi s’adunano nel giovedì per imparare tutti quelli esercitii che a’ buoni ecclesiastici sono convenevoli per ajuto del prossimo bisognoso.

La chiesa, come si disse, fu disegnata da Onofrio Gisolfi, et in molte cose terminata dal cavalier Cosimo. Gli stucchi furono ordinati dall’istesso cavaliere, il quale modellò ancora la statua di San Nicolò, che sta nel maggiore altare, per farla di bronzo: ma nel voler tragittare il corpo la forma si ruppe, et essendo rimaste la testa e le mani di già tragittate, l’accomodarono sopra d’un corpo di stucco, come al presente si vede. Le statue che stanno di stucco nell’altare maggiore e nella cappella laterale, dalla parte dell’Epistola, sono opera di Nicolò Vaccaro. Quelle dalla parte [13] dell’Evangelio sono d’un francese. Le statue della cupola sono dello stesso Vaccaro e di Pietro Ghetti. La volta maggiore ella è dipinta dal nostro Francesco Solimena. I quadri ad oglio sono di mano dell’istesso. Nell’ultima cappella dalla parte dell’Epistola vi è una tavola dipinta dal nostro Santafede. Vi è un’immagine molto miracolosa di San Nicolò, et anco un pezzetto di reliquia dell’istesso santo, cosa che è unica in Napoli.

Passando avanti, a destra vedesi il famoso palazzo de’ signori Duchi di Madaloni, et a sinistra la casa e chiesa dello Spirito Santo, belle non solo per la struttura, ma per la ricca commodità: e dalla fondatione di queste si può argomentare la gran pietà de’ nostri cittadini.

Nel mese di novembre dell’anno 1555 alcuni pii napoletani illu[14]minati dallo Spirito Santo, per ajuto del prossimo formarono una confraternità e principiarono a congregarsi nella chiesa de’ Santi Apostoli, colla direttione del padre maestro Ambrosio Salvio, apostolico predicatore domenicano, che poi fu assunto al vescovato di Nardò. Riuscendo il luogo già detto incapace, passarono a congregarsi nella chiesa di San Giorgio Maggiore; ma il concorso grande di persone d’ogni qualità che venivano ad ascriversi et a frequentare i santissimi sacramenti fece risolvere la compagnia a cercare un luogo più ampio e più commodo, che però elesse quello di San Domenico, dove a’ 6 di novembre dell’anno 1557 si trasferì. Ma tuttavia maggiormente crescendo, risolsero di fabricare una chiesa, et a tale effetto comprato un territorio detto il Paradiso, che stava fuori la Porta Reale Vecchia, appunto dove è il giardino della casa de’ si[15]gnori Duchi di Monteleone hora de’ Duchi di Cantalupo, quivi in breve l’eressero, dove nell’anno 1562, colla guida del medesimo maestro Salvio, fecero alcune capitolationi, approvate e confirmate dalla santa memoria di Pio Quarto, concedendo alla detta confraternità molte indulgenze, privilegiandola col farla capo di tutte l’altre confraternità di Napoli. Si stabilì ancora d’erigere due conservatorii: uno per le figliuole vergini de’ poveri confrati, l’altro per le figliuole et altre donzelle che stavano in potere di donne prostitute, con pericolo di perdere la verginal pudicitia.

Nel tempo poscia di don Parafan de Rivera duca d’Alcalá e viceré, per tirare la strada dall’Incoronata fino alla Porta Regale (che è quella che noi chiamiamo di Monte Oliveto, che prima si diceva dell’Alcalá), fece demolire la detta chiesa pagando le spese. I confrati presto com[16]prarono alcune case e giardini in questo luogo, che anticamente veniva detto il Bianco Mangiare, e vi adattarono una picciola chiesa con pensiero d’erigerne una al maggior segno magnifica, come in effetto fu eseguito; e nel giorno del protomartire santo Stefano dell’anno 1563, in tempo del cardinale Alfonso Carrafa arcivescovo, fu posta colle solite sollennità de’ riti la prima pietra; et anco si faceva fatigare alla gagliarda nell’erettione del conservatorio, dove nell’anno 1564 si principiarono ad introdurre le figliuole delle prostitute, havendo ottenuto da’ ministri regii facoltà di toglierle a forza dalle madri renitenti. In progresso di tempo, colle continue elemosine de’ napoletani, e la chiesa et il conservatorio si viddero ampliati nella forma che hora si vede; e quando l’opera stava in vigore vi sono state da 400 figliuole. Queste s’allevano nel santo timor di Dio et in ogn’[17]altra virtù a donna honorata convenevole. In età poi da poter deliberare se a Dio vuole offerire la sua verginità, se gli dà l’habito in detto monasterio; se vuol maritarsi, se vi è persona honorata e da bene che per moglie la ricerchi, se gli dan cento scudi di dote. Piaccia alla divina misericordia di ravvivare e mantener sempre ardente il zelo di chi questo santo luogo governa in un’opera così santa, fruttuosa e di servitio di Dio.

La chiesa fu eretta col disegno di Pietro di Giovanni architetto fiorentino. La cupola vedesi dipinta di mano di Luigi Rodrico detto il Siciliano. La tavola che nel maggiore altare si vede, dove sta espressa la Venuta dello Spirito Santo sopra gl’Apostoli, è opera del nostro Fabritio Santafede, e molti di detti apostoli che vi stanno espressi sono ritratti dei governatori del luogo di quei tempi.

L’altare, di nobilissimi marmi commes[18]si, fu fatto col disegno et assistenza d’Andrea Falconi nostro napoletano. Il sepolcro e memorie di Paolo Spinello, figlio di Carlo conte di Seminara, son opera di Michel’Angelo Naccarino. Nel muro della croce, dalla parte dell’Evangelio, vi è un organo molto bello; e nella prima cappella, dall’istesso lato, che è della famiglia Riccarda (dove vedesi il sepolcro di Giulio Cesare Riccardo arcivescovo di Bari), vi stan collocate molte insigni reliquie, che dalla nota ivi impressa si possono sapere. Vi si vedono alcune pietre tonde di marmo, delle quali si servivano gl’antichi tiranni a tormentare i seguaci del Crocifisso. La tavola nella quale sta espressa la Vergine del Soccorso è opera del Santafede. La volta dipinta a fresco è di Luigi Siciliano.

Nel mezzo vedesi una cappella per la quale s’entra nell’oratorio molto bello della Compagnia de’ [19] Verdi, per una mozzetta di questo colore che portano sul sacco quando escono in processione; et ha questa compagnia per istituto di raccogliere elemosine per le figliuole e levarle dalle madri o da altre quando sono donne del mondo.

Nella prima cappella in uno de’ lati della Croce dalla parte dell’Epistola vedesi un famoso Crocifisso di marmo quanto al naturale, tutto d’un pezzo, opera forse la più bella ch’habbia fatto Michel’Angelo Naccarino.

Dall’altro lato vedesi la cappella della famiglia Naccarella, dedicata al glorioso San Carlo. La tavola che in essa si vede è opera similmente del nostro Santafede.

In uscire la porta che sta in detta croce a man sinistra vedesi un bellissimo et ampio oratorio, colle sue stanze e giardino; et in questo s’aduna l’arciconfraternità de’ Bianchi, così detti per un candido sacco che vestono di tela lino, e questa [20] haveva pensiero di procurar elemosine per le figliuole.

Essendo cresciute le rendite alla somma di docati 30.000 in ogn’anno, i governatori di questa santa casa aprirono nel cortile un publico banco, che è de’ famosi e ricchi della nostra città: il governo prima s’eliggeva dai deputati dei quartieri, hoggi ha mutata forma.

[1]

Giornata III.

Principia questa giornata dalla casa dei signori Duchi di Madaluni, della nobilissima famiglia Carrafa, e tirando avvanti per la famosa strada anticamente detta Cumana o Puteolana, poscia della region de Nilo, hora prende diversi nomi dagl’edificii che tiene nei suoi lati, et arrivati nella region di Forcella o Nolana, salire per l’antico vicolo anticamente detto Termense, hoggi di San Nicolò a Don Pietro, calar poscia per il monasterio della Madalena alla chiesa dell’Annunciata, e girar per San Pietro ad Ara e per la Porta Nolana.

Et eccoci alla terza giornata; nella quale i signori forestieri possono portarsi ad osservare una [2] delle famose strade della nostra città, la quale, se fusse un po’ più larga, sarebbe impareggiabile, ma, essendo questa strada accresciuta alla parte antica, non s’è potuto dilatare per non dissuguagliarla, principiando da Santa Maria d’Ogni Bene fino alla Porta Nolana, benché nella Strada di Forcella lasci un poco della sua dirittura; e di lunghezza dieci stadii e 18 passi italiani. Questa gran strada si chiamò con diversi nomi antichi: da dove principiaremo fino alla Piazza di San Domenico dicevasi Strada Cumana, e Puteolana, poscia si disse Strada Reale, perché la Porta Cumana, essendo stata nell’ampliatione di Carlo II passata più avvanti, come si vedrà, si appellò Porta Reale; dalla Piazza di San Domenico fino alla Piazza di San Biagio detto de’ Librari si chiamò Piazza di Nilo o, per dirlo con la voce populare, di Nido; da San Biagio fino a Porta Nolana [3] dicevasi di Forcella, essendo in questa regione, et anco appellossi Nolana, perché terminava nella porta per la quale a Nola andavasi, chiamandosi come al presente Nolana, e corrottamente dal volgo Novale. Hora ha tanti nomi quanti sono gl’edificii e li famosi tempii che stanno nei suoi lati, come si principiarà a vedere.

I signori forestieri, usciti dalle loro posate, sopponendo come sopra che stiano nei vichi dirimpetto alla Nuntiatura, tirando verso la Porta Reale, che osservammo nella giornata antecedente, quando sono nel quadrivio presso la chiesa e casa dello Spirito Santo, a sinistra vedranno la strada che va a terminare nella chiesa di Santa Maria d’Ogni Bene, et a destra la strada già detta. Per questa s’incamineranno, ed a primo si vedrà il famoso Palazzo dei signori Duchi di Madaluni. Questo è isolato, dei più belli ch’abbia la nostra città, e per lo sito e per [4] l’ampiezza e comodità delle stanze, et anco per l’architettura. Essendo stata formata la gran Strada di Toledo, fu questo fatto fabricare dal Marchese del Vasto, della famosissima famiglia d’Avolos de Aquino, ed il luogo l’hebbe a cenzo dalla nobilissima famiglia Pignatello, e chiamavasi il Bianco Mangiare, essendovi giardini molto dilettosi; poscia questo gran palazzo fu commutato dagl’heredi del marchese fundatore con un casino di piacere, che haveva Casparo Romuer fiamengo nella dilettosa villa della Barra; da Caspero nel medesimo tempo fu questa casa commutata con due palazzi ch’haveva il Duca di Madaluni: uno nel borgo di Santa Maria della Stella, l’altro a Posilipo, detto l’Auletta, et immediatamente dal penultimo Duca di Madaluni fu principiato ad abellire, e dal presente signore sta terminato et adornato in modo che degno si rende d’essere osservato. Vedesi nel di [5] dentro vagamente dipinto la maggior parte dal pennello di Francesco di Maria, e da altri valent’huomini in diversi generi di dipintura: l’adornano molte belle statue di marmo, e sta accresciuto de nuovi stanzoni e vistosissime galerie. La soppellettile pretiosa, e fra questi molti quadri, son degni d’essere veduti. La porta fu disegno del cavaliero Cosimo Fansaga. Viva per più secoli il padrone per goderselo, essendo meritevole per le sue rare e gentilissime virtù degne d’ogni bene.

Al lato di questa casa vedesi un quadrivio, e dalla destra un famosissimo stradone che va a terminare alla gran Strada del Castello, anticamente detta delle Correggie, come meglio si dirà.

Havendo don Pietro di Toledo aperta la gran strada di sopra, don Parafan de Ribera duca d’Alcalá, viceré che principiò il suo governo nell’anno 1559, signore d’una [6] soprafina bontà, e generosissimo, aprì quest’altra strada quasi simile a quella di sopra che termina similmente alla Porta Reale, e chiamossi un tempo la Strada Rivera; hoggi dicesi di Mont’Oliveto. Aperta e terminata che fu, come in quella di sopra vi furono fabricati bellissimi edificii, essendo che in quei tempi eran quasi tutti giardini del monasterio di Mont’Oliveto, et in fatti da sotto il Palazzo del Duca a destra fino alla Strada de’ Profumieri o Guantari, avvanti la chiesa di Santa Maria la Nova tutte quasi le case pagano il censo a’ monaci per lo suolo, come anco dalla parte di Toledo dalla Corsea, e delli già detti Profumieri.

E per dare qualche notitia del curioso che in detta strada si vede: passato il vicolo di sotto della casa sudetta del Duca, vedesi la chiesa di Sant’Anna della natione lombarda. In questo luogo anticamente v’era un ameno giardino, [7] chiamato il Bel Giojello, nome che rimase al vicolo sudetto et a quello che va per dietro la chiesa, et è da credersi che fusse stato un terreno fertilissimo, perché, essendo rimasto una particella di questo giardino alli monaci, che sta alle spalle delle case dirimpetto alla porta minore della chiesa di Sant’Anna, che si può dire in un fosso, dà li primi d’ogni altro giardino i ficchi che noi chiamiamo ottate, e saporitissimi e grossi.

E per dar contezza della fundatione: la natione lombarda haveva una bellissima cappella nella chiesa del Carmine, ma, perché vi si stava con qualche soggettione, nell’anno 1581, con breve di Gregorio XIII pontefice, eresse a proprie spese questa, dedicandola alla gloriosa madre della Vergine, Sant’Anna, titolo della cappella già detta. La cupula e l’altre dipinture a fresco che vi sono, son opera di Giovanni Balducci. La tavola che sta nel mezzo dell’[8]altare maggiore, dove espressi si veggono la Vergine santissima col suo Putto in braccio, sant’Anna, san Marco e sant’Abrogio, è opera del nostro Fabritio Santafede. I due quadri laterali a detta tavola, in uno de’ quali sta espresso San Francesco, nell’altro una Santa Vergine, sono stimati del Bassan Vecchio, e veramente son cose degne d’essere vedute.

Nel cappellone dalla parte dell’Evangelio vi è un quadro, opera di Giovanni Lanfranchi. Fu fatto da questo gran huomo per la Certosa di San Martino, ma per non essere stato d’accordo con i monaci, egli a questa chiesa lo donò. Vi si vedevano espressi la Vergine santissima col suo Figliuolo in braccio, san Gennaro e san Brunone. Essendo poi passata la cappella alli Samueli, venetiani, i padroni fecero mutare il san Brunone in san Domenico dal pennello di Luca Giordani, il quale così bene imitò la maniera di Lan[9]franco, che non è possibile che si possa conoscere da chi nol sa.

Nella prima cappella della nave dell’istessa parte, tutti i quadri che vi si veggono, cioè quel di mezzo, dove sta espressa la Vergine santissima con l’apostolo san Pietro et un altro santo; li due laterali, in uno de’ quali è il Signore che cava san Pietro dall’onde, nell’altro che li dà le chiavi; i due piccioli che stan sopra di questi, in uno con la figura di San Francesco, nell’altro di San Domenico, et il tondo che sta nella volta, dove sta espressa la Crocifissione di san Pietro: son opere del nostro famoso Carlo Sellitto, e son cose che né più belle né più studiate si ponno desiderare.

Passata la Cappella de’ Correggi, nella quale vi è un quadro che fecero dipingere in Roma, né si sa l’autore, viene la Cappella dei Finaroli, dove vi sono tre quadri di Michel’Angelo di Caravaggio, e quel di [10] mezzo dove sta espressa la Resurrettione del Signore, che salta dal sepolcro con molti soldati che dormono, cosa stimatissima, perché la figura principale par che esca dal quadro, però alcuni intendenti nell’arte dicono che sia mancante nel costume, perché li manca una gloriosa maestà.

Nel cappellone dalla parte dell’Epistola vi è un quadro dove sta espressa una divota imagine di San Carlo Borromeo, opera del nostro Girolamo d’Arena.

Nella prima cappella dell’istessa parte vi è una tavola molto bella, dove con molta vaghezza sta espressa l’Adorazione de’ Maggi, opera di Chiara Varottari veronese.

L’altra cappella che siegue, dove stanno espressi molti Santi, e fra questi un Sant’Antonio abbate molto bello, ma l’autore non si sa.

Segue la bellissima Cappella di Giovan Domenico Fontana, dove al vivo sta espresso il suo ritratto in mar[11]mo, e di Giulio Cesare et altri suoi fratelli, famosissimi architetti, in modo che Giulio Cesare fu eletto dal gran monarca Filippo Secondo per suo primo ingegniero et architetto, che disegnò molti belli edificii in Napoli, come si dirà. Vedesi questa dipinta a fresco da Belisario Corentio. Il quadro maggiore, dove sta espresso San Sebastiano, è così ben disignato, colorito e finito, che molti virtuosi nell’arte l’hanno stimata opera studiata di Domenico Zampieri, ma è del pennello del nostro Carlo Sellitti; e mio padre il vidde dipingere, e pochi anni sono viveva un vecchio, che perfettamente copiava, che più volte s’era egli spogliato per essere da Carlo osservato nel naturale.

Nei luoghi laterali della porta, dalla parte di dentro, vi sono due altaretti con due bellissimi quadri: in uno sta espresso Sant’Antonio da Padua, nell’altro il Signore che corona santa Caterina da Siena; opere [12] del nostro Giovan Battista Caracciolo detto Giovanni Battistello.

Usciti da questa chiesa, calando giù, vedesi una vaga fontana con una statua di bronzo di sopra che rappresenta il nostro monarca Carlo Secondo (che Dio guardi); questa fu fatta circa gl’anni 1668 a spese della città, essendo viceré don Pietro Antonio d’Aragona, et il disegno di questa fontana fu del nostro Donato Antonio Cafaro regio ingegniero.

A destra di questa fontana vedesi la chiesa ed il famoso monasterio di Santa Maria di Mont’Oliveto, governata da monaci detti olivetani, che vivono sotto la regola di san Benedetto. Questi vennero da’ fondamenti eretti da Gurrello Origlia, nobile della piazza di Porto, gran protonotario del Regno, e fu così intrinseco familiare del re Ladislao che divenne uno de’ primi signori di quel tempo, in modo che vidde sette suoi figlioli tutti con[13]ti e baroni di ricchissimi feudi. Fu principiata nel 1411 in questo luogo, ch’era un ampio et amenissimo giardino chiamato Ampuro, che arrivava presso la Porta delle Correggie, e dalla parte di Toleto confinava col piede del Monte di Sant’Ermo, come si ha da molti istrumenti antichi, benché vi fusse stata prima una chiesetta, intitolata Santa Maria de Scutellis, et essendo in breve terminati, li consignò a’ detti monaci, assignandoli per loro mantenimento once 33 e tarì 10, bastante per 24 persone senza gl’oblati. L’assignò ancora molti beni stabili e censi, come i feudi di Savignano, di Cutugno e Casalba nel territorio d’Aversa, et anco il territorio di Lucugliano, o Lucullano colla voce non corrotta dal volgo, che sta sopra Echia poco lungi dal Regio Palazzo, come si dirà; et essendo divenuto il detto luogo il più ameno e delitioso della nostra città, i monaci l’han dato a censo a diversi, e [14] ne ricavano molte e molte centinaia di scudi in ogn’anno, come anco dal territorio ch’han censuato d’intorno al monasterio, come si disse. Il detto Gurrello fece questa chiesa juspatronato della sua famiglia, e fra gl’altri patti volle che nel giorno della Purificatione, titolo della chiesa, i monaci havessero dovuto dare la prima candela a sé e successivamente a’ suoi legittimi heredi.

Oltre le rendite del fundatore, fu accresciuta di molti beni da diversi signori del Regno, e fra questi dagli Avolos e da’ Piccolomini.

Fu affettionatissimo di questi monaci il re Alfonso Secondo d’Aragona, in modo che spesso con esso loro andava a pranzo, et anco gli serviva a tavola, et in memoria di questo gl’istessi monaci eressero un marmo nello refettorio, che fu fatto a spese di esso re Alfonso, et oltre l’haverli donati molti vasi d’argento e molte pretiosissime vesti [15] per la sacristia di broccato, che fin hora vi si conservano, gli donò tre feudi, che furono Teverola, Aprano e Popona, con la giurisdittione civile e criminale.

La chiesa sudetta fu ella fabricata all’antica, et era in questo modo: vedevasi il coro, modernamente poscia adornato con dipinture e stucchi posti in oro; haveva nelle spalle la sacristia, e per due porticelle che stavano a lato dell’altare maggiore s’univa alla chiesa, e nell’uscire vi si vedevano due aditi di cappelle. Quello dalla parte dell’Evangelio andava nella Cappella de’ Tolosi, quello dalla parte dell’Epistola andava alla Cappella della Noja, e si poteva ancora andare al chiostro et alla sacristia.

Entrati per questi aditi, vi stava dietro la muraglia maestra della nave maggiore uno come corridore, così dall’una parte come dall’altra, e quello dalla parte dell’Evangelio haveva la sua uscita nella [16] Cappella de’ signori Avolos, che è una delle due che stavano in detta parte con l’ingresso dalla nave della chiesa. Quello dalla parte dell’Epistola haveva l’esito nella cappella prima di Santa Francesca Romana, poi del Beato Bernardo Tolomei.

In questi due corridori, come si disse, ognuno haveva, così da un lato come dall’altro, diverse cappellette di marmo, statue et inscrittioni di diverse famiglie nobili e cittadine.

Nella nave principale, toltone le quattro cappelle che stavano due per parte presso la porta maggiore, cioè quella de’ Piccolomini e d’Avolos, dalla parte dell’Evangelio, quella di Mastrogiudice e quella del Beato Bernardo, dalla parte dell’Epistola, ch’havevano l’adito dalla chiesa, come si disse, il rimanente del muro fino agl’aditi già detti non haveva altre cappelle se non che nel mezzo. Dalla parte dell’Evangelio due belli sepolcri [17] con le loro statue giacenti di sopra: uno era dell’abbate Ferdinando Brancaccio e l’altro di Giovanni Paolo Arnoldo vescovo d’Aversa, e fra questi due sepolcri vi era un altarino similmente di marmo, su del quale situata vi stava una statua tonda della Vergine con il suo putto Giesù in braccio, che da alcuni si stimava essere opera del Rossellino.

Nell’altra parte dell’Epistola vi si vedevano due altaretti di bianco marmo: in uno vi stava situata una statua tonda al naturale che esprimeva Sant’Antonio da Padova, opera del nostro Girolamo Santacroce; nell’altro vi era collocata la statua che esprimeva San Giovanni Battista, opera del nostro Giovanni da Nola, e questa (come si dice) fu la prima statua ch’havesse scolpita in marmo, essendo che prima scolpiva in legno. Nel mezzo di detti due altaretti vi si vedeva una cassa sepolcrale con due bellissime statue giacenti di sopra, opera dello stesso Santacroce.

[18] La Cappelletta di Sant’Antonio era della famiglia Barattuccia, quella di San Giovanni dell’Arnolda.

Benché questa chiesa fusse stata da diversi abbati modernata al possibile con soffitte dorate con organi maestosi e con finestre e cornicioni alla moderna, il padre abbate Chiocca volle ridurre per prima il maggiore altare alla moderna, che dicono alla benedettina isolato, essendo stati i benedettini negri i primi ad usarlo.

Era l’antico altare tutto di bianchi marmi, opera nobilmente fatigata dal Merliano, et era in questo modo: presso dell’altare bene intagliato vi si vedevano due porte similmente di marmo, che davano l’adito al coro. Ai lati di queste due porte vi erano due ben lavorate urne adornate d’alcune figure tonde, e particolarmente d’alcuni amorini che piangendo spegnevano le loro faci sopra dell’urne, et in una di dette urne vi era la memoria di [19] Gurrello Origlia fundatore, e nell’altra d’Alfonso Secondo benefattore. Per modernarlo (come si disse) tolse via i detti marmi, collocando le due urne di Gurrello e d’Alfonso presso del quadro che sta nel muro di mezzo del coro, e col disegno di Giovan Domenico Vinaccia, posto in opra da Bartolomeo e Pietro Ghetti scultori, vi fu collocato l’altare che al presente si vede, di pretiosi marmi commessi. Li marmi però bianchi, che stan collocati dietro di detto altare, sono dell’antico lavorati dal Merliano.

Dietro del coro vi era la sacristia, la quale, perché non riusciva molto comoda quando in detto coro s’officiava, il detto abbate la mutò in questa forma.

Nel terzo chiostro, ch’è chiamato il chiostretto, vi era il cenacolo, o refettorio, egregiamente dipinto e disposto anco nelli stucchi da Giorgio Vasari con diverse historie della Sacra Scrittura e d’altre [20] figure che esprimevano diverse Virtù; nel muro piano dell’uno capo e l’altro di questo vaso, dipinto v’haveva ad oglio, in uno il Piovere della manna, nell’altro la Cena del Signore con l’apostoli suoi. Questo sì bel cenacolo haveva l’ingresso dalla parte del chiostretto e terminava avvanti della già detta sacristia.

S’era di già terminato il nuovo e magnifico chiostro, che in ordine è il quarto in questo monasterio, come appresso veder si può. Nel secondo ordine di detto chiostro vi era stato fatto il vaso per un nobile et ampio cenacolo con tutte l’officine necessarie e comode, ma questo cenacolo, da molti e molti anni fatto, non si era curato di ponerlo in uso. L’abbate Chioccha lo fece terminare, instuccare e darli ogni pulizia di sedile, facendovi passare anco i quadri ad oglio del Vasari che stavano nell’antedetto cenacolo vecchio, ove, chiudendo [21] la porta che stava dalla parte del chiostretto, ne aprì un’altra dall’altra parte della chiesa e la rese sacristia, che è riuscita una delle più belle che siano in Napoli, e per le dipinture che vi si veggono, e per gl’ornamenti che vi sono; havendovi trasportate e ben collocate tutte l’opere di tarsia che stavano nella vecchia sacrestia [e] nel coretto della Cappella de’ Tolosi, di mano di fra Giovanni di Verona, oblato di questo monasterio, che son cose degne d’esser vedute.

Si vede ancora adornata, ne’ piani delle mura, di diversi buoni quadri antichi, e particolarmente d’uno, opera di Leonardo da Pistoia. Questo quadro stava nell’altare maggiore collocato, e perché le figure che in esso si vedono erano state prese dal naturale nel rappresentare il misterio della Purificatione, essendo che il volto di san Simeone era ritratto d’Antonio Barattucci, all’hora avvocato fiscale [22] di Vicaria; quello della Vergine era di Lucretia Scaglione; quello dell’altra donna era copiato dal volto di Diana di Rago, donna in quel tempo stimata di gran bellezza; nell’altre figure si riconoscevano i sembianti di Lelio Mirto, vescovo di Cajazzo e cappellan maggiore; di Gabriele Altilio, vescovo di Policastro; e d’un monaco olivetano, in quel tempo sacrestano; essendo stato chiamato a dipingere il refettorio, Giorgio Vasari diede ad intendere alli padri che era molto sconvenevole che nel quadro del maggiore altare d’una chiesa così nobile e frequentata vi si riconoscessero nella Vergine un volto d’una dama così nota et in quello di san Simeone un avvocato fiscale di Vicaria; che però ne fu rimosso e vi si collocò un’altra tavola simile, cioè coll’istesso misterio, dipinta da esso Giorgio.

La sacristia vecchia rimase per guardarobba della chiesa, dove si [23] conservano tutti gl’apparati e gl’argenti.

Non contento lo stesso abbate di questo, considerando che non era bene che i corridori già detti non fussero esposti alla vista d’ognuno che entrava nella chiesa, col disegno di Gennaro Sacco, nostro architetto, li tolse via col formare sei cappelle per parte sfondate nei detti corridori, collocando altrove le memorie che vi stavano. In alcune di queste cappelle collocò le statue di Sant’Antonio, di San Giovanni Battista e della Vergine, et in altre le memorie che stavano nei corridori già detti.

Haveva egli designato di collocare nel piano delle mura del coro quattro quadroni di mano del nostro già fu Francesco di Maria, e di già ne erano stati situati due; mutando pensiero li fece toglier via, e vi collocò i sepolcri del Brancaccio, del Vescovo d’Aversa, del Barattucci e d’un altro. Ho voluto dar que[24]sta notitia perché i signori forastieri che vogliono andare colla guida del nostro Engenio per riconoscere inscrittioni e tumuli sappiano che stanno mutati di sito per la cagione già detta.

Hora si può vedere tutto l’altro che in questa chiesa vi è di bello e, per prima, le dipinture a fresco che stanno nel coro sono opera del nostro Simon Papa. Il quadro della Purificatione, come si disse, è del Vasari.

La prima cappella dalla parte dell’Evangelio è della famiglia Tolosa, che tira in dentro, e i sedili che vi sono erano tutti adornati d’opera di tarsia, che sono stati trasportati nella nuova sacristia. La tavola che in essa si vede, dove sta espressa la Vergine Assunta con i discepoli del Signore intorno al sepolcro, fu dipinta da Bernardo Pintoricchio, discepolo di Pietro Perugini.

Nell’entrare in detta cappella, a [25] destra vedesi un’altra cappella, dove sta situato il Sepolcro del Signore. Questo vien formato da molte figure tonde al naturale di terra cotta e colorita: vi è il nostro Redentore morto, la Madre tramortita, l’altre Marie addolorate con San Giovanni piangente, vi è Nicodemo che è il vero ritratto di Gioviano Pontano; la statua di Gioseffo è ritratto naturalissimo di Giacomo Sannazaro, vi sono anco due altri ritratti, uno del re Alfonso Secondo, l’altro di Ferrandino suo figliolo; statue che più spiritose né più al vivo credo che non si possano fare, e furono opera di Modanin da Modana eccellente scultore e particolarmente in questa materia, che fiorì circa gl’anni 1450.

Passate tre cappelle, vedesi quella de’ signori de Avolos, dove si conserva la Sacra Eucharistia, et in essa la tavola che vi si vede, dove stanno espressi la Vergine santissima col suo Figliuolo in braccio e di [26] sotto san Benedetto vestito da olevetano e san Tommaso d’Aquino, è opera del nostro Fabritio Santafede.

La cappella che segue, che have l’ingresso sotto del nuovo coretto fatto, è dei signori Piccolomini dei duchi d’Amalfi, et in essa s’osserva una tavola di marmo nella quale gentilmente sta espressa la Nascita del Signore, e sopra della capanna molti angeli in atto di cantare, due statue tonde d’alcuni amorini che sopra gl’ornamenti stanno scherzando con alcuni festoni, e dalla parte dell’Evangelio il maraviglioso sepolcro della duchessa Maria d’Aragona, figliuola naturale del re Ferdinando Primo. Su l’urna si veggono due putti che sostengono su d’un panno il cadavero della defonta con una tavola similmente di marmo, dove sta espressa la Resurrettione del Signore, et un’altra con la Regina de’ Cieli col suo Putto in braccia, et [27] avvanti di detto sepolcro vi è un panno da una parte e l’altra di marmo che mostra di coprire detto sepolcro, ma alzato da due putti, fatto veramente con gran giuditio, benché ne sia andata giù una parte. Il tutto fu opera del famoso scultore fiorentino Antonio Rossellino, che fiorì circa gl’anni 1460.

Usciti da detta cappella, a lato della porta maggiore, che è della famiglia del Pezzo, in questa vi è una bellissima statua tonda che rappresenta la Vergine col suo figliuolo Giesù in braccio, due altre statue di mezzo rilievo ai lati, con diversi altri adornamenti: opera del nostro Girolamo Santacroce, quale la fece a concorrenza di quella che sta dall’altro lato della porta della famiglia Ligoro, fatta dal nostro Giovanni di Nola, dove anco vedesi una statua nel mezzo, tonda, che rappresenta la Vergine con Giesù nelle braccia e san Giovanni di sotto, con due altre belle statue nei lati, con altri [28] ornamenti, come in quella del Santacroce.

Alla destra di questa cappella vedesi la Cappella de’ Mastrogiodici de’ marchesi di San Manco, et in questa vi sta sepolto Marino Coriale, giovane tanto caro al re Alfonso Primo, che dallo stesso li fu fatto il disticon, che sta intagliato su la sua sepultura, che così dice:

Qui fuit Alphonsi quondam pars maxima Regis
Marinus ac modica nunc tumulatur humo.

In questa cappella vi si vede una bellissima tavola di marmo dove sta espressa la Vergine Annunziata dall’Angelo con altri santi e putti che scherzano, opera di Benedetto da Majano, scultore fiorentino che per molto tempo stiede in Napoli.

Seguono appresso le nuove cappelle già dette, dove stanno collocate diverse inscrittioni che stavan di dentro.

[29] S’arriva all’ultima cappella, che ha l’ingresso per sotto del nuovo coretto, e dentro vi si vede la cappella gentilitia della famiglia Orefice, fundata dal presidente del Sacro Consiglio di questa casa; sta dipinta a fresco da Luigi Siciliano. La tavola che sta nel mezzo, dove espresso si vede il misterio dell’Annunciatione della Vergine, è opera di Francesco Curia. Vi sono anco i sepolcri di questa casa con le sue statue.

Segue a questa la Cappella d’Antonio Phiodo: in questa vi era una bellissima tavola nella quale stavano espressi i Santi Maggi ch’adoravano il bambino Giesù in seno della Madre, opera del famoso Girolamo Cotignola, che fiorì circa gl’anni 1515. Questa sì bella tavola già quasi era marcita per l’humido del muro che li veniva da dietro; la pietà d’un abbate ne prese quel che poté, che è la Vergine, un de’ Maggi et una parte di san [30] Giuseppe, e l’ha ridotto e conservato nella forma ch’hoggi si vede.

Segue a questa in dentro la cappella delli signori della Noja de’ prencipi di Solmona, famiglia fermatasi in Regno e di già estinta, nella quale si vedevano bellissime historie che esprimevano dipinte a fresco molti fatti del Vecchio Testamento, e particolarmente quello di Giona profeta, fatte dal famoso pennello di Francesco Ruviale, discepolo di Polidoro, che cotanto imitò il suo maestro che ne fu detto il Polidorino, in modo che molte opere di questo sono state passate di mano del maestro. Queste dipinture hoggi sono quasi tutte perdute per la poca cura che si è tenuta a non fare trapelare l’acqua ad inhumidire le mura.

Da questa cappella si passa a quella de’ signori Sangui, che sta avvanti la sacristia; le dipinture a fresco che in questa si vedono, ed il quadro che sta nell’altare, dove sta [31] espressa la Vergine assunta con molte figure, sono opera del nostro Giovanni Strada.

Di reliquie vi si conservano: un pezzo del legno della Croce, due spine della corona del nostro Redentore, la costa di san Christofaro martire, uno delli strali col quale san Sebastiano fu saettato, et altre.

Vi si conservano bellissimi apparati antichi e ricchi ornamenti d’argento per l’altari, e fra questi una maestosa croce.

In questa chiesa vi sono state sepolte delle persone regali: Francesco d’Aragona legitimo figliuolo di Ferdinando Primo, e Carlo d’Aragona figliuolo naturale dell’istesso, e la già detta moglie del Duca d’Amalfi.

Vista la chiesa, per l’istessa sacristia si può entrare a vedere i chiostri, quali sono quattro. Il primo è forsi de’ più belli che veder si possa in Napoli e fuori, con due ordini di volte, una sopra l’altra, [32] consistendo in nove archi ben larghi di lunghezza e sette di larghezza; vi è il nuovo refettorio, nel quale sono stati trasportati i quadri ad oglio del Vasari che stavano nel vecchio refettorio ridotto in sacristia. Da questo si passa in un altro più picciolo, nel quale stava la porta dell’antico cenacolo o refettorio, come si disse. Si passa poi ad un altro chiostro con due ordini di volte, l’uno sopra l’altre, appoggiate sopra colonne di marmo bianco. Ne segue a questo un altro che serve per la porteria, e per questo si va su alli dormitorii ed alle stanze, che sono ampie, belle e vistose, e particolarmente quelle che servono per gli abbati.

Si può vedere la libreria molto comoda di libri, e particolarmente di molti manoscritti donati alli monaci da Alfonso Secondo, e si stimano che stati siano della gran [33] libreria d’Alfonso Primo, e particolarmente la Sacra Biblia, che dal sudetto Alfonso fu tante volte riletta, benché ve ne manchino molti e molti.

Visto questo sì gran monasterio, si può calare per l’istessa porteria, dove nel presente anno i monaci vi hanno aperta una farmacopea dalla parte di Strada Toledo, e forma una prospettiva lunga quanto è il monasterio.

Usciti, vedesi al dirimpetto il famoso Palazzo de’ signori Ursini de i duca di Gravina, e questo fu uno de’ due primi palazzi principiati a fabricare in questa sorte d’architettura; perché prima in Napoli tutte l’habitationi erano fatte alla gotica, che non haveva punto della buona architetura, e questi due palazzi diedero motivo di rifare tutti gli altri alla moderna, in modo che pochissimi ve ne sono all’antica; e li primi architetti di questi due furono Giovan Francesco Mor[34]mando fiorentino, che edificò quello del Duca di Vietri, come si vedrà; et il nostro Gabriel d’Angelo, che è competenza del detto Giovan Francesco, disignò e modellò questo che così maestoso hoggi si vede, ancorché compito non sia. Le teste di marmo che si vedono su le finestre e li tondi del cortile son opera del Vettorio nipote di Lorenzo Giberti fiorentino, benché non siano come l’opere del padre e dell’avo.

Presso di questo palazzo, alla sinistra vi è la casa del già fu Ferrante Imperato, memorabile sempre per le sue gran virtù. Questo grand’huomo in questa casa formò un copiosissimo museo, che chiamava da provincie remotissime i curiosi forestieri a vederlo, né vi era tempo nel quale populato non fusse da curiosi e desiderosi insieme d’imparare. In questo adunate haveva con dispendio grande infinità di cose naturali d’ogni genere come d’animali, piante, frutta, miniere, pietre, [35] gemme et altro venutoli da tutto l’orbe; ma quello che più in questo museo s’ammirava era una quantità di libri che passavano 80 volumi, tutti in carta imperiale, alti più d’un palmo l’uno, et in essi si vedeva per ogni carta attaccato un semplice con una colla composta d’una mistura che attaccava tenacissimamente l’erba alla carta, senza far perdere all’istessa erba il colore; e di questi semplici ve n’erano quanti se ne havevano potuto havere de’ più stravaganti e più giovevoli all’humana salute da tutti i luoghi pratticabili del mondo, in modo che mandò un huomo a posta a raccoglierne nell’Indie. V’erano mumie stravagantissime: in fine cosa più bella veder non si poteva nell’Europa. Questo museo dal buono Ferrante fu lasciato col fideicommisso; passò al suo virtuoso figliuolo Francesco, il quale non solo fedelmente lo conservò, ma l’accrebbe in molte cose. Essendo [36] poi passato ad alcuni affini, che haverebbero voluto in Ferrante più nobiltà che virtù, cercorno d’abolirne la memoria dissipando un così pretioso tesoro, in modo che hoggi non vi sono rimasti che l’armarii e certi miserabili avanzugli forse per non perdere la casa, essendo disposto dall’istesso Ferrante che, rimovendosi da questa casa il museo, la casa ricada ad un luogo pio. Di questo se ne sarebbe perduto affatto la memoria, se non ne parlassero i libri ed i registri mandati alle stampe dal detto Ferrante e da Francesco suo figliuolo. Parte della robba che qui si conservava è andata fuori, e parte se ne vede ancora in potere d’alcuni curiosi napoletani, come a suo tempo si vedrà.

Alle spalle di questo sì nobil palazzo vedesi un’altra strada aperta prima della strada già detta di Rivera, o d’Alcalá, popolata da commode e nobili habitationi, e la prima che vi si vede a sinistra, quando [37] si vuole andar giù verso il monastero di Donna Alvina, fu ella fabricata da’ signori Duchi di Gravina, nel mentre fabricar facea il suo famoso palazzo; passò poscia a diversi padroni, e per ultimo al dottor Giuseppe Valletta, che l’ha resa illustre con molti ornamenti degni d’esser veduti.

Per primo ha ridotto uno de’ belli giardini che si veggono dentro delle mura della nostra città ad una nobil e delitiosa coltura. La casa si vede adornata di molte statue antiche. Le stanze si vedono ricche di molte buone dipinture d’artefici di stimata riga, e fra queste vi si vede la macchia, ma finita, del tanto rinomato San Girolamo d’Agostino Caracci, e di molti mezzi busti che hanno teste antichissime, e da farne conto, e fra queste la testa di Giulio Cesare d’alabastro orientale, di Marco Aurelio, di Costantino, di Marcello, d’Apollonio Tianeo, cotan[38]to celebrata dall’eruditissimo anticario Giovan Pietro Bellori nel libro dell’imagini di filosofi antichi; e veramente quest’ultima testa è degna d’essere osservata da’ fisonomici. Vi è una nobile suppellettile d’argento e d’altre materie, la quale, benché siano fatture moderne, ponno esser vedute come nobili e dilicatamente lavorate. Ma il più bello poi che in detta casa si vede è la libreria, che composta viene da 18 mila volumi in circa in tutte le scienze, e sono libri greci, latini, volgari italiani, francesi, inglesi e d’altre lingue, delli migliori editioni che sono usciti nelli secoli delle stampe, in modo che vi si fa conto nella raccolta d’esservi stati spesi da 30 mila scudi. La cortesia del padrone ammette ognuno che andar vi vuole ad osservarla ed a studiarvi, onde non vi è forastiero desideroso d’haver buone notitie che non vi vada a vederla, essendoci andato anco il Marchese di [39] Santo Stefano viceré di Napoli, per lo che il padrone ha contratto amicitia con tutti i letterati d’Europa.

Si è data questa notitia per i curiosi che vorranno calarvi, come anco si farà in tutti gli altri vichi che nei lati della strada principale si troveranno, che però, tornando al Palazzo del Duca di Madaloni tirando avvanti, passando il primo vico a sinistra, se ne trova un altro che termina alle cisterne, dove dalla città si conserva l’oglio, e nel principio di questo vico stava l’antica Porta Puteolana o Cumana, che poi – come si disse – fu detta Reale, trasportata da don Pietro di Toledo nel capo della Nuova Strada, e dicesi dello Spirito Santo, e da questo luogo principia la città vecchia, cioè dall’antepenultima ampliatione fatta da Carlo II.

S’entra nella bella piazza della Casa Professa de’ padri giesuiti, che avvanti have un ampio stradone che termina alla chiesa di Mont’[40]Oliveto, et in questo veggonsi due famosi palazzi con dilettosi giardini. Quello a sinistra è della casa Vargas dei duchi di Cagnano, quello a destra fu dei signori Duchi di Monteleone, hora de’ signori Marchesi Longhi della nobil famiglia Di Gennaro; e questo luogo era un dilettoso giardino della casa Pignatello, presso le mura della città, detto il Paradiso. Essendo state fatte le nuove mura, il giardino già detto fu chiuso nella città. Donna Girolama Colonna, duchessa di Monteleone, volle fabricarvi la sua casa, quale havea un gran giardino che tirava fin d’avvanti il palazzo del signor Marchese del Vasto; e perché la detta donna Geronima seppe che il marchese havea fatto fabricare le sue habitationi dalla parte del suo giardino per godere di quella vista, e non dalla parte di Strada Toledo, che havea il mezzo giorno, v’alzò una maravigliosa fabrica con ispesa grande per toglie[41]re al Marchese quella veduta.

Ma torniamo alla chiesa della Casa Professa: fu questo il maestoso palazzo forse senza pari in quei tempi per la grandezza in Napoli, presso della già detta Porta Regale fabricato nell’anno 1470 da Roberto Sanseverino principe di Salerno e gran almirante del Regno, uno de’ primi signori di quel tempo; e fu fatto col disegno e modello di Novello di Sanlucano, insignissimo architetto de’ suoi tempi. La facciata della chiesa, de travertini di piperno lavorati a punta di diamante, era la facciata della casa medesima, e la porta della chiesa era l’istessa che v’era all’hora nel detto palazzo, come si vedeva dall’inscrittione, e dall’armi che vi si vedono. Nell’anno però 1685 dai padri è stata rimossa et alzata più palmi e mutata l’inscrittione, come anco variata un’arma, havendovi aggiunti gl’ornamenti di colonne e d’altro che vi si vedono d’in[42]torno. In questa casa v’erano stalle capaci di 300 cavalli, e bellissimi e delitiosi giardini.

Come poi si trovi questa gran casa trasmutata in chiesa, è da sapersi che la non men santa che dotta Compagnia di Giesù ha per suo instituto di fundare necessariamente tre case in ogni città capitale delle loro provincie, e sono: una per lo novitiato; l’altra per insegnare le buone lettere, non solo alli padri ma anco a’ secolari che imparar le vogliono, et a questa si dà titolo di collegio, essendo lecito a queste due di possedere rendite per lo mantenimento de’ soggetti; la terza è una casa detta professa, nella quale ad altro non s’attende che alla salute dell’anime con l’amministratione de’ sacramenti, con la predicatione e con altri santi esercitii che tendono al servitio di Dio et all’ajuto del prossimo bisognoso; et in questa casa non vi ponno essere rendite, ma solo si vive di elemosine.

[43] Tutto il Regno fa una provincia; città capitale è Napoli. Nell’anno 1551 vi venne il padre Alfonso Salmerone, e con altri compagni vi fundò ben presto il collegio, largamente sovvenuto dalla pietà de’ napoletani, e particolarmente di Roberta Carrafa contessa all’hora di Madaloni, come nel vedere questo collegio più diffusamente se ne dirà. Fundato il collegio sudetto, si diede principio alla fondatione della Casa Professa, quale si principiò nell’anno 1577 nella Strada di San Biagio, hoggi detta de’ Librari, ma non riuscendo comoda e facile a potersi dilatare, dalla Principessa di Bisignano della casa della Rovere dei duchi d’Urbino e da altre devote fu comprato questo famoso e gran palazzo del Principe di Salerno, che di già privato ne stava de’ suoi stati et haveri come ribelle.

A’ 15 d’agosto del 1584, col disegno e modello del padre Pietro [44] Provedo, giesuita espertissimo nell’architettura, vi fu posta la prima pietra e principiato un così famoso tempio, che si può stimare de’ più belli e maestosi dell’Europa, e detta pietra con li soliti riti fu benedetta da Lelio Brancaccio arcivescovo di Taranto, e situata da don Pietro Girone duca d’Ossuna, all’hora viceré nel Regno. Cominciorono i devoti così a contribuire ad un’opera sì pia, che in pochi anni si vide in piedi questa così gran machina, non restandovi da fare altro che la meravigliosa cupula. Nell’anno 1600 fu sollennemente consecrata dal cardinale Alfonso Gesualdo nostro arcivescovo, assistito da tutto il suo capitolo e da molti vescovi ed arcivescovi.

La cupula si vidde perfettamente terminata ed abbellita in modo che, per la maestà e bellezza dell’edificio e degli ornamenti, si rendeva di maraviglia agli occhi de’ [45] forastieri; confessando essere delle più famose, non solo in Napoli, ma nell’Europa. Nell’anno ottantotto, a’ 5 di giugno, ne fu comunemente lacrimata la ruina cagionata dal tremuoto, ond’io voglio qui descriverla, perché almeno in queste carte ne rimanga la memoria. Il tamburo, dal suo primo cornicione fino al secondo incluso, era d’altezza in palmi 55; l’interiore diametro era de palmi 66, l’esteriore palmi 80. Il gonfio, o tubbo, fino al cupulino era de palmi 102, parlando della proportione di dentro, essendo che per quella di fuori si inalzava in altri palmi 32 essendo che tra la proportione intrinseca ed estrinseca vi si caminava per mezzo con le sue scale fino al piano del cupulino, il quale havea d’altezza palmi cinquantasei fin sotto la palla di rame dorato, che havea di diametro otto palmi. Il diametro di detto cupulino nel di dentro era in nove palmi, nel di fuori [46] 32; stava poi vagamente adornato da otto colonne di piperno dolce, che con le loro basi e capitelli portavano l’altezza de palmi sedici e mezzo, de vasi, de balagusti, e di tutto quanto render lo potevano ammirabile. La cupula poi veniva compartita da sedici fascie, che nel di fuori formavano cordoni e nel di dentro eran piane, tutte istuccate e poste in oro; fra queste fascie il gran pennello del cavalier Giovanni Lanfranco dipinto v’haveva un Paradiso, che veramente era tale agli occhi corporali.

Hora è di bisogno ch’io scriva la cagione della sua ruina, perché ognuno stia attento quando si tratta di mantenere e riparare machine sì degne e riguardevoli, ad usarvi ogni più esatta diligenza e consiglio de’ buoni architetti, né attendere allo sparambio della spesa, perché pochi carlini sparambiati ponno caggionare danni di migliaia e migliaia di scudi.

[47] È da sapersi che, o per li tremuoti cagionati dal’eruttione del Vesuvio nell’anno 1631, o per difetto della stessa pietra che suole far qualche pelo, una colonna del cupulino fé motivo tale che fu giudicato doverla rifar di nuovo. Si chiamorno gli architetti: alcuni dissero che era di bisogno riponervene un’altra nuova della stessa pietra, altri che non era di bisogno di fare questa spesa, ma che sarebbe bastato farne una de mattoni, che poi incrostata al color dell’altre non si sarebbe potuto discernere dall’altre; prevalse questo parere e fu eseguito.

Nel tremuoto già detto, mentre il cupulino stava con la cupula saltando, venne meno la colonna rifatta, onde, mancandoli un piede, cadde; e l’altre colonne e pezzi, precipitando per l’altezza con violenza, servirno di catapulte dove arrivavano. Si roversciò dalla parte d’oriente, ed havendo fracassata [48] una gran parte della cupula, arrivorno su la volta del Cappellone di Sant’Ignatio, che faceva croce, e la fecero andar tutta giù; alcuni altri pezzi batterno nella volta maggiore di San Francesco, ed in quella della porta maggiore, e la sfondorno senza gran danno.

Arrivorno altri pezzi su le scudelle dell’ultima cappella dalla parte del’Epistola, cioè quelle della Visitatione e di San Carlo, e le buttorno giù, ruinando, in quella di San Carlo, le dipinture di Giovan Berardino Siciliano, ed in quella della Visitatione la più bell’opera che pochi mesi prima era uscita dal pennello del nostro Luca Giordani, che era una Giuditta che mostrava la testa d’Oloferne al popolo, che con suoi nemici combatteva; fatiga che di continuo manteneva gente incantata nell’osservarla.

In sei mesi e 18 giorni i padri rifecero il tamburo della cupula, la volta di Sant’Ignatio e rimediorno [49] l’altre, in modo che alli due di decembre cominciorno ad officiarla, havendo fino a quel tempo fatto i loro esercitii nella chiesa di Santa Chiara.

Darò contezza degl’artefici ch’han fatigato agl’ornamenti. Le volte stanno tutte ornate de stucchi dorati e dipinti da valent’huomini. Quella dell’altare maggiore, dove stanno espresse varie historie della Vergine santissima, alla quale sta dedicata col titolo dell’Immacolata Concettione, è opera del nostro cavaliere Massimo Stantioni. Quella del Cappellone di Sant’Ignatio stava tutta posta in oro e dipinta da Belisario Corentio. Quella del Cappellone di San Francesco Xaverio, dove similmente stanno dipinte molte attioni del santo, e quella che sta su la porta, dove si vedono molti miracoli espressi fatti al nome di Giesù, son opere di Belisario Corentio, ma in tempo [50] che l’età era avanzata e non faceva tutto di sua mano. E queste due volte anche stavano tocche nelle pitture della disgratia del tremuoto, come si disse.

La cupula, nella quale stava espresso il Paradiso, come fu detto, et i quattro angoli, ne’ quali meravigliosamente stan dipinti i quattro Evangelisti che sembrano quattro miracoli dell’arte, sono opera dell’immortal pennello del cavaliere Giovanni Lanfranchi.

L’altare maggiore, de ricchi e maestosi marmi, fu principiato col disegno e modello del cavaliero Cosimo Fansaga; ma perché questo grand’huomo passò a miglior vita, è stato in molte parti da altri variato, non senza qualche danno, in modo che non si può dire vero disegno del Cavaliere, e questo è stato il motivo di non vedersi fin hora terminato.

Passando poi per sotto l’organo dalla parte dell’Evangelio, vi si ve[51]de la Cappella della Madonna, ne’ lati della quale sono due famosissimi reliquiarii, dove si conservano 160 corpi di santi martiri, parte interi, et altre reliquie insigni, e fra queste la testa di san Barnaba apostolo e quattro teste delle compagne di sant’Orsola. La volta di questa cappella fu dipinta dal nostro Francesco Solimena, e fu la prima opera ch’egli fece a fresco, essendo in età d’anni 18.

Segue appresso la nobile cappella della famiglia Carrafa dei signori duchi di Madaloni dedicata al Crocifisso, tutta adornata di bellissimi marmi; la statua del Signore in croce che in essa si vede, con l’altre di sotto, sono opera del nostro Francesco Mollica, accorato scultore in legno. La cupula che sta su di queste due cappelle, dove si vede espressa la Sommersione di Faragone, la volta e gl’angoli furon dipinte dal cavaliere Giovan Battista Binasca.

[52] Da questa si passa al cappellone della nave maggiore, dedicato a Sant’Ignatio, ricco di sei grosse colonne di marmo africano e di breccia di Francia, e d’altri vaghissimi ornamenti fatti col modello e disegno del cavalier Cosimo, che dà meraviglia. Le due statue di marmo che stanno nelle necchie, più del naturale, che rappresentano Davide e Geremia, statue stimate dall’intendenti di studio e perfettione, sono di mano dell’istesso cavaliere; però questo sì bel cappellone fu in molte parti maltrattato dalla volta che cadde. Il quadro maggiore che in detto cappellone si vede, dove sta espresso Sant’Ignatio inginocchiato avvanti del Signore che apparisce con la croce in su le spalle, è opera del nostro Girolamo Imparato. I tre quadri che stanno sopra, dove stanno espresse alcune attioni del santo, sono stati dipinti dall’eccellente Gioseppe di Ribera detto lo Spagnoletto, ben[53]ché hoggi non vi siano stati riposti.

Segue appresso la ricca cappella, tutta di ben lavorati marmi, fatta a spese del reggente Ferrante Fornaro, luogotenente della Camera. Le statue che in essa si vedono sono opera di Michel’Angelo Naccarini; il quadro, nel quale sta espressa la Nascita del nostro Redentore, è opera del nostro Imparato; la cupula e la volta a fresco fu dipinta da Belisario Corentio in tempo che egli era giovane, et è delle più belle opere che egli in vita sua habbia fatto; l’arco che corrisponde alla nave sta dipinto a fresco, e l’altro che segue dal nostro cavalier Giacomo Farelli.

Segue appresso a questa l’altra cappella similmente ricca de marmi, che fu fatta a spese del regio consigliero Ascanio Muscettola. Le statue di marmo che in essa si vedono sono opere di Pietro Bernini e del Margaglia; il quadro di [54] mezzo, dove stanno espressi la Vergine con molti santi martiri, è opera del nostro divotissimo Giovan Berardino Siciliano, che non sapeva dipingere il volto della Vergine se non inginocchioni, per riverenza; e le dipinture a fresco che vi stanno, così nella volta come nella scudella, sono dell’istesso.

La facciata della porta da dentro [è] adornata di vaghissimi marmi mischii commessi; il vano di mezzo havea da essere dipinto dal nostro Luca Giordani, e di già havea fatto le macchie.

Si passa poi dal lato dell’Epistola e alla prima cappella presso la porta laterale, tutta incrostata di finissimi marmi, simile a quella delli Martiri che li sta dirimpetto, fatta a spese di Giovan Tommaso Borrello, che dal suo gran patrimonio fu accresciuto il monte per sovvenire i poveri vergognosi, qual monte si governa dalli fratelli della congragatione detta de’ Nobili eretta [55] in questa casa, come si dirà. In questa cappella vi sono quattro statue che rappresentano diversi santi: le due dalla parte dell’Evangelio sono del cavaliere Fansaga, l’altre due del Naccarini; il quadro dove sta espresso San Carlo Borromeo è opera del nostro Fabritio Santafede; le dipinture a fresco son opera del nostro Giovan Berardino.

Nell’altra che segue a questa, dedicata alla Visitatione della Vergine, similmente tutta de marmi commessi, fu fatta a spese di don Francesco Merlini regente di Cancellaria e presidente del Sacro Consiglio, huomo di profondissima dottrina. Il quadro che in essa si vede, nel quale sta espressa la Visitatione di Nostra Signora a santa Elisabetta con san Zaccaria e san Gioseppe, è opera del cavaliere Massimo, il quale, per essere passato a miglior vita, lo lasciò imperfetto. Fu terminato da un suo discepolo detto il Pozzola[56]no, giovane che, se non fusse stato prevenuto dalla morte, havrebbe uguagliato il maestro. La cupula, nella quale stava espressa l’attione di Giuditta con la fuga dell’esercito d’Oloferne, e dipinta dal nostro Luca Giordano, cadde (come si disse).

Si passa poi al famoso cappellone dedicato a San Francesco, copiato da quello di Sant’Ignatio che li sta al dirimpetto, e fu fatto tutto a spese di Beatrice Ursina duchessa di Gravina, come anco quello di Sant’Ignatio fu fatto tutto a spese del Principe di Venosa dell’antichissima casa Gesualdo. Il cherubino che sta sotto del quadro, con gl’ornamenti, fu fatto dall’egregio scultore Giulian Finelli; i putti che stanno nel finimento di detta cappella sono opera di Pietro Ghetti; il divoto e miracoloso quadro che sta nel mezzo, dove sta espresso San Francesco Xaverio, al quale va dedicata la cappella, fu opera del [57] buono Giovan Berardino Siciliano; i tre quadri che stanno sovra delle colonne, ne’ quali stanno espresse tre attioni del santo, furono dipinti da Luca Giordani.

Da questa si passa alla cappella dedicata a San Francesco Borgia, principiata a spese della famiglia Marchese de’ principi di San Vito et ancor non finita ne’ marmi. Il quadro che in essa si vede, dove sta espresso il Santo in atto di orare avvanti del Sacramento, fu opera del nostro Giovanni Antonio d’Amato.

La cappella che gli sta laterale, dedicata alla Santissima Trinità, fu adornata a spese d’alcune divotissime donne di casa Carrafa. Il quadro di mezzo, nel quale sta espressa la Santissima Trinità con molti gruppi di santi, fu dipinto dall’ammirabile pennello di Guercin da Cento; quel che sta dipinto nella volta e lati della cappella a fresco è opera del Corenzio, e delle belle che ha fatto; la cupula ancora non è dipinta.

[58] In questa chiesa vi sono due famosi organi; tutte le mura han da venire incrostate di marmi commessi a punto, come al presente si vedono i pilastri.

Dalla chiesa si può passare a vedere la sacristia, che né più ricca si può desiderare. Nella volta, tutta stoccata e posta in oro, le dipinture che vi si veggono a fresco, cioè nell’ovato di mezzo, nel quale vedesi l’Arcangelo Michaele che scaccia gli angeli rubelli, et altri, ne’ quali stanno espresse alcune attioni di sant’Ignatio e due mezzi busti, cioè San Pietro e Paulo, sono opera del nostro Anello Falcone, illustre dipintore de’ nostri tempi, e particolarmente nell’esprimere battaglie.

Nella cappella di detta sacristia vedesi un quadro dove sta espressa la Vergine santissima col suo Figliuolo in braccia, stimata da molti intendenti d’Anibale Caracci. Vi sono ancora due altri quadri, [59] uno dove se vede San Francesco nel monte d’Alvernia, e l’altro della Madre santissima col suo Bambino in braccio, da un lato san Gioseppe e dall’altro san Giorgio, che si credono opera del Rafael d’Urbino. L’armarii che stanno d’intorno, bizzarramente lavorati col disegno del cavalier Cosimo con i suoi finimenti di rame dorato, son tutti di un pretioso legno di noce che sembra finissimo ebano.

Si ponno vedere i guardarobba, e particolarmente quello dell’argento, che nel peso solo vi è la valuta di 150 mila scudi, ridotto in una quantità di statue, candelieri, et in abondanzia vasi e fiori dell’istesso metallo per tutte le cappelle, croci, una solo delle quali costa più di 4000 e più scudi, in famosi paleotti per li cappelloni, e quello dell’altare maggiore è tutto a gitto, che costa fra la materia e lavoro 10000 e più scudi, e fu fatto dall’argentiere Antonio Monte. Vi [60] sono molti altri vasi ingemmati, e fra questi un ostensorio, o sfera, per la Sacra Eucaristia, che non ha prezzo per le tante gemme che vi stanno incastate in oro. Nelle statue vi sono molte belle reliquie, come del nostro protettore san Gennaro, un’intiera mascella di san Luca Evangelista, un osso intero del braccio di santa Barbara, una costa di santa Caterina vergine e martire, di sant’Ignatio, di san Francesco Xaverio oltre de quella che sta nella statua collocata nel nostro Sacro Tesoro, essendo stato il santo adottato in padrone dalla nostra città per le molte gratie che a beneficio del publico n’ha ricevute, e particolarmente nell’ultimo horrendo contagio. Vi è ancora un tronchetto con due spine della corona di Nostro Signore, un pezzo del legno della Santa Croce situato in una croce di cristal di monte.

Si può vedere il guardarobba degl’apparati per ammirare deli[61]catissimi e ricchi ricami, e ne’ paleotti e negl’habiti per le messe, ma in una quantità grande; infine, come si disse, più ricca sacristia veder non si può, e molto tempo ci vorrebbe a descriverla tutta.

Il pavimento è tutto di marmi commessi; l’atrio di detta sacristia è ricco di bellissimi quadri, come del Santafede e d’altri, che osservar si possano.

Nel cortile di questo luogo, benché ancora non totalmente terminato, vi sono cinque oratorii o congregationi. Il primo, che sta nel mezzo, va col titolo di congregatione de’ Nobili; la volta sta posta in oro e tutta dipinta dal cavalier Lanfranchi, eccetto il quadro di mezzo, che fu dipinto dal nostro Giovan Battistello. Alla destra di detta congregatione ve n’è un’altra de ragazzi similmente di nascita nobile. Appresso questa un’altra d’artisti, che han pensiero d’andar [62] processionalmente publicando l’indulgenza della terza domenica d’ogni mese, nella quale vi concorre gran numero di persone a frequentare i sacramenti della penitenza, così de’ casali come della città. Alla sinistra ve ne sono due altre, frequentate da mercadanti et altri cittadini cospicui, et in queste vi stan situati bellissimi reliquiarii, nelli quali si conservano reliquie insigni, ognuna di queste congregationi have i suoi ricchi apparati et argenti per gl’ornamenti de’ loro altari.

Si può vedere anco la casa, la quale è molto bella e comoda, e particolarmente l’infermaria, nella quale non vi manca regalo alcuno per l’infermi, e vi è una farmacopea che doppo quella del collegio non si può desiderare più bella, et in essa si trova quanto da’ medici si può e si sa ordinare.

Vi è ancora un’ampia libreria, [63] benché fin hoggi non collocata dove ne sta il disegno.

Nel giardino vi è un’acqua molto fredda e perfetta.

Calando per la porteria, al dirimpetto vedesi la porta del cortile della chiesa regale di Santa Chiara, e sopra di questa porta, dalla parte della strada, vedesi una tendata a volta che va pendendo in giù di pietra dura et in più pezzi che dà meraviglia nel vedere come si sostiene senza base et appoggio.

Vedesi la chiesa. Questa fu con ispesa regia fundata assieme col monasterio, che per la sua grandezza sembra una mezza città, da Roberto Angioino re di Napoli e dalla regina Sancia d’Aragona sua moglie, e, benché non vi si veda una bizarra architettura ma una compositione alla gotica che biasmata veniva da Carlo duca di Calabria, figliuolo di Roberto, con tutto ciò s’ammira la diligenza e la fatica nella fabrica, essendo tutta [64] di pietre perfettamente quadrate commesse che, in trecento e tant’anni, queste muraglia – benché siano così alte e sostenghino lo smisurato peso del tetto che, oltre le travi che sono d’una meravigliosa grossezza, è coverto tutto di massiccie lastri di piombo – non han fato lesione alcuna.

Furono questa chiesa e monasterio principiati nell’anno 1310 e terminati nell’anno 1328, come si legge impresso nella parte del campanile che riguarda mezzogiorno, che così dice; e si riporta qua perché è difficile ad essere letto:

Illustris. Clarus. Robertus. Rex. Siculorum.
Sancia. Regina. proelucens; cardine. morum.
Clari. consortes. virtutum. munere fortes.
Virginis hoc. Claræ. templum. struxere. beatæ.
Postea. dotarunt. donis. multisque. bearunt.
Vivant. contẽtæ. Dominæ, Fratresque. minores.
Sancta. cum. vita. virtutibus. & redimita.
Anno. milleno. centeno. ter. sociato.
Deno. fundare. templum. cæpere. magistri.

Si nominano in quest’inscrittione i frati minori conventuali di san Francesco perché a questi frati fu data la cura della chiesa e l’amministratione de’ sacramenti alle suore; quali frati l’amministrorno fin nell’anno 1568, et in questo tempo, per ordine del santo pontefice Pio Quinto, ad istanza del re Filippo Secondo ne furono rimossi, et in luogo loro vennero i frati osservanti, e poscia, nell’anno 1598, in luogo di questi vi furono posti quelli della riforma, che al presente continuano.

Nel 1328, come si disse, compita la chiesa, nel 1330 da papa Giovanni XXI vi furono concesse tutte l’indulgenze e gratie che godono i [66] frati minori di san Francesco per tutto l’orbe, come nell’istesso campanile impresso si legge nella parte che riguarda occidente, che così dice:

Anno milleno. terdeno. consotiato.
Et. tricenteno. quo. Christus. nos. reparavit.
Et genus. humanum. collapsum. ad se. revocavit.
Eleuses. cunctas. concessit. Papa Joannes.
Virginis. huic. Clarę. templo. virtute. colendo.
Obtinuit, mundo. toto. quas. ordo. minorum.
Si. vos. sanctorum. cupitis. vitamq. piorum.
Huc. ò credentes. veniatis. ad has. reverentes.
Dicite, quod. gentes. hoc. credant. quæso. legentes.

Nell’anno poscia 1340 fu sollennemente consecrata con l’intervento di dieci prelati, tra vescovi et arcivescovi, come nell’i[67]stesso campanile si legge dalla parte che guarda oriente, in questo modo:

Anno. sub. Domini. milleno. Virgine. nati.
Et. tricenteno. conjuncto. cum. quatrageno.
Octavo. cursu. currens. indictio. stabat.
Prælati. multi. sacrarunt. hic. numerati.
G. Pius. hoc. sacrat. Brundusii. Metropolita.
R. q. Bari. presul. B. sacrat. &. ipse. Tranensis.
L. dedit Amalfa. dignum. dat. Cõtia. Petrum.
P. q. Maris. castrum. vicus. l. G. datque. Miletum.
G. Bojanum. murum. fert. N. venerandum.

Si fa ancora mentione, nell’altra parte che riguarda tramontana, di tutti i personaggi regali che a detta consecratione intervennero, e dice così:

[68]

Rex. &. Regina. stant. hic. multis. sociati.
Ungariæ. Regis. generosa. stirpe. creatus.
Conspicit. Andreas. calabrorum. Dux. veneratus.
Dux. pia. Dux. magna. consors. huicq. Joanna.
Neptis. regalis. sociat. soror. &. ipsa Maria.
Illustris. Princeps. Robertus. &. ipse parenti.
Ipse. Philippus. Frater. vultu. reverenti.
Huc. Dux. duratii. Karolus. spectat reverendus.
Suntq. duo Fratres. Ludovicus. & ipse. Robertus.

Essendo stato questo tempio e monasterio dedicato all’Ostia Sacra, o con altre voci al Santo Corpo di Christo, impetrò il detto re Roberto dal sommo pontefice che la processione del Sacramento, che usciva sollennemente nello stabilito giorno del giovedì doppo [69] l’ottava della Pentecoste, fusse passata per questa chiesa, dentro della quale havesse l’arcivescovo dall’altar maggiore data la benedittione alle suore et al popolo, come fin hora sta in uso con quell’ordine e riti puntualmente descritti dal nostro Cesare d’Engenio nella sua Napoli sacra.

Si nomina hora di Santa Chiara perché, essendo stato fundato il monasterio e dotato per lo mantenimento di 200 monache, v’introdusse la divota regina Sancia l’instituto del terz’ordine di santa Chiara, onde le monache dette venivano “le monache di santa Chiara”, e così di Santa Chiara ancora è rimasto il nome alla chiesa, la quale santa è stata adottata ultimamente in padrona della nostra città, e la sua statua d’argento con la reliquia sta collocata nel nostro Sacro Tesoro, et il monasterio a’ nostri tempi l’havemo veduto populato da 300 monache, ancorché hora non siano in [70] tanto numero, e chi dentro veder lo potesse vedrebbe una macchina meravigliosa. Vi è un chiostro di 18 archi in quadro; vi sono dormitorii che da un capo all’altro appena si può discernere una persona.

Si può hora entrare ad osservare la chiesa. Nell’altare maggiore vi si vedono quattro colonne minutamente intagliate a lumaca che sostengono gl’architravi, dalli quali pendono più lampane. Di queste colonne due sono di marmo e s’ha con certissima traditione che siano state del tempio di Salomone e di là venute in dono al re Roberto; l’altre due sono di legname, così bene intagliate da Bartolomeo Chiarini, intagliatore de quei tempi, che è impossibile discernerle senza toccarle.

Alle spalle di detto altare vi si vede un maestoso et elevato sepolcro, su del quale si scorgono due statue al naturale: una sedente, in habito et atto maestoso; l’altra che [71] giace, vestita coll’habito di frate minore. Ambe sono ritratti al naturale del re Roberto: di quel re che fu dottissimo in molte scienze e mecenate de’ virtuosi in quel secolo, in modo che tutti frequentorno la sua corte, e fra questi Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, dalli quali si sono ricavate molte notitie de quei tempi nelle cose della nostra città. Passò da questa vita a’ 16 di gennaro dell’anno 1343, havendo regnato anni 33 e giorni 15, e per la divotione che haveva all’habito di san Francesco, 18 giorni prima di morire egli sollennemente lo prese dal ministro generale nel Castello Nuovo, dove manteneva 10 frati, e fé la professione come frate minore, e vestito dell’habito sudetto fu portato a sepellire in questa chiesa regale, e però sopra del tumulo sta la statua già detta giacente vestita da frate minore, e vi si legge questa breve epigrafe:

[72]

Cérnite Robertum regem, virtute refertum.

Nel lato di detto sepolcro, dalla parte dell’Epistola se ne vede un altro, ancor maestosamente elevato, di Carlo Illustre, duca di Calabria, figliuolo di esso Roberto, quale morì a’ 10 di novembre dell’anno 1328 con eccessivo dolore del padre et afflittione de’ populi per la sua gran virtù, valore e bontà.

Si vede in questo sepolcro la sua statua al naturale maestosamente sedendo, et avvanti un vaso nel quale tiene uno stocco appoggiato, et in esso bevono assieme una pecora et un lupo per esprimere gl’atti della sua gran giustitia, mentre che havendo ricevuto dal suo gran padre il governo del Regno con titolo di general vicario, egli di continuo l’andava visitando, perché da’ potenti i miserabili non avessero ricevuti aggravii, et in fatti ne’ suoi tempi ogni provincia viveva in pace et in una sicura [73] tranquillità. L’epitaffio che vi sta così dice, e si riporta qui per non essere facile a tutti l’essere letto.

Hic jacet Princeps Illustris, Dominus Carolus primogenitus Serenissimi Domini nostri Domini Roberti, Dei Gratia Hierusalem, & Sicilia Regis incliti, Dux Calabriæ, & praefati Domini nostri Regis Vicarius Generalis, qui justitiae præcipuus zelator, & cultor, ac reipublica strenuus defensor. Obiit aute Neap. Catholicæ receptis Sanctæ Ecclesiæ omnibus Sacramentis. Anno Domini mcccxxviii. indic. xii. anno aetatis suæ xxx. regnante feliciter præfato Domino nostro Rege, regnorum ejus anno xxviii.

Nell’altro lato del sudetto sepolcro di Roberto, dalla parte dell’Evangelio, vedesi un altro sepolcro anco maestoso colla statua di Maria, sorella di Giovanna Prima, moglie di Carlo di Durazzo, appresso di Roberto del Balzo conte d’Avellino, indi di Filippo prin[74]cipe di Taranto, et imperator di Costantinopoli, col quale visse solo due anni, e morì nell’anno 1366, leggendosi nel suo epitaffio:

Hic jacet corpus Illustris Dominæ, Dominæ Mariæ de Francia Imperatricis Constantinopolitanæ, ac Ducißæ Duracii, quæ obiit Anno Domini mccclvi die xx. mensis Maij, indic. iv.

Appresso a questo segue il sepolcro d’Agnese, quale hebbe per suo primo marito Can della Scala, e per secondo Giacomo del Balzo principe di Taranto et imperator di Costantinopoli, e con questa sta sepolta Clemenza sua minor sorella, morta dodeci anni prima, ambe figliole della già detta Maria e di Carlo di Durazzo, che sta sepolto, come si disse, nella chiesa di San Lorenzo. Vi si veggono le loro statue con manti alla regale seminati di gigli dorati, colle corone in testa. Vi si legge:

Hic jacent corpora Illustrissimarũ [75] Dominarum Dominę Agnetis de Francia Imperatricis Constantinopolitanæ, ac Virginis Dominæ Clementiæ de Francia filiæ quondam Illustrissimi Principis Domini Caroli de Francia Ducis Duracii.

E seguitando per le cappelle della parte dell’istesso Evangelio, vi si vedono belli et antichi sepolcri, e fra l’altri, nella cappella dell’antichissima e nobile famiglia Sanfelice, dove sta un quadro col Redentor crocifisso, la Vergine, san Giovanni e Maria Maddalena, dipinto dal cavaliere Giovanni Lanfranchi, vi si leggeva la seguente inscrittione:

Hic jacet corpus Domini Ludovici primogeniti Domini Caroli Ducis Duracii, & Dominæ Mariæ filiæ Domini Caroli Ducis Calabriæ, & Ducissæ Duracij, qui obiit xiv. Januarii. Anno Dom. mcccxliii. indic. ii.

E questa epigrafe non si sa dove sia trasportata. In questa medesima cappella [76] vedesi un’urna o cassa sepolcrale di marmo egreggiamente intagliata con bene intese figure, opera senza dubbio antichissima, in tempo de’ greci o de’ romani; e fu questa ritrovata nella terra di San Felice, che da questa casa prese il nome, e poscia qua trasportata: serve per sepolcro dell’osse d’un cavalier di questa casa. Sta sepolto in questa cappella il non mai a bastanza lodabile, e per la bontà e per le lettere, Giovan Francesco San Felice, reggente della Cancellaria, e del Collateral Consiglio.

Si stanno lavorando in marmo le memorie di quell’anima grande di monsignor Giuseppe Maria San Felice arcivescovo di Cosenza, che con tanta gloria fece le più inportanti e le prime legationi di Santa Chiesa, e passò a miglior vita nella sua propria chiesa, per collocarle in detta cappella gentilitia.

Vi è un’altra bella memoria posta dal Reggente al suo figliuolo [77] Alfonso, con un quadro di Giovan Berardino Siciliano; vi sono altre memorie d’huomini illustri della famiglia poste da monsignor Giovan Tomase vescovo della Cava, che, tra le molte importantissime cariche che hebbe dalla corte romana, fu commissario del sacro Concilio di Trento.

Vedesi la cappella della nobilissima famiglia Del Balzo, con belle inscrittioni e sepolcri, quale fu restaurata et abellita da Girolamo del Balzo, figliuolo di Francesco, dal quale fu fundato (come si disse) il monasterio di San Giovanni Battista.

Presso la porta minore, fra gli molti sepolcri che vi si vedono, ve n’è uno ben intagliato et adornato dal nostro Giovanni di Nola, con una bellissima statua di donna, et in un epigramma si legge un bellissimo epitaffio, composto da Antonio Epicuro, dottissimo poeta napoletano, che comincia:

Nata heu miserum, misero mihi nata parenti.
Unicus ut fieres, unica nata dolor
[78] Nam tibi dumq. virum tædas, talamumque parabam
Funera, & inferias anxius ecce paro
Debuimus tecum poni, materque paterque,
Ut tribus hæc miseris, urna parata foret,
At nos perpetui gemitas tu nata sepulcri
Esto haeres, ubi sic impia fata volãt
Antoniæ filiæ charissimæ, et c.

Dirimpetto a questo vi è la memoria d’Antonio Epicuro qui sepolto, fattoli da Berardino Rota suo grand’amico, che così dice:

Antonio Epicuro, Musarum alumno
Berardinus Rota
Primis in annis studiorũ socio posuit
Moritur octuagenarius, unico sepulto filio
In unc ediu vivere miser cura
MDLV.

Vedesi la cappella ben ornata de marmi col disegno del cavalier Cosimo, dove s’adora l’ima[79]gine della Vergine col Bambino Giesù in braccio, imagine miracolosissima, e sta dipinta al muro del pilastro dal pennello dell’antico Giotti fiorentino, che superò il suo maestro Cimabue; et è da sapersi che quasi tutte le cappelle, e parte della chiesa, erano dipinte di mano di quest’artefice che fu chiamato in Napoli dal re Roberto. Furono poscia coverte di bianco ad instigatione del regente Barionuovo, all’hora delegato di questo luogo, col persuadere le monache che quelle dipinture rendevano la chiesa oscura. Vi restò solo questa imagine, la quale fu ritoccata per opera d’un frate che questa cappella governava, ed alcun’altre figure che stanno con una retiglia avvanti in un pilastro sotto dell’organo.

Presso di questa cappelletta vi si vede la sepultura di Ramondo Cabano, che da povero schiavo divenne siniscallo regale, et in questo [80] modo: fu egli moro comprato da Raimondo Cabano, cavaliero d’antichissima nobiltà e siniscallo del re; essendosi battezzato, il padrone li pose il suo proprio nome, e servì così bene che Raimondo lo trattava come suo figliuolo. Accadde poi ch’una tal Filippa catanese, moglie d’un pescatore, serviva in corte di Roberto da lavandaja; era così accorta che si fece la strada alla benevolenza di molti. Fu data per balia a Carlo duca di Calabria, servì con tanta diligenza che venne in grandissima riputatione, essendo vedova fu data in moglie al detto Ramondo Cabano che arrivò a posti grandi et ad essere gran siniscallo della casa regale, procreò molti figliuoli, et il primo, che chiamossi Roberto, non solo si vide siniscallo di Sicilia e maestro della casa regale, ma anco conte d’Evoli, e Sangia sua figliuola divenne contessa di Morcone. Di più Filippa, [81] Roberto e Sangia erano i dispositori della regina Giovanna, ma havendoli la fortuna troppo inalzati, provorno il precipitio. Fu strangolato il misero re Andrea nella città di Aversa, come si disse; si stimò per ordine della regina moglie, a persuasione di Filippa e de’ suoi figliuoli. Furono tutti tre questi fatti prigioni dal gran giustitiere del Regno Ugo del Balso, e, posti alla tortura, confessorno il delitto; per lo che vennero condennati nudi ad essere tenagliati per la città sovra di due carri. Filippa, per essere vecchia, morì prima di arrivare al patibolo, ma, morta, li furono strappate le viscere ed appese con parte del corpo nella Porta Capuana; Roberto e Sancia, nel mezzo del mercato attaccati ad un palo, furono brusciati, benché alcuni de’ nostri scrittori scrivono che fussero stati decapitati.

Girando dall’altra parte delle cappelle, nel corno dell’Epistola, [82] molte di queste cappelle erano d’antiche e nobilissime famiglie, ma, perché da un pezzo estinte e senza heredi, dalle monache sono state ad altri concedute, quali han fatto levare molti antichi sepolcri di marmo che in esse vi stavano.

S’arriva nella cappella presso l’organo, dove sta la porta per la quale s’entra al chiostro de’ frati, et in questa vi era una bellissima tavola nella quale vi sta dipinto San Giovanni apostolo e San Luca evangelista con un picciolo quadro in mezzo, dove si vede la Regina de’ Cieli col suo Bambino nel grembo: opera che desiderar non si può più bella et eccellente di Silvestro Buono nostro napoletano, hora sta trasportata nel muro del maggiore altare presso il sepolcro di Carlo duca di Calabria.

Segue appresso di questa la cappella dove sta situato l’organo, che è delli perfetti che trovar si possano, e fu opera del Moro. I [83] portelli che vi si vedono, dove stanno espressi da fuori Sant’Antonio e Santa Chiara, e da dentro la Vergine annuntiata, furono dipinti nel 1546 da Pietro Nigrone nostro napoletano.

Dentro di questa cappella vi sta sepolta la bambina Maria, figliuola di Carlo Illustre duca di Calabria, e su la picciola urna se ne vede la statua coronata e col manto sparso di gigli dorati, coll’epitaffio che così dice:

Mariæ Karoli incliti Principis Domini Roberti Hierusalem, & Siciliæ Regis primogeniti, Ducis qu. Calabriæ filiæ, hic corpus tumulatum quiescit, anima suscepto sacro lavacro, infantilis corpore, dũ adhuc ordinetur, soluta fruente divinæ visionis. luminis claritate. post judicium corpori, incoruptibili unienda.

È anco da sapersi che il Sacro Consiglio, prima che fusse unito, come si disse, con gl’altri tribunali nell’antico Castello di Capua[84]na, ne stava nel chiostro predetto dei frati, et in questa cappella i consiglieri, prima d’entrare a trattar negotii, ascoltavano la santa messa, e fino a’ nostri tempi vi stavano i sedili, e questo gran tribunale vien chiamato dal nostro monarca, nelle proviste che egli fa de’ ministri, Consiglio di Santa Chiara.

Passata questa cappella, vedesi dipinta nel muro la Vergine santissima con un Bambino seduto in terra, con un altro santo dall’altra parte. Questi sono avvanzi delle dipinture del Giotti.

Sopra la porta della sacristia, più avvanti, vi sono tre altri Santi del medesimo autore, e vi si vede il ritratto del Beato Filippo di nation francese, della città d’Aquentio nella provincia di Marseglia, frate minore conventuale, il quale visse e santamente morì, e fu in questa chiesa sepolto, né si sa dove.

Appresso della sacristia vedesi un sontuoso sepolcro, nel quale vi [85] sta una statua giacente vestita alla regale, col manto sparso di gigli dorati e corona in testa; e perché l’inscrittione sta guasta, ha dato diversamente da dire a’ nostri scrittori. Alcuni vogliono che sia di Giovanna Prima, figliuola di Carlo Illustre, come si disse, che, in vendetta d’havere fatto strangolare Andrea Ungaro suo marito, Carlo Terzo la fé morire nel medesimo modo e nell’istesso luogo. Altri che fusse stata affogata sotto d’un guanciale nella città di Muro, e che poi fusse stato trasportato in Napoli il suo cadavere, dove stiede per molti giorni insepolto. Altri scrivono che questo sia non di Giovanna, ma di Maria di Valois, figliuola di Carlo conte di Valois e moglie di Carlo Illustre duca di Calabria, e lo fundano in quello che scrisse Teodorico, secretario del pontefice Urbano VI, che dice che Giovanna fusse stata menata dal Re carcerata nel castel di Sant’[86]Angelo del Monte Gargano e che ivi, mentre stava facendo oratione in una cappella del medesimo castello, fu da quattro ungari strangolata e sepolta poscia nella chiesa di San Francesco, che la medesima regina per sua divotione haveva nel detto monte fatta edificare, dove fin hoggi se ne vede il sepolcro de marmi colla sua statua et una brevissima inscrittione, che consiste in due sole lettere puntate: R. et I., che dir vogliono “Regina Joanna”.

In alcuni si trova scritto il seguente esastico, che dicono essere quello che stava in detto sepolcro, che così dice:

Inclyta Partenopes, jacet hic Regina Joanna Prima, prius felix, mox miseranda nimis, quam Carolo genitā, multavit Carolus alter, qua morte illa virum sustulit ante suum mccclxxii. xxii. Maii v. indic.

Però questa io la stimo apografa, sì per lo stile che non è di quei [87] tempi, sì anco perché mi pare inverisimile haverle eretto un così maestoso sepolcro e poi ponervi un’inscrittione così svergognata.

Nel pavimento vi era una gran quantità di sepulture: hoggi la maggior parte sono state tolte via.

Vi sono in questa chiesa molte belle reliquie, e fra l’altre de’ capelli e del latte della Beata Vergine, una gamba col piede dell’apostolo sant’Andrea, del dito di san Giovanni Battista, un braccio e costa con altre molte reliquie di san Lodovico vescovo di Tolosa fratello del re Roberto, un braccio di santa Caterina vergine e martire, la testa di santa Cristina vergine e martire, delli capelli, dell’habito di santa Chiara, del gutture e costa di sant’Elisabetta figliuola del re d’Ungheria, di san Girolamo, di sant’Anna, di sant’Antonio abbate, di santo Stefano protomartire, della Maddalena, et altre che vi si conservano.

In questa chiesa vi è una gran quan[88]tità d’argenti, e molti di questi, antichi, fatti in tempo del re Roberto. Vi è ancora una famosissima e gran custodia d’argento, che s’arma solo nella festa solenne che si fa del Sacramento, e questo è quanto si può dare di notitia di questa chiesa.

Nell’uscirne a destra vedesi il campanile, tutto di durissimi travertini di Caserta, quale fu principiato nel gennaro del 1328. Et essendo stato fatto tutto quello che è di travertini, restò per la morte del Re imperfetto. Il remanente che in esso si vede è stato fatto a spese del monasterio.

Usciti nella strada, tirando avvanti dalla parte destra, attaccata alla Casa Professa, vedesi la chiesa di Santa Marta, la quale si vanta fundata dalla regina Margherita, madre di Ladislao re di Napoli, circa l’anno 1400, e per renderla più frequentata vi eresse una confraternità, dove s’ascrissero i primi [89] signori del Regno, e fin hora vi si conserva presso del sacrista un famoso libro in pergameno dove non solo detti signori s’annotavano, ma vi facevano dipingere l’insegne delle loro famiglie, et è degno d’essere veduto, perché dà notitia dell’armi vere di molte famiglie estinte e di molte altre che sono state variate. Ne’ tumulti poi popolari dell’anno 1646 restò questa chiesa fra le trincee regie e populari, fu saccheggiata e data al fuoco che la consumò, e con questa occasione si perderno molti quadri, e particolarmente quello dell’altare maggiore, che era una tavola della Resurrettione di Lazaro, che usciva involto nel lenzuolo dal sepolcro, che dava meraviglia agl’Apostoli. Eravi ancora Marta e Maddalena buttate a’ piedi del Redentore: opera del nostro Cesare Turco, et opera dagl’intendenti stimatissima. Dalle carti che andavano a torno ne è stato ricavato un [90] quadro, che sta in una cappella dalla parte dell’Epistola.

Nella Cappella de’ Ricamatori un’altra famosissima tavola, nella quale stava espressa la Vergine santissima col suo Figliuolo in braccio e sotto l’evangelista san Luca, opera di Bartolomeo Guelfo detto il Pistoja, che fiorì circa gl’anni 1520.

Si perderono ancora due bellissimi e naturali ritratti in tavola del re Ladislao e di Margherita sua madre; hora il quadro che sta nell’altare maggiore, dove sta espressa Santa Marta, fu principiato dal nostro Andrea Vaccari, e perché restò imperfetto per la morte d’Andrea, fu terminato da Niccolò suo figliuolo, giovine di valore e di talento.

Essendo rimasta questa chiesa consumata dal fuoco et in abbandono, non so se la pietà o interesse del Principe della Rocca, della nobilissima casa Filomarino, che vi haveva il suo palazzo dirimpet[91]to, dubitando che per l’impotenza de’ fratelli, dalli quali la chiesa era stata governata, non andasse in altre mani e col tempo gli dassero soggettione, egli la rifece a sue spese, ricoprendola di nuovo, con patto che non potessero alzare più la chiesa e le case di quello che per lo passato stavano. Hora, e con le poche rendite che a detta chiesa sono rimaste, e con l’ajuto d’alcune comunità de ricamatori e d’altri che v’hanno le cappelle, è stata tutta abbellita de stucchi e d’altri nobili ornamenti.

Usciti da questa chiesa, s’arriva al quadrivio. La strada che va giù chiamasi Vico di San Francesco delle Monache e di San Cosmo e Damiano, o, per il più volgato, de’ Banchi Nuovi, perché va a terminare a questo luogo, come nella seguente giornata si vedrà.

Et in questa strada vi si può vedere per primo il monasterio di San Francesco, la muraglia del quale, [92] che serve di clausura, in una parte sta nella strada maestra. Questa chiesa e monasterio mostrano la loro fundatione fin dall’anno 1325, e con questo principio. Mentre fabricando si stava la chiesa e monasterio di Santa Chiara, Sancia e Roberto vi presero vicino una casa e vi collocarono alcune monache, deputandole dispensiere delle regie limosine. Nell’anno poscia 1325, dalla città d’Assisi, capitò in Napoli una devota religiosa del terz’ordine di san Francesco. Portava questa seco una tela, nella quale stava dipinta l’effigie al naturale del serafico patriarca. Un giorno, mostrandola alle già dette monache despensiere, talmente l’animò, che risolsero di edificarli una chiesa e, comprata una casa vicina, l’effettuarono; e con la chiesa anco edificarono un picciolo monasterio, nel quale riceverno per loro sorella la monaca d’Assisi e, da questa, loro fu pro[93]posta la regola di santa Chiara, con un vivere da vere e povere figliuole di san Francesco. Fu accettata e posta in osservanza. Fu di tanta edificatione che in breve si vide il monasterio populato dalle prime nobili della città; v’entrò fra queste Madalena di Costanzo, della nobilissima famiglia che gode nel seggio di Portanova, che santamente visse e così morì, dando segni delle sue soprafine virtù et in vita e doppo morte. Fu poscia la chiesa riedificata di nuovo et adornata di vaghissimi marmi commessi, con belle dipinture nella suffitta: opere del nostro Andrea Malanconico, allievo del cavalier Massimo.

La tavola che sta nell’altar maggiore, nella quale sta espressa la Transfiguratione del Nostro Redentore, sta dipinta da Marco di Siena. Questa chiesa è ricca d’argenti, e per l’altare maggiore e per tutte le cappelle ha bellissimi ap[94]parati di ricami, ma soprattutto non vi è luogo di monache che l’avanzi nella pulitia, nella quantità e nei lavori delle biancherie.

Passato questo monasterio, vedesi avvanti la porta minore del cortile di Santa Chiara che tira verso Mezzo Cannone, come appresso si dirà. Questo chiamasi il Vico di Santa Chiara, si diceva prima della Giojosa, di Berardino Rota, perché v’erano l’habitationi di quei signori; dicevasi anco il Vico di Celano per la chiesa di Santa Caterina, che da questa famiglia fu fundata. Hora dicesi del Pallonetto, essendo che in questo vico nell’estate si gioca al pallone et alla pilotta, da che fu abolito il luogo fabricato dal Principe di Conca a San Pietro a Majella (come si disse).

A destra di detto vicolo, dirimpetto alla clausura del monasterio, vedesi il palazzo di Berardino Rota, nostro nobile napoletano, gran letterato de’ suoi tempi e [95] poeta insigne, così nella latina come nella volgare favella, e che stiede in grandissima stima presso di tutti li letterati de’ suoi tempi, come attestano l’opere sue che diede alle stampe. Arricchì Berardino questo palazzo di bellissime dipinture e statue antiche, facendo imprimere nell’adito delle scale: Berardinus Rota Antiquos lares statuis exornavit. La facciata stava dipinta da Polidoro, ma dal tempo già sta consumata in modo che apena si conosce essere stata colorita. Vi erano due suffitti di camerini, dipinti dall’istesso Polidoro con varie historiette in chiaro oscuro, ma, dovendosi rifare gl’astrichi e mutar le travi, andorno giù. Essendo state conosciute queste pretiose dipinture, pervennero in potere di Gasparo Romuer, delle quali la maggior parte ne mandò in Francia. Ne restorno dodeci, le migliori, in potere di esso Gasparo, che [96] molto de quadri si dilettava, e doppo la morte di questo furono vendute a dolce prezzo al Marchese de los Veles, all’hora viceré, che le trasportò in Spagna. Delle statue non ve ne sono rimaste che i fragmenti che vi si vedono, ma le migliori e più nobili sono state trasportate altrove. Segue appresso di questo il palazzo che fu del Principe di Stigliano, della famiglia Carrafa, che poi passò nella famiglia Barrile dei duchi di Caivano, hoggi estinta ne’ maschi. In questo palazzo vi si conserva una ricchissima suppellettile e, fra questa, quadri pretiosissimi che, per non allungarmi, tralascio di descrivere. Attaccato a questo palazzo vi è un’antica chiesetta, dedicata et estaurita della famiglia Barile. Questa fu ruinata in tempo de’ rumori populari. Fu poscia riedificata dalla padrona del palazzo (come si disse).

[97] Seguono a questi altri belli palazzi di famiglie nobilissime, ma, tornando al quadrivio di Santa Marta, l’altra strada che va sopra chiamasi di San Sebastiano.

Tirando avvanti, il primo palazzo che si vede a sinistra fu questo del Principe di Bisignano, della gran famiglia Sanseverino; hora è passato nella famiglia de’ Filamarini de’ signori prencipi della Rocca e duchi di Perdifumo, che vollero sempre accrescere la loro antica nobiltà solo con attioni nobili e virtuose. Fu questo fatto col disegno di Francesco Mormandi.

Questo sì nobil palazzo fu ne’ populari tumulti molto ridotto a male, essendovisi fortificato il popolo, ma, passati i tumulti, dalla generosità di padroni non solo presto fu rifatto, ma con molta spesa accresciuto de nobili e commodissime habitationi, in modo che numerar si può tra gli più belli edifi[98]cii della nostra città; e dal principe Giovan Battista padre, e dal presente principe Francesco figliuolo, fu fabricato un vaso per galeria, dove han ridotto le dipinture ed altre cose degne d’esser vedute; ricca de 200 pezzi de quadri, quasi tutti opere d’artefici di prima e seconda riga, che qui si nominano per alfabeto: d’Andrea del Sarto, d’Alberto Durer, d’Anibale Caracci, d’Andrea Sabatino detto di Salerno, d’Agostino Caracci, d’Alessandro Veronese, del Bassà Vecchio, del Barocci, del Baur, del Borgianni, quadro inestimabile di Brucolo Vecchio, di Benedetto Garofalo, de Bordonone, del Cangiasi, del Caravaggio, del Cortonese, del Cornelio, del Compagno, di Carlo Venetiano, del Cotignola, del Francia Biggio, del Falcone, del Finoglia, di Francesco del Vua, di Giuseppino, di Giovan Giacomo Sementa, di Gioan Bellino, di Guercino da Cento, de Giovan de’ Calchi, di [99] Giorgione, di Giovan Battista Curatolo, di Giulio Romano, de Giacomo Conti, de Guido Reni, de Giorgio Vasari, de Giacomo de Pontiano, d’Isdraele, de Luca d’Olanda, del Lanfranchi, de Lodovico Caracci, de Leonardo da Vinci, del Mantuano, de Melchior, de Monsù de Vouet, de Madama Garzona, di Marco da Siena, de Monsù de la Flor, de Perino del Vaga, di Pietro Peruggino, del Palma Vecchio, del Pistoja, di Polidoro, di Paulo Veronese, di Rafaele, del Santafede, dello spagnuolo Giuseppe de Ribera, de Scipione Caitano, della scola antica de Fiandra, de Luca d’Olanda, de Titiano, de Tintoretto, del Tempesta, del Vannich, del Zingaro, per suo nome Antonio Solario; ed oltre de questi vi sono da più di trecento ritrattini in picciolo, de diversi eccellentissimi dipintori, d’huomini e di donne insigni e di memoria. Vi si conservano in uno armario d’ebano nobil[100]mente lavorato tutte le scritture autentiche che ponno autenticare la grandezza di tutta la casa Filamarina, et in questa è d’ammiratione la diligentissima attentione del principe Giovan Battista in unirle in modo che può servire d’esempio a chi ha genio nobile di lasciare a’ posteri esempi d’honori e memorie di nobilmente oprare. Vi si conservano molte medaglie e camei, e fra questi uno di Carlo V, eggreggiamente scolpito, che nel peso è di due oncie, cosa che ha del singulare. Vi sono sette ossa di crisomolo intagliate dall’una parte e dall’altra, con un altro che è mezzo da perseca, che [né] simili né in questa quantità veder se ne ponno in altra galeria o museo. Vi si ponno vedere altre galanterie, e di cristal di monte e di argenti, che, benché habbiano del moderno, ponno essere stimate curiose. In un camerino si conservano molti altri scritti in pergameno che si stimano della [101] regal libraria d’Alfonso Primo d’Aragona per l’armi aragonesi che in essi miniate si vedono; conservi Dio il virtuoso padrone perché l’accresca a decoro della nostra patria.

Segue a questo il palazzo della Serenissima Republica di Venetia, che hora serve per habitatione de’ suoi residenti. Dirimpetto a questo, vedesi un vico che chiamato viene di San Giovanni Maggiore, perché a dritto va a spuntare alla chiesa di questo titolo.

Passato il vico già detto, segue il palazzo delli signori Prencipi della Ruccella della casa Carafa, che porta per divisa la spina. Questo palazzo si deve osservare non per la struttura, benché sia magnifica, ma per gli heroi che in esso sono nati ed allevati; e, lasciando gli antichi, che si ponno sapere dalla storia scritta e stampata di tutta la casa Carafa, in tre volumi in foglio, dal nostro eruditissimo signor Biase [102] Altomare, hoggi degnissimo consigliere nel Consiglio di Santa Chiara, dirò di quelli che nell’età mia sono stati da me conosciuti. Don Geronimo, secondo principe di questo titolo, havendo havuto per moglie Diana Vittori, nipote di papa Paulo V Burghese, diede al mondo 11 figliuoli: tre femine, che furono Margarita, data in moglie al Principe de’ Cariati Spinelli; Maria Felice, che volle esser monaca domenicana nel monasterio di San Giovanni; Francesca Maria, che fu ammogliata al presente Marchese del Vasto. I maschi furono otto: il primo fu Fabritio, terzo di questo titolo, il quale per le sue gentilissime maniere fu la delitia della nostra città; il secondo fu Carlo, che, portatosi in Roma, a forza delle sue valorose fatighe nelle legationi e nuntiature, fu da papa Alesandro VII assunto alla porpora nel titolo di Santa Susanna; il terzo fu Gregorio, priore della [103] Ruccella, e poscia, per le sue gran maniere, creato dalla sua religione gran maestro di Malta; il quarto fu Giovanni, che morì arcivescovo di Russano; il quinto fu Scipione, che fu vescovo d’Aversa, e la chiesa fu rassignata a suo beneficio dal cardinal Carlo suo fratello; il sesto fu Francesco, che si chiuse tra’ padri teatini e, rifiutando ogni dignità più volte offertali, morì nella sua religione con fama di santità; il settimo fu Francesco Maria, cavaliere de tratti corrispondenti alla bellezza dell’aspetto. Fu questo priore della Ruccella e general delle galee di Malta. L’ottavo fu il gentilissimo don Fortunato, hora vivente e creato cardinale dalla santa memoria d’Innocentio XI del titolo di Santi Giovanni e Paulo.

Da Fabritio III principe primogenito di Geronimo, havendo per moglie Agata Branciforte, figliuola del Principe di Butero in Sicilia, generò più figliuoli. Il primo fu [104] don Girolamo, e d’altri, che premorirno al padre, vi rimase solo don Carlo, che al presente è signore di questa casa ed herede non solo delle facultà paterne, ma dello ricco stato di Butero in Sicilia per cagion della madre. È questo signore dotato d’un senno impareggiabile, come s’attesta da molte lettere scritte dal nostro Gran Monarca delle Spagne per i gran serviggi dalle sue ottime dispositioni ricevuti, e d’una soda e christiana letteratura, come parlano l’opere da lui scritte e date alle stampe, così nella buona e santa politica, come anco nelle matematiche ed in altre materie atte a rendere un huomo buon cattolico. Fece questo signore per il suo re una imbasciaria estraordinaria in Roma a sue spese, che più splendida né più maestosa per inanzi fu vista, né si è veduta doppo. Esaudisca Dio i voti miei in concederli prole a perpetuare una così gran casa.

[105] Dirimpetto a questo, dalla sinistra, che spunta nella Piazza di San Domenico, vedesi un palazzo antico con porte e finestre alla gotica, che edificato fu dalla famosissima famiglia del Balzo, famiglia delle più ricche e potenti del Regno. Pervenne poi in potere d’Antonello Petrucci, di quel’Antonello che, da povero ragazzo humilmente nato nella città di Tiano, arrivò per il suo raro ingegno e virtù ad essere non solo primo secretario, ma assoluto dispositore del re Ferdinando Primo, in modo che cosa non si faceva, per grande che si fusse, che per le mani d’Antonello non fusse passata; e per questo ne divenne così ricco e potente, che uguagliar si poteva ad ogni più gran barone del Regno, apparentandosi con li primi della nobiltà; ma o le smoderate ricchezze o la potenza li suggerirno stimoli d’ambitione, che però con altri baroni ordì una fiera congiura contro del [106] suo re benefattore; ma poco doppo ne pagò il fio, perché, fatto prigione, gli fu miseramente mozzo il capo avvanti la porta del Castel Nuovo; et in questa casa la detta congiura fu principiata. Vedesi hora posseduta da’ signori Aquini de’ prencipi di Castiglione, che ultimamente apparentorno con l’antichissima casa de’ signori della Mirandola.

Vedesi appresso la bella piazza detta di San Domenico, stando avvanti la chiesa a questo santo dedicata. Sta questa coronata di belli e nobili palazzi, come è quello che fu de’ signori Spinelli de’ duchi della Celenza, hora de’ monaci di San Martino, che l’han fatto mutar facciata per essere stata tocca dal tremuoto del 1688; l’altro de’ signori Sangri de’ duchi di Casacalenda; dalla destra il palazzo che già fu de’ signori Duchi di Vietri, similmente della famiglia di Sangro, hora passato alla famiglia Car[107]rafa, e questo è stato il primo palazzo che sia stato fabricato in Napoli in questa sorte d’architettura e bellezza, perché prima erano tutte barbaramente composte, come si disse, alla gotica e senz’ordine; et il modello e disegno di questo fu fatto da Giovan Francesco Mormandi, architetto fiorentino che venne a stanzare in Napoli. Questo palazzo havea un famoso cornicione di piperno. Il tremuoto già detto ne buttò giù una parte, onde dagli architetti, che in quel tempo ferno più danni che dal tremuoto istesso, fu ordinato che si togliesse tutto.

Attaccato a questo vi è il famoso palazzo de’ più comodi e maestosi della nostra città, dell’istessa famiglia di Sangro de’ signori prencipi di San Severo che al presente lo posseggono, et attaccato a questo palazzo il Patriarca d’Alessandria, di questa famiglia, vi fabricò una bella chiesa col titolo di [108] Santa Maria della Pietà, volgarmente detta la Pietatella, e vi si veggono molti nobili e sontuosi sepolcri con bellissime statue così antiche come moderne, che conservano l’ossa di molti heroi di questa famiglia; e dal palazzo per un ponte si passa in questa chiesa ad ascoltare la santa messa e per altri spirituali esercitii.

In mezzo della piazza sudetta vedesi, col disegno del cavalier Fansaga, principiato un famoso obelisco in honore del glorioso patriarca san Domenico; e, cavatosi per fare i fondamenti, vi si trovorono i stipiti e parte dell’arco dell’antica Porta Cumana o Puteolana, e parte dell’antiche muraglia della nostra città, quale porta fu rimossa da Carlo Secondo nella settima ampliatione, che fu delle maggiori, nell’anno 1300, e trasportata, come dicemmo, passata la Piazza della Casa Professa, e da questo luogo in su verso la Strada [109] di Toledo, tutta si può chiamar città nuova dall’anno 1300 fino ad hoggi; et ad osservare quest’anticaglia vi calorno molti anticarii, e particolarmente il nostro virtuosissimo Francesco Picchiatti, il quale anco la disegnò in carta. Da questa porta entrarono i saraceni, che furono ributtati (come si disse nell’antecedente giornata), e da questo luogo principiava la regione di Nilo, o Nido, e tirava avvanti.

Si può salire a vedere la chiesa di San Domenico per le scale che vi si veggono, e questa porta hoggi dicesi minore, ma prima era la porta maggiore della chiesa che v’era.

È da sapersi che anticamente vi era una chiesa dedicata al glorioso San Michele, con un monasterio di monaci basiliani et un hospidale per li poverelli infermi, e chiamavasi questo luogo San Michele a Marfisa per la famiglia di questo nome che fundata l’haveva, opure che [110] vi fusse vicina d’habitatione.

Nell’anno poi 1116 dal sommo pontefice Pascale Secondo fu tolta da’ basiliani e conceduta alli monaci di san Benedetto. Nell’anno poi 1227 nacquero fra’ detti monaci alcune differenze circa gl’affari della religione. Il pontefice Gregorio Nono inviò alcuni frati dell’ordine de’ predicatori (di fresco dal santo padre Domenico fundato) a sedarli. Riuscì a quei buoni frati di felicemente terminarle, e con quest’occasione si fermarono in Napoli dandosi con frutto grande alla predicatione in conformità del di loro instituto, trattenendosi con li detti padri benedettini, quali caldamente pregarono a voler loro concedere quella picciola chiesetta, quando la loro gran religione n’haveva tante in Napoli. Il buono abbate, mosso dalla bontà de’ frati, loro disse che, se impetravano l’assenso pontificio, volentieri ceduto haverebbe il loco, e [111] così, ottenuto un breve dal pontefice Gregorio Nono, che qua inviò per legato apostolico il cardinal Goffredo del titolo di San Marco, et ottenuti anco li consensi di Pietro arcivescovo di Napoli, de’ suoi canonici, e di Marco, abbate del detto monasterio, nell’anno 1231 fu loro conceduta e n’hebbero il possesso; e questa chiesa era tanto quanto è l’atrio dove per questa porta s’entra, et a sinistra vi sono due cappelle: una dell’antica e nobile famiglia Bonita, dove è una statua d’un Santo vescovo di marmo lavorata da Giulian Finelli; l’altra è della famiglia Brancaccia, et in questa collocorno i padri l’imagine di San Domenico, che seco portata havevano, cavata dal naturale, essendo che poco prima era passato in cielo.

Nell’anno poi 1269 hebbero da Aiglerio, arcivescovo di Napoli, la seconda concessione; e prima di questa, nell’anno 1255, da papa [112] Alesandro IV (che fu assunto al trono pontificio mentre in Napoli dimorava) dedicata e consecrata ad honor del patriarca san Domenico, come in un antico marmo si legge, che sta nella parte sinistra della porta maggiore.

L’affetto poi che il re Carlo Secondo d’Angiò portava a’ frati di san Domenico, et anco, per voto fatto, come vogliono molti scrittori, all’apostola di Christo Maddalena, se libero si vedeva dalla priggionia che per tant’anni sofferto haveva in potere del re don Pietro d’Aragona, nelle mani del quale s’era data la Sicilia doppo di quell’horrendo Vespro Siciliano per sottrarsi dal governo del primo Carlo e de’ suoi insoffribili francesi; ottenuta la tanto desiderata libertà, passò nella Provenza, dalla Provenza in Roma, da Roma in Napoli, e, coronato re del Regno per la morte del padre, puntualmente adempì il voto; e per l’affet[113]to, come si disse, che portava alli frati, fabricò questo famoso tempio in honore di Santa Maria Maddalena, e nel giorno dell’Epifania dell’anno 1283 di sua mano vi pose la prima pietra, che benedetta fu dal cardinal Girardo legato apostolico, e credo che vi fusse rimasta quella che era a san Domenico dedicata.

Essendo poi questo buon re partito dal mondo a’ 4 di maggio del 1309, per segno dell’amore che a’ frati portava, lasciò che in questa chiesa rimanesse il suo cuore, et il corpo che fusse trasportato nella Provenza e sepellito nella chiesa di Santa Maria di Nazaret delle monache domenicane d’ordine, da lui edificata, come su la porta maggiore si legge in questi versi:

mcccix.
Carolus
estruxit, cor nobis pignus amoris
Servandum, liquit cetera membra suis.
Ordo colet noster tanto devictus amore,
[114] Extolletque virum, laude peremne pium.

Nell’horrendo tremuoto più volte accennato, nel decembre del 1446 la chiesa fundata da Carlo quasi tutta ruinò; fu rinovata da’ fundamenti dalla devotione di diversi signori napoletani, e particolarmente dalla famiglia Capuana, della quale in molte parti se ne vedono l’insegne.

S’avvisa ancora come, se bene la chiesa da Carlo Secondo fu dedicata a Santa Maria Maddalena, da’ napoletani sempre fu detta di San Domenico per la divotione che havevano alla prima chiesa a questo santo dedicata.

Ella è struttura alla gotica, stretta di navi e d’una grand’altezza. Quando fu rifatta, vi posero due ordini di travi: uno per lo tetto, l’altro su l’archi, per mantenerla forte, e come incatenata a’ nuovi accidenti di tremuoti.

Circa l’anno 1676, con l’occa[115]sione di modernarla di stucchi, furono le dette travi tolte e ridotte le finestre nella forma moderna, atteso che prima erano lunghe. Questa chiesa è ricchissima di varie sepulture e memorie antiche registrate dal nostro Cesare d’Engenio e da Pietro di Stefano, e però in questa chiesa vi si vedeva una quantità maravigliosa di ricchissime coltre di velluti e di ricchissimi drappi d’oro e de broccati ricci sopraricci, che nella nave di mezzo se ne ponevano tre ordini per parte e due nelle navi minori, oltre quelle che adornavano la croce, in modo che tutta la chiesa veniva adobbata di coltre. Hoggi, coll’occasione de’ stucchi, sono state tolte via quasi tutte, et i pilastri s’adornano con cortine di ricamo alla moderna e tele d’oro, e solo dalle coltre, le più ricche, vengono adornate le navi minori. Si devono bensì sommamente lodare questi sì buoni padri dell’haver [116] modernata la chiesa e non toltone l’antiche memorie di honorati personaggi, e, se bene qualcheduna n’è stata rimossa, è stata in altro luogo collocata, in modo che tutte quelle che sono notate nella Napoli sacra del nostro Engenio, tutte vi si ponno trovare.

Si può ben entrare ad osservar le parti di detta chiesa. Vedesi l’altar maggiore, constituito sotto d’un’ampia tribuna, tutto di marmi pretiosi vagamente commessi col disegno et assistenza del cavalier Fansaga; e far vi si doveva una famosa custodia, che era un tempio sostenuto da due statue, che rappresentavano il Dottore angelico san Tomaso et il Patriarca san Domenico, come se ne vide il bellissimo modello, ma non s’effettuò per la morte del Cavaliere.

Dai lati di quest’altare vi si vedono due scale di marmo per le quali si cala in un’altra chiesa che sta sotto del coro, et have una fa[117]mosa porta di marmo che esce alla piazza già detta, quale cappella è della nobilissima famiglia de’ Gueguara dei signori duchi de Bovino.

Dalla parte dell’Evangelio vedesi la Cappella del Rosario, con un quadro dipinto dal nostro Giovan Berardino Siciliano, e questa è de’ signori Prencipi di Stigliano Carrafa.

Nella cappella che segue appresso, che era di Diomede Carrafa cardinal d’Ariano, figliuolo di Francesco Carrafa duca d’Ariano, e di Giulia Ursina – fu questo carissimo al pontefice Paolo Quarto, morì questo in Roma d’anni 60 a’ 22 di agosto dell’anno 1560 – vi era la sua memoria colla sua statua giacente sopra, fatta dal Santacroce; né io ho potuto, per molta diligenza fatta nell’archivio de’ frati, come a questa memoria siano state guaste l’insegne Carrafa e l’inscrittione, e mutate in quelle della famiglia Spinella; né come a [118] questa sia passata la cappella, la quale dedicata veniva al glorioso protomartire Santo Stefano, e vi era una pretiosissima tavola, nella quale stava espresso il detto Santo lapidato, dipinta dall’insigne Leonardo Guelfo detto il Pistoja, ma è stata tolta via, né si sa cosa ne sia stata fatta, nemeno dagl’istessi frati.

Nella cappella de’ signori Pinelli, che sta nel muro della croce dall’istessa parte dell’Evangelio, vi è una tavola nella quale sta espressa la Vergine dall’Angelo annuntiata, opera di Titiano Vecellio, chiarissimo dipintore, circa gl’anni 1546.

Sopra le cappelle di questa parte vi si vedono tre sepolcri, qua trasferiti dai frati quando vollero trasferire il coro, che stava nel mezzo della chiesa, dietro dell’altare maggiore, dove detti sepolcri stavano sontuosamente lavorati. Il primo è di Filippo, quartogenito [119] di Carlo Secondo re di Napoli, e fu questo principe d’Acaja, di Taranto et imperator di Costantinopoli, il quale passò da questa vita a’ 26 di decembre del 1332 e fu con pompa regale qui sepellito. Il secondo è del Duca di Durazzo, principe della Morea, signore dell’honor del Monte di Sant’Angelo e conte di Gravina; fu questi ottavogenito di Carlo Secondo, morì ne’ 5 d’aprile dell’anno 1335. Il terzo è di Bernardo del Balzo, conte di Montescagioso e d’Andria, gran giustitiero del Regno.

Nella cappella che sta attaccata al pilastro, che sta dirimpetto a quella del Principe di Stigliano, che fu di Fabio Arcella arcivescovo di Capua, vi si vede una bellissima statua tonda che rappresenta la Regina del Cielo col suo Putto Giesù in braccio, e con due altre statue laterali, opera del nostro Giovanni da Nola. [120] Nell’altre cappelle che seguono vi si vedono molti belli quadri de’ nostri dipintori, non disprezzabili.

Nella penultima cappella, della famiglia de’ signori de’ Franchi, de’ marchesi di Taviano, in essa si scorge il sepolcro, colla sua statua al naturale, del non mai abbastanza lodabile giurisconsulto Vincenzo de Franchis, presidente del Sacro Consiglio, le di cui decisioni servono come di testo ne’ nostri tribunali. Hebbe questo gran ministro più figliuoli, quali restorno heredi del padre più delle virtù che delle sostanze. In questa cappella vi si conserva una miracolosa statua della Vergine, che fu del padre fra Andrea d’Auria da Sanseverino, de’ padri predicatori, che passò a miglior vita con fama di santità. Questa statua l’haveva fatta fare il buon servo di Dio per una divota dama sua penitente, ma, non essendo a quella piaciuta [121] perché il volto non era molto bello, il buon frate se la tenne per sé, e dicesi che nel mattino la trovò col volto mutato, in modo che pareva opera angelica. Nel luogo dove detta statua si conserva v’era un quadro nel quale stava espresso il nostro Redentore ligato alla colonna con altre figure, opera forse delle più belle c’habbia fatto Michel’Angelo da Caravaggio. Questo quadro hoggi sta situato dalla parte dell’Epistola presso di detto altare. La volta dipinta a fresco è di Belisario Corentio.

Antecedente a questa vedesi una dell’antiche cappelle de’ signori Carafa, dove sta un bel sepolcro di marmo, nel quale si conservano l’ossa di quel gran Antonio Carafa detto Malitia. Hebbe questo sei figliuoli, heredi del senno e del valor paterno. Da cinque de questi, atteso che uno morì celebe e cavalier gierosolimitano, fu gloriosamente propagata questa [122] nobilissima casa. Dal primo uscì la casa dei signori Duchi d’Andria, dal secondo dei Duchi d’Ariano, dal terzo de’ Principi di Stigliano, dal quarto dei Duchi di Nocera, dal quinto de’ Conti di Madaloni, e, dai secondi geniti di questi, poi, altre chiarissime case.

Attaccata a questa, dalla parte di sopra vedesi la cappella de’ signori Rota, ed in essa vedesi un famoso sepolcro adornato di belle statue, dove sta sepolto il dottissimo Berardino Rota, che morì, splendore delle buone lettere, nell’anno 1575.

Nella cappella che segue a quella de’ Franchi, che è l’ultima da questa parte, de’ signori Muscettola, nobili della piazza di Montagna, il quadro che sta nel mezzo, nel quale sta espresso il glorioso San Giuseppe che coronato viene con una corona di fiori dal Bambino Giesù, è opera delle belle di Luca Giordani. [123] Dal lato dell’Epistola di detta cappella vi si vede una tavola con una mezza figura della Vergine col suo Putto in braccia e san Giovanni, opera stimata di Rafaele. L’altra tavola, dall’altra parte, anco è stimatissima.

Passata la porta, dall’altra nave dell’Epistola si vede l’antica cappella de’ Conti di Santaseverina, della casa Carrafa. Fu questa tutta egregiamente dipinta dall’erudito pennello del nostro Andrea Sabatino da Salerno. Sta quasi tutta guasta per l’humido, che vi è trapelato dalla parte di fuori.

Appresso si può vedere la cappella della famiglia Capece, nell’altare della quale va situata una tavola dove sta espresso Christo signor nostro crocifisso; questa fu dipinta da Girolamo Capece, nobile della piazza capuana. Questo cavaliere fu lo splendore de’ nobili del suo tempo, poiché – oltre l’esercitare perfettamente tutte le attioni cavalleresche e ’l farsi co[124]noscere versato nelle scienze della filosofia, della teologia, nelle facoltà legali e nelle pulite lettere, e particolarmente della poesia – sommamente si dilettò della musica, toccando maestrevolmente ogni sorte d’istromento musicale; e, vedendo dipingere e scolpire, anch’egli perfettamente dipinse e scolpì, havendo fatti molti quadri, e particolarmente questo per la cappella della sua famiglia. Scolpì anco un famoso Crocifisso in legno colla statua di San Tomaso sotto, che, ricevuto in dono dai frati, fu collocato sopra l’antica architrave che stava nella chiesa; poscia, coll’occasione d’abbellirla, fu detto architrave tolto via et il Crocifisso fu collocato su la porta dalla parte di dentro, indi, da questo luogo, trasportato nel dormitorio del convento.

Si può passare a vedere la bellissima cappella detta del Crocifisso, perché nel maggiore altare di [125] detta cappella vi si conserva la miracolosa tavola dove sta dipinto il nostro Redentore in croce, et è quello che parlò all’angelico dottore san Tomase, dicendoli: ‘bene scripsisti de me Thoma, quam ergo mercedem accipies’, e dal santo risposto li fu: ‘non aliam, Domine, nisi te ipsum’. Questa, prima, stava nella cappella de’ signori Grifoni, dove continuamente, prima delli studii, divotamente orava, e più volte fu veduto dal suo compagno elevato in aria in altezza di più cubiti. In questa gran cappella vi sono altre cappelle.

Nell’entrare, dalla parte dell’Evangelio vi si vede un altare su del quale sta collocato un quadro, nel quale vedesi espressa la Regina Nostra Signora col suo Figliuolo in braccio, imagine per mezzo della quale i napoletani han ricevuto dal Signore Iddio gratie infinite.

Dirimpetto a questa cappella vedesi il ritratto di Carlo della [126] Gatta, nobile del seggio di Nilo, ultimo di questa famiglia già estinta. Fu questo gran guerriero ne’ nostri tempi, che così gloriosamente difese la fortezza d’Orbitello contro l’esercito francese guidato dal principe Tomase di Savoja.

Più avvanti, dall’istessa parte vi si vede la cappella della famiglia Del Duce, o Del Dolce, nobile del seggio di Nilo, et in quel luogo dove oggi si vede un quadro di Santa Rosa domenicana vi era una famosissima tavola, in cui si vedeva espressa l’immagine di Nostra Signora col suo Figliuolo nel seno, l’angelo Rafaello che accompagnava Tobia, il quale era il vero ritratto di Pico della Mirandola giovanetto, e san Girolamo vestito colla sua porpora cardinalitia, che era il ritratto di Pietro Bembo: opera la più bella e più pretiosa ch’havesse mai fatto il pennello del gran Rafael d’Urbino. Et una copia di questa, ben fatta, si può vedere nella [127] sacristia, come si disse, della chiesa di San Paolo de’ padri teatini; hora, per nostra disaventura, è fuori del nostro Regno.

Vi sono altre cappelle et altre famose sepolture, e, fra queste, quella dirimpetto all’altar maggiore, dove vedesi un bellissimo quadro: opera *** ricuperata e restaurata da Giovan Pietro Carrafa, poi pontefice chiamato Paolo Quarto, nella quale si legge la seguente inscrittione.

Sacellum hoc ad Joannem Petrum Carraphā. Qui postea Paulus Quartus Pont. max. mox appellatus est.
Jure successionis
A majoribus suis comitibus Montorii perventum, & ab heredibus alienatum
D. Franciscus Carapha Diomedis filius
Sanctæ Gentilis sui memoriae restituit,
Et quotidie in ea sacra confici mandavit MDXCIV.

[128] Vi si vedono anco molti altri antichi sepolcri della famiglia Carrafa de’ conti di Ruo, e, fra l’altri, quello di Francesco Carrafa, padre del gran cardinale Oliviere arcivescovo di Napoli, e l’inscrittione è la seguente:

Par vitę
Religiosus exitus
Francisco Carapha Equiti Neap. insigni
Christianæ religionis observantissimo
Qui summa omnium mortalium.
Benevolentia, ac veneratione
Ætatis annū agens lxxxiii. obiit.
Senii nunquam quæstus
Oliverius card. Neap. parenti opt. posuit.

E questo è delli belli che vi sia.

Vi sono molte memorie d’eroi nella nobilissima famiglia de’ Sangri, e fra questi quello di Placido di Sangro, che, ne’ rumori così fieri accaduti in Napoli in tempo del viceré don Pietro di Toledo, così gene[129]rosamente operò per servitio del suo monarca e della propria patria, l’iscrittione così dice:

Placitus Sang. Ber. F.
Difficillimis, ac pene desperatis
Patriæ temporibus
Pro communi bono
Ad Cesarem Carolum V. legatus
Hic requiescit.
Vir certè animi constantis
Semper invicti
Ac suis magis quam sibi natus
MD.LXX.

Usciti da questa cappella, e passate le sepulture de’ signori Aquini e di quella gran casa dalla quale discese l’angelico dottore san Tomaso, in un pilastro si vede una tavola nella quale sta espresso Christo Signor Nostro che porta la Croce su le spalle nel Calvario, con altre figure così ben disignate e colorite, che cosa più bella desiderar non si può; e questa fu opera del nostro Giovanni Corso. Questa sì bella tavola stava nella cappella delli [130] Bucca d’Aragona, nelle spalle del coro, quando il coro stava in mezzo della chiesa; tolto via, fu situata in diversi luoghi, e per ultimo dove al presente si vede.

S’entra nella sacristia, la quale ha titolo di cimiterio e, come tale, nella cappella che vi si vede si celebrano molti anniversarii per diversi signori, i cadaveri de’ quali si conservano nelle tombe, o baulli, che stanno d’intorno, e particolarmente di molti re e signori della casa regale d’Aragona. Queste tombe stavano malamente trattate dal tempo; furono però da don Giovanni di Zunica conte di Miranda, viceré del Regno, per ordine del cattolico monarca Filippo Secondo, restaurate nell’antico 1594, e collocate sotto decenti baldecchini di broccato et altri drappi.

Nella tomba del gran Alfonso Primo si legge in un cartoccio:

Inclytus Alphonsus, qui Regibus ortus iberis
[131] Ausoniæ Regnum primus adeptus adest
Obiit anno Domini mcccclviii.

Questo magnanimo e virtuoso, la di cui vita può servire per idea a’ prencipi che regnar vogliono con politica chiarissima, lasciò nell’ultimo suo testamento ordinato che il suo cadavere fusse trasportato in Aragona e che fra tanto fusse rimasto in deposito nella chiesa di San Pietro Martire; come si fusse poi trovato in questa non ho potuto saperlo. I suoi successori non curarono d’eseguirlo. Nell’anno 1666 venne a governare il Regno, da viceré, don Pietro Antonio d’Aragona, e volle eseguire quanto dal re Alfonso fu ordinato nell’elettione della sepultura. Fece istanza che consignato li fusse il cadavere per trasportarlo in Aragona; si fece diligenza nel baullo, ma non vi si trovò cosa alcuna. Dicevano i frati che poteva essere che fusse stato [132] nascosto in quel luogo dove, per non so quali torbolenze di Napoli, un frate nascosto haveva le cose più pretiose del convento, e con queste anco le loro antiche scritture, molte reliquie, et altre cose pregiate che poi, per un repentino accidente sopravvenuto al frate, che lo tolse di vita, non si poté sapere dove dette cose ascose ne stavano; né, per molte e molte diligenze fatte, si son potute rinvenire, restando privo il convento d’una ricchissima suppellettile e di molte antiche notitie.

Coll’intervento di monsignor Paolo Garbinati, all’hora canonico e vicario generale di Napoli, col quale anch’io m’accompagnai, s’osservarono l’altre tombe, e v’erano i cadaveri; si fece calare quella d’Alfonso, vi si trovò che v’erano due fondi un sopra l’altro, e fra questi stavano l’ossa d’uno sì gran signore. Et io, havendo avuto nelle mani quel capo, non potei con[133]tenermi dalle lagrime, vedendo così quella testa che fu stimata tanto savia, tanto valorosa, tanto pia. Si collocorono poi in un altro baullo, tutto fodrato di velluto cremesi dentro e fuori, e questo collocato in un’altra cassa ben forte e sugellata in più parti col sugello del vicario; e, fattone del tutto un atto publico, fu consignato al detto don Pietro Antonio, quale nel suo partire seco lo portò nelle Spagne, e così la nostra città rimase priva dell’ossa del suo tanto amato re Alfonso Primo.

Segue l’altra tomba, poi, nella quale sta il cadavere di Ferrante Primo, figliuolo del sudetto Alfonso, con un cartoccio nel quale si legge:

Ferrandus senior qui condidit aurea secla
Mortuus Ausoniæ semper in ore manet
Obiit anno Dom. mccccxciv.

Vi è la tomba appresso del re [134] Ferrante Secondo, nipote del Primo, e nel cartoccio che vi pende vi sta espresso:

Ferrandum mors sæva diu fugis arma gerentem?
Mox positis illum, impia falce necas
Obiit ‘anno ‘Dom. mccccxcvi.

Segue poi la tomba della regina Giovanna sua moglie, la quale fu figliuola di Giovanni d’Aragona fratello d’Alfonso Primo, e vi si legge:

Suscipe Reginam pura hospes mente Joannam,
Et cole quem meruit post sua fata coli
Obiit an. Dom. m.dxviii. xxviii. Agu.

Appresso vedesi la tomba di donna Isabella d’Aragona, figliuola d’Alfonso Primo e d’Ippolita Maria Sforza, la quale fu moglie di Giovanni Sforza il Giovine, duca di Milano, e nel cartoccio si legge:

Hic Isabella jacet, centum sata sanguine regum
[135] Qua cum Majestas Itala prisca jacet
Sol qui lustrabat radiis fulgentibus orbem
Cecidit inque alio nunc agit orbe diem
Obiit die xi. Febr. mdxxiv.

Nella tomba di Maria d’Aragona, marchesa del Vasto, si legge:

Heu Vasti Domina, Excellens virtutibus ortu
Orbis quæ imperium, digna tenere fuit
Sarcophago jacet hoc nunc parus corpore pulvis
Spiritus Angelicis sed nitet ipsa choris
Obiit anno Dom. mdlxviii. ix. Novemb.

Seguono appresso di queste la tomba di don Antonio d’Aragona secondo duca di Mont’Alto, nato da Ferrante figliuolo naturale del re Alfonso, il quale morì a’ 6 di ottobre del 1543; la tomba di don Giovanni d’Aragona, [136] figliuolo del Duca di Mont’Alto, il quale morì a’ 11 d’ottobre del 1571; la tomba di don Ferrante, figliuolo d’Antonio d’Aragona e di Maria Lazerda, duchi di Mont’Alto; segue quella di Maria Lazerda duchessa di Mont’Alto; di don Pietro d’Aragona, primo genito del Duca di Mont’Alto, che morì a’ 19 d’aprile del 1552; quella di don Antonio d’Aragona, ultimo duca di Mont’Alto, che morì alli 8 di febraro del 1584, et in questo rimase estinta la linea de’ maschi della stirpe d’Aragona, benché naturale. Vi sono altre tombe, come di Ferrante Ursino duca di Gravina, che morì a’ 6 di decembre del 1549; del Marchese di Pescara, e d’un altro marchese similmente di Pescara.

In questa sacristia vi si conservano ricchissimi apparati e quantità d’argenti lavorati in famose [137] statue, come quella della Santissima Vergine del Rosario, tutta intera; quella di San Tomaso, dentro della quale si conserva la reliquia del suo braccio; oltre l’altra statua d’argento che sta nel nostro Sagro Tesoro, come nostro protettore; e quella di San Domenico, similmente dichiarato protettore, non solo della città, ma del Regno. Vi sono famosi paleotti similmente d’argento, due gran torcieri, quantità di candelieri et altri vasi. Vi è poi un ostensorio ammirabile, e per la materia e per lo lavoro, essendo tutto tempestato di gemme ligate in oro e bizzarramente disignato, mostrando un San Tomaso che tiene, con le mani, sovra del capo la sfera. Vi si conserva anco, in una picciola urna d’avorio, il cuore imbalzamato del re Carlo Secondo d’Angiò, su della quale si legge:

Conditorium hoc est, Caroli Secundi Illustrissimi Regis Fundatoris Cõ
[138] ventus anno Dom.
mcccix.

Usciti da questa sacristia s’osservano due buoni e famosi organi, e sotto di questi vi sono le tavole dipinte dal pennello di Marco di Siena.

Si può passare a vedere il convento, il quale tuttavia si sta riducendo ad una forma moderna, e di già si son fatti molti dormitorii et un cenacolo, che forsi è delli più belli et ampi che veder si possano, ancor che in qualche parte habbia patito per lo tremuoto già detto.

Nel dormitorio vecchio vi si vede la stanza, o cella, del glorioso san Tomaso, hoggi trasformata in una divota cappella, quale, con gran divotione, ne’ giorni festivi del santo è da’ napoletani visitata.

Vi è ancora, in detto dormitorio, un’ampia e ben provista libreria, dove si conservano alcuni manoscritti, e particolarmente uno, [139] tutto di pugno di san Tomaso, sopra il trattato che fa san Dionisio De coelesti hierarchia.

Vi è un’acqua perfettissima e molto fresca, et uscendo dal chiostro nel cortile, a destra si vede nel muro dalla parte della chiesa un marmo nel quale sta intagliato un’epigramma che così comincia: Ninbifer ille Deo, et c. Et in questo vi è una bella curiosità: questo marmo stava nel piano del coro, situato in mezzo la chiesa, come si disse; nell’anno 1560 fu trasportato nel luogo dove si vede.

L’inscrittione che in sé contiene altro non è che d’un huomo che, navigando con tempo sereno, di repente si vide assalito da venti e da pioggie, in modo che ne restò sommerso e morto.

Priega Dio che, perdonando i suoi peccati, li dia strada dall’acque al cielo. Alcuni che la stimavano oscura, perché credo che havevano [140] corta vista nella grammatica, vedendo che in questo si trattava d’acque, lo collocorono in que’ tempi nell’antica cisterna del chiostro vecchio – che conserva acqua fredda e perfettissima, per essere dalla lunghezza del tempo molto purificata, e questa anticamente, nell’estate, era la delitia de’ napoletani, per essere l’acqua più fresca che vi fusse all’hora – e con quest’occasione ha dato da fantasticare a molti cervelli, e particolarmente de’ tesoristi, dandoli ridicole interpretationi. E particolarmente ve ne fu uno che, con certe esplicationi a lumaca, ha detto che questa era una gran memoria d’un famoso tesoro ascoso in detta cisterna, e che sia quello – a punto – che v’ascose il frate, come si disse, consistente in tutti gl’argenti della chiesa, monete, reliquie et altro.

Vedesi appresso la porta maggiore della chiesa, quale, insieme colla facciata, fu fatta da Bartolomeo di [141] Capua gran conte d’Altavilla e gran protonotario del Regno, poi da Vincenzo di Capua, XV gran conte d’Altavilla e principe della Riccia, nell’anno 1605, 300 anni doppo fu restaurata nel modo che si vede.

In questo cortile stavano li Studii Publici eretti da Federico Secondo e qua trasportati da un altro luogo, come si dirà; ancorché alcuni de’ nostri scrittori, che poco han voluto fatigare negl’antichi historici, dicono che stavano nell’antica regione forcellense, perché ivi stavano i ginnasii, stimando che questa voce voglia significare luoghi dove si leggono lettere, ma di ciò se ne discorrerà appresso.

In questo luogo si leggeva filosofia, legge e teologia, et in questa cattedra l’insegnò per molto tempo il dottore angelico san Tomaso, al quale Carlo Primo ordinò che si dasse un’oncia d’oro il mese, [142] et il luogo preciso dove il detto santo leggeva si vede prima d’uscire al detto cortile a sinistra, come si può leggere dalla memoria che vi sta posta in marmo. In questi studii spesso veniva il re Alfonso Primo d’Aragona ad ascoltare cogl’altri scolari le lettioni. Quest’università, poi, ella è stata trasportata fuor della Porta di Costantinopoli, come a suo tempo si vedrà, e le stanze dove si leggeva, rifatte dal Conte di Ruo della casa Carrafa, sono state ridotte in tanti oratorii.

Usciti dalla porta del cortile, e tornati nella piazza per dove s’entrò nella chiesa dalla porta minore, tirando avvanti verso la Piazza di Nilo, si vede un vicolo anticamente chiamato di Fontanola, per una nobile famiglia che in essa habitava, hoggi detto di Mezzo Cannone. Nel principio di questo vicolo, a destra, vedesi una chiesa detta la [143] Rotonda, per la forma che tiene, e stimasi che fusse stata fabricata in tempo di Costantino il Grande; però molti de’ nostri eruditi scrittori, et esatti indagatori dell’antico, vogliono che questo fusse stato l’antichissimo Tempio di Cerere, e che in tempo di Costantino fusse stato consegrato alla Vergine, come è probabile che, ottenuto di potere erigere publici tempii al vero Dio, l’havessero dedicati gl’antichi consecrati a false deità, di già aboliti e rimasti in abbandono, come da molti se ne portano i riscontri. Scrivono alcuni de’ nostri che il porco era solito sacrificarsi a Cerere, perché questi scava il terreno per mangiarsi li semi delle biade di fresco seminate, e che poi, introdotta la fede et abolito il Tempio di Cerere, s’uccideva un porco nella Chiesa Cattedrale, et ucciso si distribuiva a’ poveri, e nel secolo passato questa funtione si faceva poco lungi da questa chiesa, in [144] quella di Sant’Andrea, e si divideva fra li maestri de’ studenti, come si dirà, benché altri, come dissimo nell’antecedente giornata, scrivono che la funtione nella Cattedrale era in memoria del grondito spaventoso che s’udiva nel luogo dove hora è la chiesa di Santa Maria Maggiore.

Avvanti di questa chiesa v’erano due base di marmo antico ben grande, in una delle quali vi stava inciso:

Postumius Lampadius, V.C. Camp.

Nell’altra:

Postumius Lampadius vir Cons. Camp. curavit.

E si stima che queste base fussero state delle colonne ch’adornavano la facciata di questo tempio. Haverà ben 50 anni che alcuni vigliacchi impostori diedero a credere che dentro di queste base vi era un gran tesoro, e, coll’assistenza de’ ministri camerali, furono miseramente rotte senz’osservare [145] che quelle erano tutte d’un pezzo, e che, quando per arte magica (per così dire) vi fusse stato posto, si potevano sbusciare da sopra per osservare che v’era dentro; et essendo in quei tempi io ragazzo, che andavo alle scuole de’ padri giesuiti, passando per questo luogo e guardando una simile sciocchezza, quasi mi caddero le lagrime, perché mio padre, di buona memoria, detto mi haveva che queste due base erano una bellissima memoria della nostra città. I fragmenti di queste, dove stanno ancora l’inscrittioni, stan fabricate avvanti la porta di questa chiesa, dentro della quale vi era una sedia vescovale di marmo che hoggi, non so perché, sta trasportata nell’atrio. Essendo questa antica parocchiale collegiata, vi si serbava questa sedia per quando gl’antichi vescovi vi si portavano a predicare al popolo et ad osservare come erano amministrati i sacramenti. [146] Nell’atrio istesso vi si vede un’antichissima conca, e stimasi che stata sia pira per sacrificii, ed uno antico fonte di marmo per l’acqua lustrale.

Dirimpetto a questa vedesi la chiesa dedicata all’arcangelo San Michele, la quale, perché sta in questa regione, vien dal volgo detto a Nido, o Nilo da altri, benché prima dicevasi de’ Brancacci; et ha questa un’esemplare fundatione.

L’antichissima e nobile famiglia Brancaccia, anticamente detta Brancazza o Brancacia, mera napolitana, benché non molto ricca sia stata de beni di fortuna, ricchissima sempre si è veduta di virtù, che l’ha resa gloriosissima, e per le toghe e per l’armi, potendo fare lungo catalogo de generali di eserciti, et anco per le mitre e per le porpore, ma sopra tutto per haver dato tanti eroi ascritti nel catalogo de’ santi per la loro somma bontà. I descendenti di questa gran ca[147]sa, come legitimi e non adottivi figliuoli di questa patria, affettuosamente han cercato sempre d’honorarla, giovarla et ingrandirla come loro buona madre; e lasciando gl’antichi, dirò solo de’ più moderni. Vogliono molti de’ nostri scrittori che in questo luogo anticamente vi fussero state le scuole letterarie fundate da Federico imperatore, che però chiamato veniva lo Scogliuso, come da molti antichi istromenti si ricava, e che anco quivi erano l’habitationi de’ scolari, perloché dicono alcuni che havesse il luogo sortito il titolo di Nido.

Attaccato poi alla chiesa di Sant’Andrea, che vedremo appresso, vi era un hospedale per i poveri studenti in tempo d’infermità. Questo hospedale, poi, o per le continue guerre de’ tempi andati, o per altre disgratie accadute nella nostra città, fu dismesso. Rainaldo Brancaccio, creato nel 1384 cardinal diacono del titolo di San Vito e Mode[148]sto, fundò questa chiesa juspatronato della famiglia Brancaccia, la dedicò all’arcangelo San Michele, e la cagione fu questa: vi era una chiesa dedicata al glorioso arcangelo chiamata San Michele a Marfisa, conceduta (come si disse) da’ monaci benedettini a’ frati domenicani; la chiesa predetta mutò titolo; il cardinal predetto ciò vedendo, fundò questa e la dedicò al detto arcangelo San Michele; ed essendo io ragazzo, da un vecchio mi fu detto che vi havesse trasportata la stessa tavola dove stava dipinto l’Arcangelo della chiesa di Marfisa, che è quella che si conserva nella sacristia.

Fundata questa chiesa, sapendo che in questo luogo vi stava l’antico hospedale de’ poveri studenti, perché non fusse mancata a’ miserabili quest’opera di pietà, si fece concedere dal sommo pontefice le case e le rendite che all’antico hospedale stavano addette, e, con altre che v’[149]aggiunse delle sue, ne fundò un altro a questa chiesa attaccato, che fin hora con ogni attentione e puntualità si è mantenuto e si mantiene, e volle che il governo della chiesa e del detto hospedale fusse esercitato da due cavalieri eligendi in ogn’anno dalla piazza di Nido, e che uno delli due sempre fusse della casa Brancaccio.

Passò a miglior vita il detto cardinal Rainaldo nella città di Firenza nell’anno 1418, e lasciò esecutore del suo testamento il gran Cosimo de’ Medici, il quale li fece lavorare da Donato o Donatello, scultore firentino, un sepolcro di bianco marmo, che è quello che si vede nella chiesa dalla parte dell’Epistola, che è una cassa ben lavorata con bassi rilievi, sostenuta da tre Virtù ed accompagnata da altri ornamenti; e trasportato in questa chiesa il cadavere del detto cardinale, vi mandò lo stesso Donatello a porre in opra il sepolcro.

[150] A’ 18 di novembre del 1633 fu dal sommo pontefice Urbano Ottavo assunto alla porpora Francesco Maria Brancaccio, vescovo all’hora di Capaccio, che fu stimato di tutte quelle buone parti che ponno costituire un ottimo cardinale. Questo, nell’ultimo suo testamento, stipulato a’ 3 di maggio del 1675, instituì herede don Stefano Brancaccio vescovo di Viterbo, suo nipote, incaricando la sua coscienza a fare tutto quello che l’haveva significato circa la libraria, che era delle famose di Roma. Il vescovo Stefano, assunto alla porpora dalla santa memoria d’Innocentio XI, nell’ultimo suo testamento, stipulato a’ 5 di settembre del 1686, lasciò heredi don Emanuele Brancaccio, vescovo d’Ariano, e fra Giovanni Battista Brancaccio, cavaliere gierosolimitano all’hora ammiraglio di Malta e priore nel baliaggio di Santo Stefano, dichiarando la volontà del cardinal Francesco Maria suo zio [151] circa la libraria, che era, doppo la morte di esso cardinale Stefano, che fusse trasportata in Napoli e collocata in un luogo della chiesa di Sant’Angelo a Nido, alla publica commodità di chi studiar voleva; e, non volendola accettare i governatori del luogo, che si fusse venduta, et il prezzo impiegato in compra de’ beni stabili e delle rendite, parte se ne fusse impiegata a messe, e parte ad altre opere di pietà.

Gl’heredi del cardinale Stefano cercorno puntualmente d’eseguirlo, ma vi si trovò qualche intoppo, perché i governatori della chiesa non havevan danaro pronto e bastante per la fabrica del vaso e per lo mantenimento de’ ministri e conservatori che vi si richiedevano. Il buon priore Giovan Battista, essendoli premorto il vescovo d’Ariano suo fratello e coherede, donò alli governatori di questa chiesa docati mille in circa di rendita, oltre i docati 4200 che molto prima [152] di morire dati haveva a quest’effetto al signor fra don Sisto Cocco Palmiere, fratello del vescovo di Malta, commorante in Napoli, perché si fusse fabricato il vaso per la libreria e per lo mantenimento d’un bibliotecario, al quale assignò dodeci scudi il mese; d’un sotto bibliotecario, con provisione de scudi sessanta in ogn’anno; e d’uno scopatore, con provisione de scudi trentasei; e che si fusse fatta una memoria nella chiesa dei due cardinali, zio e fratello. Esecutore di questa santa dispositione fu lo stesso fra don Sisto, il quale, con una puntualità ed attentione indecibile, ha fatto per così dire volare l’esecutione per honor di questa patria, alla quale solo mancava, per comodità de’ poveri desiderosi d’imparare, una publica libraria.

Il vaso è riuscito quanto comodo tanto bello. Gl’armarii sono nobilmente lavorati di legno di cipresso e di no[153]ce. Vi si veggono fin hora da 20000 volumi in circa in tutte le scienze necessarie, delle migliori impressioni, e gentilmente ligati. Vi è una quantità d’eruditi e reconditi manoscritti. Si spera di vederla al maggior segno accresciuta, essendo che dallo stesso priore Giovan Battista sta disposto che dei docati mille di rendita annua, sodisfatti i pesi ed altri legati, quel che avvanza si ponga per un certo tempo in augumento, e de’ frutti poi se ne comprino libri che usciranno di nuovo, oltre che non vi mancheranno legati di virtuosi.

La memoria poi è di già terminata, ed è riuscita una delle più belle, delle più nobili, delle più ricche che siano nella nostra città: opera e disegno di Pietro e Bartolomeo Ghetti, fratelli. Vedesi un’urna sostenuta da due leoni, dentro della quale sta chiuso il cuore del cardinal Francesco Maria, lasciato espressamente nel suo ultimo testa[154]mento, e vi fu situato con atto publico dallo stesso fra don Sisto. Sopra di detta urna vi si vede un gran mucchio de trofei, così militari come letterarii ed ecclesiastici; dal mezzo di questi vedesi elevata una piramide, nella cima della quale sta situato un medaglione che dà i ritratti di mezzo rilievo de’ cardinali Francesco Maria e Stefano, zio e nipote. Dalla parte destra di detta medaglia, un po’ basso, vedesi una statua tonda in atto di volare, che esprime la Fama con la tromba in una mano e nell’altra un serto d’alloro. Nel piede di detta piramide vedesi un’altra statua similmente tonna: esprime la Virtù che mostra di finire di scrivere l’epigrafe a’ detti cardinali.

Vi sono bellissimi ornamenti, e sopra di due medaglioni vi stan situate due mezze statue: una del già fu priore Giovan Battista e l’altra del generale fra Giuseppe Brancaccio, della stessa casa. [155] Nella stessa chiesa vi è da osservare la tavola del maggiore altare, nella quale sta espresso l’Arcangelo san Michele, che è una delle bell’opere ch’habbia mai fatto Marco da Siena. Nella cappella dove si conserva l’Eucaristia dicesi che vi fusse stato trasportato dal cardinal Rainaldo il corpo di santa Candida Brancaccia, la giovane; però non si sa dove fusse stato collocato.

Vista questa chiesa, tirandosi avvanti, vedesi a destra la bella e maestosa macchina del teatro, piazza o seggio di Nilo, o volgarmente di Nido, perché vogliono alcuni che prenda il nome della statua del fiume Nilo che li sta appresso, altri dal Nido et habitatione di studenti che qui ne stavano. I nobili di questo seggio, vedendo già ampliato quello di Montagna e di Capuano, vollero anco magnificamente ampliare il proprio, che però nell’anno 1476 com[156]praro una parte dell’antico monasterio di Donnaromita; diedero principio alla fabrica, ma, intermessa per molti accidenti, nel 1507 col disegno di Sigismondo di Giovanni grand’architetto di quei tempi si ridusse nella magnificenza, grandezza e nobiltà ch’hoggi si vede, ammirandosi come maravigliosa la cupula per la sua larghezza. Le dipinture a fresco, nelle quali sta espresso l’Entrata di Carlo V in Napoli, son opera di Belisario Corentio; gl’ornamenti che stanno di sopra sono opera di Luigi Siciliano; la Fama che sta nel mezzo della cupula fu dipinta da Francesco di Maria; il cavallo sfrenato, che si vede intagliato nel partimento de’ balaustri, è l’impresa della piazza. Quando si ha da trattare qualche negozio, in questo luogo s’uniscono, ma i voti si danno dentro della stanza a questo contigua.

Dirimpetto a questa piazza ve[157]desi una picciola chiesa detta Santa Maria de’ Pignatelli, perché fu da questa famiglia edificata, che gode degl’honori della nobiltà nella piazza già detta.

Passata questa chiesa viene il quadrivio. Il vico a sinistra hoggi si dice degl’Impisi, o Vico d’Arco, ma anticamente detto veniva il Vico Alesandrino, che anco dava nome a questa regione, e dicevasi Alesandrino perché v’habitavano i mercatanti che da Alesandria venivano; e perché d’intorno Alesandria vi scorre il Nilo, v’eressero del Nilo la statua che al presente si vede, hoggi ristaurata et accresciuta del capo con una nobile e spiritosa inscrittione, come si vede; e questa statua del Nilo diede il nome alla regione. Altri hanno scritto che questo nome lo prende da una chiesa che vi era dedicata a Sant’Attanagio, patriarca d’Alesandria, ma questo non è probabile, perché si trova in alcune visite [158] arcivescovali, nelle quali sta notato: “Sanctus Attanasius Alexandrinus in regione Nili, in vico dicto Alexandrinorum”.

Dentro di questo vico vi è qualche cosa di curioso, e per prima, andando su, la piazzetta che vi si vede avvanti la chiesa delli Pignatelli. Questa era l’antico Seggio o Piazza di Nilo, quale è stata in piedi fino a’ nostri tempi; e si vedeva 6 palmi elevata da terra, con i ripari attorno di 6 altri palmi, e dentro li suoi sedili di pietra; e qua fu trasportata dal vico che li sta dirimpetto, e nell’angolo del riparo stava la statua sudetta del Nilo.

La casa che passata la detta piazza si vede fu del famoso Antonio da Bologna, detto il Panormita, quell’Antonio tanto caro et amato dal re Alfonso Primo, che non haveva cosa più a grado che la conversatione d’un sì grand’huomo, dal quale egli diceva d’imparare gran cose. Da’ suoi degni [159] successori, che godono della nobiltà nella piazza di Nilo, fu restaurata et abbellita con una nobile facciata, designata da Giovan Francesco Mormandi; anni sono fu venduta al regente Giacomo Capece Galeota, duca di Sant’Angelo, che con molta spesa l’abbellì e la ridusse al moderno, come si vede. In questa, dalli figliuoli et heredi di questo gran ministro e della robba e della virtù paterna, vi si conservano pretiosissimi quadri di perfettissimi artefici, e fra questi molti del pennello di Gioseppe de Rivera lo Spagnoletto; e particolarmente uno che mostra espressa in una tavola la Nascita del Signore con molte figure, cosa la più bella, la più nobile e la più studiata che sia uscita dalle mani di questo grand’huomo, et in questo quadro vi sono i ritratti al naturale di tutte le sue figliole. Vi si conserva ancora una gran libreria, ricca non solo d’una quan[160]tità grande di più e più migliaja di volumi legali, ma de libri eruditi e manoscritti pretiosi.

Appresso vi si vedono molti famosi palazzi, et a sinistra quello del Seminario de’ Nobili, nel quale gli alundi e convittori vi stanno colla direttione e governo de’ padri della Compagnia di Giesù; imparano non solamente le buone lettere e religiosi costumi, ma ancora molti esercitii cavallereschi, come del ballo, della scherma, del torneo et altri.

Questo seminario fu nell’anno 1608 fundato da Giovan Battista Manso marchese di Villa, nostro napoletano, huomo di gran sapere e letteratura, come l’opere sue attestano. E questi, col nostro Giovan Battista della Porta, fundorno nell’anno 1611, a’ 3 di maggio, la famosa Accademia degl’Otiosi, hoggi intermessa; desideroso sopra modo di veder fiorire le lettere ne’ suoi nobili paesani, lo dotò di docati ven[161]ticinque mila con promessa d’altri docati 50 mila. Nell’anno poi 1629, non trovando governatori e direttori di detto luogo che più li soddisfacessero per allevare giovani che i padri della compagnia, con essi si convenne, e loro diede il governo del seminario sudetto, ordinando che doppo la morte sua si stabilisse nella sua casa, che stava presso la Piazza de’ Padri dell’Oratorio, e proprio su la cappella di Sant’Angelo detto in Foro, perché ivi anticamente era la piazza del mercato (come si disse). Ma perché doppo la morte del marchese s’hebbe qualche contraddittione con gl’istessi padri dell’Oratorio, et alli giovani del seminario non riusciva molto comodo d’andare agli studii del collegio, si risolse di vendere detta casa alli padri dell’Oratorio, e, col prezzo di quella, e con altri denari dell’heredità, a’ 27 di gennaro dell’anno 1654 comprarono da Geronimo d’Afflitto [162] principe di Scanno il presente palazzo, che fu degl’antichi Conti di Trivento, e l’han ridotto nella bella forma ch’hoggi si vede ancorché non totalmente terminato. Guardasi in esso una signorile pulitia; vi si conservano tutti i libri del nostro cavaliere Giovan Battista Marini, dal quale furono lasciati al marchese suo grand’amico, e dal marchese al seminario, suo herede. In questo vi si mantengono sei alundi dal Monte di Manso, 16 dal Re nostro signore, sette dal Monte della Misericordia, sei dal Monte de’ Poveri vergognosi, che, uniti con gli convittori, arrivano al numero di 90 in circa.

Dall’altra parte del quadrivio, che è il vico che va giù, anticamente chiamavasi lo Scorufo, o Scogliuso, come trovo in alcuni strumenti, e credo che questo derivi dalle scuole che vi stavano: hora va detto Vico di Sant’Andrea, di Donnaromita, di Santa Maria di Monte Ver[163]gine, e del Collegio de’ Giesuiti, che colla voce volgare dicesi del Giesù Vecchio, e questi nomi li prende da quattro chiese di questo titolo che in esso vi sono.

E per darne qualche notitia: la prima, che sta a man destra quando si va, è l’antichissima chiesa dedicata al primo apostolo Sant’Andrea, eretta in tempo dell’imperator Costantino, come si ha per traditione, e questa fu una delle 6 chiese greche; poscia fu degli studenti, perché presso di questa stava la Publica Università, e nel giorno natalitio del santo v’andavano in processione con i loro lettori, portando ognuno una candela di cera in honore del glorioso Apostolo, e se uccideva un porco, e dividevasi agl’istessi lettori; e scrivono alcuni, come si disse, che questo fusse un rito antico de’ Gentili, che sacrificavano il porco a Cerere, il di cui tempio stava dove poch’anzi fu dimostrato.

[164] Presso di questa chiesa si manteneva un hospedale per li poveri studenti infermi, quale hoggi sta trasportato, come si disse, nella chiesa di Sant’Angelo. Questa chiesa è abbatiale, juspatronato della casa Carrafa; sta conceduta alla comunità degl’osti, da noi detti tavernari di vino a minuto, dalla quale vien governata et abbellita. In essa vi si vede una cassa di marmo nella quale vi fu sepellito 1140 anni fa il corpo di santa Candida juniore, che poi dal cardinale Rainaldo Brancaccio fu trasportato nella chiesa di Sant’Angelo, né si sa dove collocato, benché altri vogliono che stia nella stessa chiesa sotto l’altare alla detta santa dedicato; et in detta cassa vi si legge intagliato un antico epitaffio postovi dal figliuolo della santa, e qui mi maraviglio della spositione di Pietro di Stefano, che scrive de’ luoghi sacri di Napoli, in una “G” ed “F” puntata che vi si vede, dicen[165]do che lo “G” esprime la casa, che era Garrafa, quando 900 anni in dietro di raro si trovan scritte queste casate. Lo “G” dice il nome del padre, che da questa lettera cominciava, l’“F” vuol dir filia.

Nell’altare maggiore vi è una bellissima tavola, nobilmente adornata con beni intesi intagli, nella quale si veggono espressi la Vergine santissima col suo Figliuolo in braccio e sotto sant’Andrea e san Marco evangelista, particolar protettore degli osti in Napoli, opera del nostro Francesco Curia. La tavola ovata, che sta di sopra, è dell’opere belle ch’habbia fatte il nostro Santafede.

A lato, più sotto di questa chiesa, e proprio dove è il parlatorio delle monache di Donnaromita, vi è traditione che vi fusse stata l’università de’ studenti, però non se ne trova scrittura che possa comprobarla.

Segue a questa chiesa l’antico [166] monastero di Donnaromita, e questo titolo vien corrotto dal volgo, dovendosi dire il monasterio delle donne di Romania, dalle quali hebbe principio, et in questo modo. Vennero in Napoli molte monache greche, e particolarmente dalla Romania e da Costantinopoli, per isfugire la fiera persecutione che nella Grecia pativa il nome christiano. Furono queste con grand’amore e carità ricevute da’ nostri napoletani, i quali, accioché mantenuto havessero il candore della loro purità e l’osservanza della loro regola, l’edificarono una picciola chiesa e monasterio nel luogo, appunto, dove sta il Seggio di Nilo, e vi si racchiusero; e santamente vivendo sotto la regola del padre san Basilio, diedero motivo a molte divote nobili napoletane d’imitarle, e con esso loro si racchiusero. Doppo molt’anni passorno all’osservanza della [167] regola cisterciense, instituita dal padre san Bernardo, e da questa nell’anno 1540 passorno a quella di san Benedetto, che fin hoggi esattamente osservano. Mutò poi sito il monasterio, e passò dove hoggi si vede; fu ampliato nell’anno 1300 da una divotissima monaca della regal famiglia d’Angiò chiamata Beatrice, la quale santamente morì, et il suo corpo incorrotto si conserva. Nell’anno 1535 in circa fu la chiesa rifatta alla moderna col disegno e modello di Giovan Francesco Mormandi. Questa chiesa fu chiamata con diversi titoli: prima fu detta Santa Maria del Percejo di Costantinopoli, altre volte delle Donne di Romania; fu appellata ancora Santa Maria delle Donne romite di Costantinopoli, in altri tempi Santa Maria Assunta, e per ultimo Santa Maria Donnaromita.

In questa chiesa si può vedere la suffitta tutta dipinta da Teodo[168]ro Fiamengo; la tavola dell’altare maggiore anco è di mano dell’istesso; e l’altare di pretiosi marmi vagamente commessi è opera di Bartolomeo e Pietro Ghetti.

Nella prima cappella dalla parte dell’Evangelio vi è una tavola nella quale sta espressa la Vergine con due santi di sotto, opera di Domenico Gargiulo detto Spatario, nostro napoletano.

Vedesi in questa cappella un marmo con una iscrittione in lingua greca, miserabile avvanzo dell’infiniti (per cosi dire) che arricchivano la nostra città. È da sapersi che vi era una antichissima chiesa dedicata a’ Santi Giovanni e Paulo, edificata alla greca con tre altari, ne’ quali chi vi celebrava, come anco fu uso nel rito latino, non si volgeva al popolo nel dire “Dominus vobiscum”, né a dar l’ultima benedittione, perché faceva il sacrificio a faccia del popolo che v’assisteva.

In questa chiesa, dirimpetto [169] al maggior altare, stava situato questo marmo. Fu poscia questa chiesa conceduta alli padri della Compagnia di Giesù, i quali la fecero buttar giù per edificare la loro nuova, che hora è detta del Colleggio, o, come dal volgo, del Giesù Vecchio, a differenza della Casa Professa delli stessi padri che fu edificata. Doppo, i compadroni della prima chiesa, dell’antichissima casa Del Duce di Napoli, che forse prende il cognome da quel duce di Napoli che l’edificò, si presero questo marmo, e doppo di qualche tempo lo collocorno in questa cappella, che fu fatta gentilitia di detta casa. Questa iscrittione è riportata da moltissimi de’ nostri scrittori, e da alcuni si dice perduto l’originale, perché, forse per poca diligenza ed accuratezza, non han voluto trovar dove trasportato fusse. Io poi, che non ho voluto, in queste notitie che do, stare solamente a’ riporti di scrittori, ma ho vo[170]luto far giudice l’occhio in tutto quanto ho potuto su quel che ho trovato scritto, mi portai a bene osservarlo; ed essendomi avveduto che la versione latina non corrispondeva alla greca, perché si vedeva mancante, e che il traduttore havea preso qualche sbaglio, non volli stare al mio proprio giuditio, ma ne richiesi il parere del signor dottor Giacinto de Christofaro, giovane di buona eruditione ed esperto nella lingua greca. Questo (per favorirmi) si portò ad osservarlo, e trovando che il marmo era mancante, l’esemplò tutto e lo communicò col signor Bernardo suo padre. E questo buon gentilhuomo volle portarsi unito con me ad osservarlo; e, doppo d’haverlo esattamente esaminato, trovò che era mancante, forse per qualche disgratia accaduta nell’essere slocato dal suo primo sito, o per poca diligenza di chi lo slocò, havendo lasciato qualche pezzo di marmo che a questo s’u[171]niva che però si diede con ogni studio ed attentione ad osservare tutti i scrittori che l’haveano riportato per doverlo restituire al suo antico senso, come di sotto sta riportato, avvertendo i signori lettori che le lettere greche più picciole che vi si veggono sono quelle che mancano.

θεόδ ΩΡΟΣ YΠΑΤΟΣ ΚΑΙ ΔΟYΞ ΑΠΟ ΘΕΜΕ -
λιων ΤΟΝ ΝΑΟΝ OIKΩΔΟMHΣAΣ KAI THN ΔI -
αкονίαν EK NEAΣ ANYΞAΣ EN INΔ. TETAPTH
τηѕ βασιλειας λεONTOΣ KAI KΩNΣTANTINOY TΩN ΘΕO -
ФIΛΛ.

Le lettere che seguono sono più minute.

KAI TON BAΣIΛEON ΣEMNOΣ BIΩΣAΣ
.... ENTE ПIΣTI KAI TPOПΩ
ΣEΠTOΣ METEΣП. TOY BIOY
.... ENΘAΔE ZHΣAΣ XPIΣTΩ
[172] .... EI .... KAI M.

Il restante sta roso dal tempo.

Che, trasportata in latino dallo stesso signor Bernardo, è la seguente.

Theodorus Consul, & Dux a fundamentis templum hoc aedificavit, & Diaconiam de novo fundavit 4. indict. Imperij Leonis, & Constantini Dei amicorum, & Regum hic religiose vivens in fide, & ritu sancte consequutus est vitam æternam, & in hoc solo vivens Christo, & c. cæterum aut penitus abras, aut non intelligibiles litteras continet.

Che in volgare dice così:

“Teodoro consule e duca, dalle fundamenta questo tempio edificò e la Diaconia da nuovo costrusse nella quarta indittione dell’imperio di Leone e Costantino, amici di Dio e re, religiosamente menan[173]do la vita nella fede e rito, santamente conseguì la vita eterna; et in questo loco vivendo a Christo, etc.”.

L’altro è cossì manco che non si può leggere.

Nel fine del marmo greco vi sono molte lettere rose dal tempo che legger non si ponno, e però rimane così imperfetta la versione. Ho voluto avvertir tanto, accioché, se qualche signore erudito forastiere revolesse osservarlo, resti avvisato del mancamento che vi è.

Ne’ lati della porta maggiore, da dentro, vi sono due bellissime tavole, in una sta espressa l’Adoratione de’ Maggi, nell’altra Christo Signor Nostro flagellato alla colonna, opera del nostro napoletano Pietro Nigrone.

Si conservano in questa chiesa molte insigni e pretiose reliquie, donateli dalla già detta Beatrice d’Angiò, come si ha per antica tra[174]ditione, e fra queste una meravigliosa carafina del sangue del santo precursore Giovanni Battista, il quale, in ogni volta che in sua presenza vi si dice la messa, in legersi il suo Evangelio, si vede liquefare appunto come fusse uscito all’hora dal corpo; e molte volte, posto alla presenza della costa del detto santo che similmente in questa chiesa si conserva, ha fatto l’istesso effetto, miracolo degno d’essere da tutti veduto. Vi si conserva ancora: una gamba con tutto il piede intero di sant’Antonio Abbate; una parte del chiodo col quale fu crocifisso il Nostro Redentore, e sta nella punta d’un chiodo intero fatto a similitudine del vero; due spine della corona; del legno della Croce; della cinta e del latte della Vergine; un dente molare di san Christofaro; il corpo di santa Giuliana, benché incognito ne stia alle monache, e questo fu portato in Napoli dalla distrutta Cuma.

[175] La ricca supellettile della chiesa, e negl’argenti e nei ricami degl’apparati, si può vedere in tempo delle festività solenni, per veder cose molto nobili.

Caminando più avvanti, a sinistra vedesi la chiesa e monasterio di Monte Vergine. Questi nell’anno 1314 furono edificati da Bartolomeo di Capua, gran conte d’Altavilla e gran protonotario del Regno, nel suo proprio palazzo, incorporandovi un’altra antica chiesa intitolata Santa Maria d’Alto Spirito, che li stava attaccata; et havendoli riccamente dotati, li diedi in governo delli padri dell’ordine di san Guglielmo, e detta chiesa la edificò per la divotione che haveva alla sacra e celebratissima imagine di Maria Vergine dipinta da san Luca, che si conserva nella chiesa eretta nel Monte Vergiliano – come alcuni scrissero – hoggi detto Vergine, presso la terra de Mercogliano, fundato da san Guglielmo sotto la regola del [176] glorioso patriarca san Benedetto.

Nell’anno poscia 1588 fu rifatta nella forma ch’hoggi si vede dal Principe della Riccia e Gran Conte d’Altavilla decimoquinto, discendente da padre a figlio dal primo fundatore Bartolomeo; nobilmente restaurò la sepultura di quel grand’eroe et adornò di statue nobili, come si vede e si può legere dall’inscrittione; è stata per ultimo arricchita d’un bellissimo altare di marmi commessi e d’un famoso organo bene adornato con intagli posti in oro.

Dalla parte dell’Evangelio, nella cappella di mezzo della nave maggiore, vedesi una copia ben fatta dell’immagine che sta nel Monte Vergine, per mezzo della quale la Divina Misericordia si degna fare gratie infinite, et in questa cappella stanno sepolti i due gran giuristi che furono regii consiglieri, Mazzeco e Matteo d’Afflitto, che scrissero così bene che i loro scritti [177] si stimano nelle decisioni delle liti come testi.

Più avvanti a destra vi è il Gran Collegio de’ padri della Compagnia di Giesù. Questi, come si disse, vennero sotto la condotta del padre Alfonso Salmerone, compagno del patriarca sant’Ignatio, e presero a pigione una picciola casa nel Vicolo del Gigante, presso d’una cappelletta dedicata alla madre della Vergine sant’Anna, dove principiorno a ponere in opera il di loro instituto d’erudire i poveri ignoranti. Conoscendo i napoletani questo utilissimo al publico loro, comprorno la casa del Conte di Madaloni, dove nell’anno 1557 passorono ad habitare, accomodandovi al meglio che si poté i luoghi per le scuole, servendosi dell’antica chiesa di San Pietro e Paolo, loro conceduta da Alfonso Carrafa arcivescovo di Napoli per insegnare all’anime la via del Cielo. Per la loro bontà e dottrina, poi, talmente s’affettiona[178]rono gl’animi de’ napoletani, che a gara correvano le caritative sovventioni per render comodi i padri, e particolarmente Roberta Carrafa, duchessa di Madaloni, li sovvenne in modo che ne fu chiamata fundatrice, come nell’iscrittione in marmo su la porta del cortile si legge. Quale cortile fu fatto a spese de’ figliuoli di Cesare d’Aponte, e per la magnificenza è degno d’essere veduto: ha due ordini d’archi maestosi l’un sopra l’altro, tutti di travertini ben lavorati, et intorno vi sono bellissimi stanzoni per l’uso delle scuole e degl’oratorii. Vi è ancora un famoso salone in piano del secondo ordine degl’archi, dove sogliono farsi gl’atti publici nelle difese delle scienze che in detto collegio si legono, e l’orationi nell’apertura degli studii doppo delle vacanze. La memoria de’ fundatori, et il tempo nel quale fu fundato, stan intagliati in un marmo situato sugl’archi dirimpetto alla [179] porta, che comincia: Caesaris de Ponte filij, & c.

L’antichissima chiesa di San Pietro e Paolo fu diroccata, e nell’anno 1564 si diè principio alla nova, col modello e disegno del padre Pietro Provedo, quale poi fu terminata nella forma che hoggi si vede a spese del Principe della Rocca, della casa Filamarino, e per questo se ne intitola fundatore, come apparisce dall’insegne Filomarine poste negl’angoli della cupula, e dall’inscrittione collocata su la porta da dentro.

Con l’abolitione della chiesa di San Pietro e Paolo si tolsero molte antiche memorie, e fra l’altra quella di Teodoro Duce, che la riedificò; ma per gratia di Dio si conserva hoggi (come si disse) dentro la chiesa di Santa Maria Donnaromita, e proprio nella Cappella de’ Signori del Duce, insieme colla cassa di marmo del sepolcro del detto Teodoro, delicatamente intagliata.

[180] La tavola che sta nell’altare maggiore, dove sta espressa la Circoncisione del Signore, perch’è la chiesa dedicata al nome di Giesù, è opera di Marco da Siena, il ritratto del quale con quello della moglie stando sotto, e quello di Marco è quella figura barbuta.

Nel cappellone della croce, ricco di famosi marmi mischi, con belle colonne d’africano, designata e guidata dal cavalier Cosmo Fansaga, con due statue dell’istesso, il quadro che in esso si vede, dove sta espresso San Francesco Xaverio che battezza molti re indiani, è opera di Cesare Fraganzano, nostro regnicolo; in questo anco si vede la miracolosa imagine dell’istesso santo in habito di pellegrino che parlò al padre Marcello Mastrillo, come appresso si dirà.

Dalla parte dell’Evangelio vi è l’altro cappellone copiato da questo. Il quadro, dove sta espresso Sant’Ignatio che guarda il Signore con la cro[181]ce in spalla, è opera di Gioseppe Marullo, ma per la sua infermità non poté finirlo di sua mano.

Nelle prime cappelle, l’una dirimpetto all’altra, vi sono due tavole: in una sta espressa la Trasfiguratione del Salvatore, nell’altra il Sacro Natale, ambe opera di Marco da Siena.

Nella cappella dalla parte dell’Epistola, dedicata a San Francesco Borgia, l’architettura è di Giovan Domenico Vinaccia, i lavori de’ marmi di Bartolomeo Ghetti, e la statua del Santo è di Pietro Ghetti suo fratello. La tavola che nell’altra cappella si vede, dove sta espresso Sant’Ignatio Antiocheno, è opera dell’istesso Marco di Siena.

Dai lati della porta, da dentro, vi sono due mezze statue: una del Beato Luigi Gonzaga, l’altra del Beato Stanislao, di stucco, fatte tutte di mano del cavalier Fansaga, stimate molto belle.

Vi è una ricca sacristia, dove si [182] conservano famose statue d’argento e le seguenti reliquie, oltre quelle che stanno ne’ reliquiarii della chiesa: un pezzo del legno della Croce; un dito di san Giovanni Battista; un dente molare di san Gennaro; una costa d’uno degl’Innocenti, il braccio di san Vitturino martire, un pezzo della gamba di san Teodoro martire, un pezzo delle reliquie del beato Luigi Gonzaga, due teste delle compagne di sant’Orsola, una carrafina piena del sangue di santa Potentiana, et altre.

Vi stanno sepolti i corpi del padre Salmerone, del padre Rodriquez, e d’altri huomini insigni e per lettere e per bontà di vita.

Dalla chiesa si può passare a veder la casa, e per prima il cenacolo o refettorio, ultimamente terminato, che né più bello né più allegro farlo potrebbe l’istessa allegrezza; fu maestosamente architettato da Dionisio Lazari, capace per centi[183]naja di padri. I sedili sono di finissime legname di noce ben lavorati; oltre della vaghezza de’ stucchi, sta adornato di bellissimi quadri, opera di Domenico de Marino, e sopra la sedia del superiore vi è il tanto rinomato quadro del Salvatore, opera la più bella che sia uscita dal pennello di Leonardo Guelfo detto il Pistoja.

Attaccato a questo vedesi il vaso della libreria, che tuttavia si va terminando, e terminato forse sarà il più famoso e grande della nostra città.

Vedesi la scala maestra, che si stima la più bizzarra e bella che veder si possa in Napoli, e fu questa architettata dal cavalier Fansaga.

Vedesi sopra l’ordinaria libreria, ma non è ricca di molti libri perché stanno in diverse camere de’ padri. Quella sì che è degna d’essere veduta, dove stanno ligati in pelle cremesi e posti in oro tutti i libri fin hora usciti dalle penne de’ giesui[184]ti, e veramente la quantità è d’ammiratione.

Vi si vede la camera del padre Marcello Mastrilli, hora ridotta in una vaghissima cappella nobilmente dipinta et adornata con varie galanterie, e fra queste d’una statua del Crocifisso scolpita in un dente di cavallo marino, cosa assai bella e per la materia e per lo lavoro. Questa era una camera dell’infermaria: il padre Marcello Mastrilli, nato nobile nella città di Nola, assistendo ad uno degl’altari che si facevano nell’ottava dell’Immacolata Concettione, tanto celebrata dentro il Regio Palazzo, li cadde in testa un martello che li fece una gran ferita; fu menato in questa camera a curarsi, dove si ridusse agl’estremi della vita, e, mentre stava già spirando, l’imagine additata nella chiesa di San Francesco Xaverio, che all’hora stava in questa camera dove il padre giacea moribondo, li parlò e dissegli: “Marcello, se sani, vuoi tu an[185]dar nell’Indie?” “Sì”, rispose, e vi si obligò per voto. E così di fatto ricevé la salute, in modo che nel mattino calò in chiesa a dir la messa dove doveva essere sepellito, havendo gl’infermieri apparecchiato tutto ciò che bisogna per il mortorio. Il detto padre poi adempì il voto: andò nell’Indie a predicare, dove in brieve fu martirizzato.

Si può vedere la famosa farmacopea, o spetiaria, che né più maestosa né più ricca si può desiderare, e per li vasi e per la dispositione e per la robba, non mancandovi cosa che nella medicina desiderar si possa.

Vi si vede una tromba per cavar l’acque, stravagantissima, che dà acque per tutta la casa fin su gl’astrichi, oltre degli dormitorii e dell’officine.

Nel cortile già detto vedesi un antico marmo, che sta nella parte delle scuole, nel quale vi sta intagliato:

[186] Piissimæ, & clementissimæ Dominę nostræ Aug. Helenæ matri Domini nostri victoris semper Aug., & aviæ dominorum nostrorum beatissimorum Cæsarum uxori Domini Costsantini ordo Neap. p.

Usciti da questo collegio e tirando avvanti, passata la chiesa, per calare nel vico anticamente detto Monterone, hoggi detto Sant’Angelillo; e qui terminava l’antica città, e vi stava la muraglia ch’avea sotto il mare, et in questo luogo stava la Piazza di Nilo, quale essendo stata trasportata, come si disse avvanti, la chiesa di Santa Maria de’ Pignatelli, il luogo fu comprato dalla famiglia Afflitta, che vi edificò il palazzo che poi fu comprato da’ padri giesuiti.

Seguitando il camino dal detto quadrivio di seggio di Nilo, la casa che si vede a sinistra, attaccata a quella del Panormita: questa era la casa de’ Conti di Montorio, secondogeniti de’ Conti di Mada[187]loni, et in questa nacque Giovan Pietro Carrafa, che poi fu assunto al pontificato e chiamossi Paolo IV. Il cardinal suo nipote in memoria di questo la rifece, e l’adornò della facciata moderna e del famoso cornicione che vi si vede, e vi pose nel mezzo, sotto del detto cornicione, l’arme cardinalitie della casa Carrafa. Essendo questa per ultimo pervenuta in possesso di don Antonio Gattola, marchese d’Alfedena, fé cancellare dette armi, ma pur se ne veggono i segni del cappello e de’ suoi lacci nel pozzo, però, che sta nel cortile; e su l’arco della volta, dalla parte di dentro dello stesso cortile, vi son rimaste l’armi del cardinale. Questa casa non sta nella sua antica ordinanza, perché le stalle e le stanze della famiglia sono state ridotte in botteghe e camere locande.

Nel mezzo di questo palazzo vi è un vico anticamente detto Salvonato, hoggi dicesi delli Rota per l’antiche case di questa [188] famiglia che vi stanno.

A destra vedesi l’antico palazzo fabricato da Diomede Carrafa primo conte di Madaloni, che fu così caro a Ferdinando Primo d’Aragona re di Napoli, e questo fu stimato il più bello che fusse in Napoli, sì per la struttura meravigliosa in que’ tempi, sì anco per la quantità delle pretiose et antiche statue che l’adornavano, delle quali la maggior parte e le più stupende sono andate via, sì per molti disastri accaduti a questa casa, sì anco perché i padroni o non habbian curato, o non habbian saputo che tesoro siano le buone statue antiche. Dirò solo che, delli fragmenti che rimasti vi sono, si può argomentare che cosa era il meglio che ne è stato tolto.

Su la porta vi si vede una bella statua intera antica, con altre teste di imperadori similmente antiche.

Nell’atrio del cortile vi stanno molte necchie, dove stan collocate [189] molte teste, e particolarmente nella seconda, a man destra entrando, vi è quella di Cicerone. Nell’arco di dentro, a man sinistra similmente entrando vi si vede la statua intera di Mutio Scevola; dalla destra d’una Vestale, benché in qualche parte mancanti. D’intorno al cortile se ne veggono molte, e fra queste – a man destra – un Mercurio nudo, che con più disegno e bellezza non si può desiderare. Vi si veggono molte antiche pire historiate, che l’ignoranza di chi poco l’ha conosciute l’ha fatto servire, furandole, per bocca de’ pozzi. Vi sono molti bassi rilievi, e, pochi anni sono, fu tolta una tavola nella quale stava scolpito il Tempo alato, che cosa più bella desiderar non si poteva. Fu questa trasportata nella villa del Consiglier Prato, e, morto il consigliero, stimasi bene che coll’altre statue sia passa[190]ta in potere d’Andrea d’Aponte.

A sinistra, su la porta della stalla, vi si vede un’urna, o cassa antica di sepolcro bene historiata, e sopra una testa che si stima d’Antinoo – cotanto amato da Adriano, che adorar lo fece in Atene come nume, e che, come dice il nostro eruditissimo Giordano, in Napoli li fece fabricare un Tempio, che era quello dove hoggi si vede la chiesa di San Giovanni Maggiore – però io non stimo che questa d’Antinoo sia, ma bensì che sia stata portata via coll’altre più pretiose che stavano nelle mura di fuori, dove appunto si veggono certe basette di marmo, et haverà da 40 anni che ne fu tolta una testa d’Augusto che non haveva prezzo.

Nell’istesso cortile vi si vede una gran Testa d’un cavallo di bronzo, stimata dagl’intendenti mirabile, e mi meraviglio molto come Giorgio Vasari con tanta libertà scriva che questa testa fusse stata fatta da [191] Donatello fiorentino, quando i nostri antichi historici parlano di questo Cavallo fin da quei tempi ne’ quali Donatello stava in mente di Dio. Questa Testa è di quel tanto rinomato Cavallo di bronzo che era, come vogliono gl’antichi scrittori delle cose di Napoli, l’impresa della nostra città, che fin hora va ritenuta dal seggio di Capuano, e Nido, con questa differenza: che Nido l’usa sfrenato, e Capuano frenato. Questo è quel Cavallo al quale il re Corrado fece ponere il freno, come se ne veggono gl’anelli saldati dall’una parte e l’altra della bocca, ponendovi sotto la seguente inscrittione, doppo che così crudelmente entrò in Napoli:

Hactenus effrenis Domini nunc paret habenis
Rex domat hunc equum Parthenopenis equus.

Ma io stimo che questo Cavallo, che chiaramente si vede essere opera antica, e greca, o fatta in quei [192] tempi andati ne’ quali la scultura fioriva; che stasse nel Tempio d’Apollo, o di Nettuno come altri vogliono (e come si disse), perché si vedeva avvanti della Cattedrale, e proprio dove sta eretta l’aguglia, e dove fu trovata (come dissimo nella prima giornata) quella sì bella e famosa colonna di marmo cipollazzo, e questo nell’anno 1322 fu fatto disfare per opra dell’arcivescovo, a cagione di toglier via la superstitiosa credenza del volgo napoletano, il quale, seguendo alcune puerili dicerie di Giovanni Villano, credulo forse all’inconsiderate traditioni de’ semplici antichi, stimava che Vergilio fusse stato mago, e che havesse fatto per arte magica la grotta per la quale da Napoli si va a Pozzuoli, che havesse incantato le sanguesughe accioché non fussero entrate nell’acquedotto della città, e le cicade che non havessero importunato col di loro stridolo cicalare la città, e tante [193] altre vanità. Si stimava ancora che il Cavallo fusse stato fatto dall’istesso Virgilio, e che per via d’incanto li fusse stata data una virtù di sanare il dolor del ventre a tutti quei cavalli che d’intorno li fussero stati raggirati, e questo s’haveva quasi per infallibile, onde per toglierlo, come si disse, fu fatto disfare, e del corpo – come ve n’è certissima traditione – se ne formorno le campane. Si perdonò al capo, et al collo, sì per essere così bello, sì anco per mantenerlo in memoria.

Diomede Carrafa, havendo arricchito questo suo palazzo di statue pretiosissime, colla sua potenza ottenne questa Testa, e qui la collocò, dal che si ricava che il Vasari, e come ha fatto molte volte per arricchire i suoi, ha cercato d’impoverire gli altri, come in molte altre cose si vedrà, et essendo egli venuto in Napoli, parla in un modo di questa città, come appunto fusse venuto in una villa, facendo credere che [194] non vi erano né scoltori, né dipintori, né dipinture d’altri buoni maestri, o pure egli ha preso sbaglio. Il Cavallo che fece Donatello non fu questo, ma il Cavallo picciolo che sta sulla colonna eretta nel mezzo del cortile, e la testa di questo picciol Cavallo la copiò dalla grande; e per darne notitia: è da sapersi che Diomede Carrafa fu egli il sesto figliuolo di quel valoroso Antonio Carrafa, detto Malitia, che imitando il padre servì così bene Alfonso Primo, et egli fu capo de’ soldati che per l’acquedotto entrarono in Napoli, e furono cagione di farla venire in potere d’Alfonso, che carissimo gli divenne, e ricevé premii dal Re condegni al suo merito, e, morto Alfonso, anco carissimo restò al suo figliuolo e successore Ferdinando, in modo che cosa alcuna non deliberava senza del consiglio e parere di Diomede, di già intitolato conte di Madaloni.

Un giorno, havendo [195] stabilito Ferdinando d’andar col conte a caccia, e levatosi per tempo, non essendo venuto in castello secondo l’appuntato il Conte, egli, postosi a cavallo, andò nel suo palazzo a sollecitarlo, e l’aspettò nel cortile finché fusse levato dal letto e vestito, onde il Conte, in memoria di un così segnalato favore, fece erigere in quel luogo, dove aspettato l’haveva, la colonna come si vede, e sopra vi collocò la statua del Re a cavallo, e questa fu quella che fece Donatello trovandosi in Napoli.

Per le scale si vedono diversi bellissimi torsi di marmo, e nobilissimi bassi rilievi; su la porta della sala vi è il ritratto di marmo del Conte, et anco quello della moglie; su le porte delle stanze si veggono teste bellissime antiche; nelle cantine vi stanno quantità di pezzi di statue rotte; nella base della colonna che [196] dal cortile sostiene l’atrio della sala vi sta scritto da una parte:

Has comes insignis, Diomedes condidit ædes in laudem regis, patriæque decorem.

E dall’altra:

Est & forte locus magis aptus & amplus. In Urbe sit. Sed. Ab agnatis. Discedere. Turpe. Putavit.

Usciti da questo palazzo, nel dirimpetto a sinistra trovasi una picciola chiesa con un conservatorio di donne dedicato al glorioso San Nicolò detto di Bari. Questo fu edificato dalla pietà de’ napoletani, quietate che furono le motioni popolari accadute nell’anno 1646, per raccogliere molte povere ragazze che disperse andavano per la città morendo per la fame.

Passata questa chiesa, e Palazzo del Conte di Madaloni, si veggono due vicoli. Quello che va a destra chiamavasi anticamente il Vicolo di Casanova, per la nuova casa del Conte di Madaloni, et in [197] questo vico vi è la porta del monasterio de’ monaci di Monte Vergine, e, passata questa porta, nella casa, che anticamente era de’ Conti di Marigliano, che oggi al detto monastero sta incorporata, vi era il Seggio detto similmente di Casanova, che sta unito hoggi a quello di Nido; hora questo vico vien detto di San Filippo e Giacomo. L’altro, che per un sopportico va su, dicevasi degli Acerri; oggi dicesi d’Arco, o degli Muscettoli, nel quale vico tutte le case che stavano a destra, di famiglie antiche, sono state incorporate al monasterio di San Ligorio, e coll’occasione di fare il nuovo refettorio vi sono state trovate bellissime fabriche antiche d’opera laterica, e reticolata, et una cameretta particolarmente, che era a forma d’una cappella, mi diede ammiratione in vederla più di quaranta palmi a fondo, in modo che si può credere che questa parte di città fusse stata ne’ tem[198]pi antichi assai più bassa.

Continuando il camino per la strada maestra, presso del conservatorio (come si disse) di San Nicolò, vedesi il publico Banco detto del Salvatore. Fu eretto questo dalla fedelissima città di Napoli dentro del chiostro di Santa Maria di Monte Vergine, con titolo di cassa delle farine per l’introiti et esiti del denaro che da queste pervenivano; hoggi è rimasto Banco publico.

Dirimpetto a questo, a destra, si veggono la bella chiesa et un gran conservatorio eretto dalla communità della nobile Arte della Seta, e la fundatione fu così. Questa numerosa comunità della seta, che in sé contiene mercadanti così cittadini come forastieri, che maneggiano seta, filatorari, tessitori, tintori et altri, che governata viene da’ suoi consoli che in ogn’anno si eliggono, e che ha privilegii grandi conceduteli dal re Alfonso Primo d’Aragona, che [199] quest’arte introdusse in Napoli, e particolarmente di non potere, i matricolati nell’arte sudetta, essere riconosciuti e puniti ne’ di loro delitti, se non dai consoli medesimi; maritava questa communità in ogn’anno con 50 scudi di dote le povere figliuole de’ suoi artisti o morti o inhabili al fatigare; ma perché molte volte stavano in pericolo dell’honore prima d’esser pronto il matrimonio, nell’anno 1582, nella chiesa dedicata a San Filippo e Giacomo, sita nella Strada de’ Parrettari, eressero un conservatorio sotto la protettione della gran Madre di Dio, dove riceverono da cento figliuole di madri e padri honorati dell’Arte.

Poscia, non riuscendo commodo questo luogo per le tante che ve n’erano, nell’anno 1591 comprarono il Palazzo del Principe di Caserta, e vi edificarono il conservatorio colla chiesa che hoggi si vede. Et in questo luogo vi sono tra monache e figliuo[200]le circa 300, le quali sono tutte ben trattate, e commodamente vivono coll’assentare contributioni che escono dall’arte medesima.

Nella chiesa vi sono belli argenti e ricchi apparati di ricamo per tutte le mura, lavorati dall’istesse monache e figliuole.

Passato questo conservatorio, vedonsi due vichi, uno a sinistra, il quale anticamente era detto de’ Vulcani, famiglia che gode nella piazza di Nido: poi si disse Vico de’ Sanguini, che l’istesso che Sangri, antichissima e nobile famiglia dell’istessa piazza; qual vico hoggi sta incorporato nel monasterio di San Gregorio, volgarmente detto Ligorio, e quello che vi è restato di detto vico hoggi dicesi di Santa Luciella, per una chiesetta che vi sta, dedicata a Santa Lucia, della comunità de’ pistori o molinai. A destra ve ne è un altro, anticamente detto Misso: hoggi chiamasi di San Severino e di San Marcelli[201]no, per due famosi monasterii che vi stanno, uno di monache, l’altro di monaci, che vivono sotto la regola di san Benedetto. Per essere degl’antichi e famosi che siano nella nostra città, se ne deve dar contezza.

Questo vico va a terminare in una piazza, che anticamente veniva detta Montorio: hoggi chiamasi Piazza di San Severino o di San Marcellino et anco d’Andria, per il famoso palazzo che vi si vede de’ signori Duca d’Andria della nobilissima casa Carrafa.

La strada poi che va giù a modo di scale, non carrozzabile, di sotto la chiesa di San Severino, anticamente veniva detta Scalese, e qui stavano l’antiche muraglia della città molto prima dell’ampliatione fatta dagl’Angioini. E circa 50 anni sono, coll’occasione di riedificare alcune case, se ne scoverse una parte, che era tutta di quadroni di pietra molto belli e massicci. In questo [202] luogo ne’ tempi d’Alfonso era il quartiero delli soldati spagnuoli.

Nella piazza già detta dell’antico Montorio vedesi il monasterio di San Marcellino di monache benedettine, che prima vivevano sotto la regola di san Basilio. Questo monasterio dicono alcuni de’ nostri scrittori che fondato fusse negl’anni 795 da Antimo, consule e duce di Napoli, che la governava per l’imperio greco, o, come altri dicono, da Theodonanna, moglie di detto Antimo, e l’edificò nel medesimo palazzo nel quale il marito aveva tenuta ragione, ancorché si trovino alcuni istromenti a beneficio di detto monasterio prima del detto anno 795; e potrebbe essere che dalla detta Theodonanna fusse stato restaurato o riedificato. Nell’anno poi 1154 dall’imperador Federico Enobarbo detto Barbarossa fu in qualche parte restaurato, e per la divotione che haveva alla chiesa li donò il suo manto [203] regale, del quale ne fu fatto un paleotto, una pianeta e due tonacelle di ricchissimo broccato riccio, e fin hora se ne conserva il paleotto, che s’espone nelle feste degl’Apostoli. La pianeta e tonacelle, essendo alquanto invecchiate, inavvertentemente dall’abbadessa di quel tempo furono fatte bruggiare per ricavarne l’argento, e si tolse con questo una memoria così celebre e antica che era per così dire molto onorata per detto monasterio.

Essendo poi questa chiesa non molto grande all’hora, e così malmenata dal tempo che quasi minacciava ruina, si risolsero le monache di rifarla di nuovo nel luogo dove al presente si vede, perché prima stava alla destra dell’intrata del parlatorio, come fin hora se ne veggono le vestigia. E così, col disegno di Pietro d’Apuzzo, nel mese di luglio dell’anno 1626 vi fu posta sollennemente la prima pietra dal [204] cardinal Francesco Buoncompagno arcivescovo di Napoli, e fu terminata circa l’anno 1633. E nell’anno 1645 a’ 9 di ottobre, essendo arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino, fu sollennemente consegrata da Tomas’Antonio del Pezzo arcivescovo di Sorrento. A questo monasterio ve ne fu unito un altro dedicato a San Festo, quale era stato edificato circa gl’anni del Signore 750 da Stefano, consule e duce di Napoli, che doppo la morte della moglie, come si disse, fu eletto vescovo di questa città. E questa unione accadde nell’anno 1565, essendo arcivescovo di Napoli Alfonso Carrafa, nipote del pontefice Paolo Quarto, perché stava quasi diruto, e non in molta osservanza; e colla chiesa e monasterio vi furono anco incorporate tutte le rendite e ragioni che haveva: quale unità fu fatta con autorità e consenso del santo pontefice Pio Quinto. E questa chiesa [205] di San Festo stava dirimpetto alla porta della chiesa del Collegio. Vi è ancora incorporata la chiesa dedicata a San Donato, per corruttela del volgo detta San Renato, come in molti istrumenti, quale stava sotto del detto monasterio dalla parte di tramontana, come anco dalla parte d’oriente vi stava la sinagoga degl’hebrei che dimoravano in Napoli, come nella seguente giornata si vedrà.

Gl’ornamenti di questa chiesa di San Marcellino sono belli et nobili. I quadri della suffitta posta in oro sono opera del cavalier Massimo Stantioni. Le dipinture a fresco della cupula e degl’angoli sono del pennello di Belisario Corentio. Vi sono anche alcuni quadri della chiesa vecchia dipinti da Pietro Donzello. L’altare maggiore è tutto incrostato di nobilissimi marmi commessi. La tavola di mezzo, nella [206] quale sta espressa la Trasfiguratione del Signore, è opera di Leonardo Lama. Sopra di questa tavola vi è un tondo similmente di tavola nel quale sta espressa la miracolosa imagine del Salvatore, e per haverne contezza è da sapersi che questa sagra imagine nell’anno 999 fu dall’imperador Basilio mandata in dono da Costantinopoli all’arcivescovo di Napoli. I facchini che dalla nave la portavano alla casa arcivescovale, per riposarsi, ancorché non fusse di molto peso, posero la tavola predetta su d’un tronco di colonna che stava avvanti la porta della chiesa, che è quello che sta conservato con un cancello di ferro presso la porta del monasterio con un’iscrittione sopra, che in quel tempo vi era la porta dell’antica chiesa, ancorché alcuni scrivono che questa fusse la chiesa di San Sossio, ma non è vero, perché quel muro di clausura che seguita è [207] fatto a’ tempi nostri: la chiesa di San Sossio stava dalla parte del Colleggio de’ padri giesuiti passato il vicolo, che fu chiuso ed incorporato al monastero. Ma tornando al racconto, volendo i facchini ripigliare il peso per continuare il camino, non fu possibile, per molta fatiga e per ajuto che v’impiegorono, di poterlo rimovere dalla detta colonna; onde parendo che il Signore disponesse che questa sua imagine in questo sagro luogo rimanesse, uscirono dal monasterio due novizie, e con facilità grande la presero e l’introdussero nel monasterio, collocandola su l’altare di San Marcellino. E per mezzo di questa i napoletani riceverno gratie infinite. Dal nostro Cesare d’Engenio si porta che nell’inscrittione che sta di sopra la colonna vi sia errore di tempo, ma dal nostro Chioccarello si chiarisce.

Dalla parte dell’Evangelio vi è [208] una bellissima cappella di marmo. Il quadro dove sta espresso San Benedetto è opera di Gioseppe di Rivera. Vi si conservano molte reliquie, e fra queste un braccio di san Donato, che stava nella sua chiesa, et un deto di san Benedetto. Vi sono bellissimi argenti et in quantità, e ricchi apparati di ricamo per tutta la chiesa. Il monasterio è bellissimo, fabricato alla moderna con dilettose vedute al mare dalle camere. Vi è un’acqua perenne che viene dal colle, e sta rattenuta con una gran chiave di bronzo, ed è della stessa qualità di quello di San Pietro Martire. Vi si conserva un famoso archivio di scritture in pergamene fin dall’anno 763: io confesso havere ricavato da queste scritture notitie pur troppo belle e recondite. E qui, per dare a’ miei carissimi [209] paesani una erudita curiosità, scrivo che questo antichissimo monasterio fundato si trova nell’anno 763 regnando Costantino, e poi Leone Porfilogenito suo figliuolo, come autenticamente si può provare con gl’istrumenti che si conservano nel suo nobile archivio, tradotti dall’antico carattere nel nostro corrente dal’accuratissimo nel’indagare il buono ed il vero della nostra città il signor marchese di San Giovanni don Marcello Bonito, cavaliere di Calatrava, che trae la sua nobile origine dalla famosa città d’Amalfi.

Presso di questo monasterio stavano l’antiche mura della città, come a’ miei tempi se ne scovrirono alcune vestiggie, che erano d’una fortissima struttura, da me accennate; sopra queste muraglie (potendosi con sicurezza congietturare) vi stava una campana per toccarla all’armi ogni quando si vedevano approssimare in Napoli legni saraceni. Poi, con l’ampliatione della no[210]stra città, vi è una traditione che detta campana fusse restata dentro del monasterio. Io, per cavarne la verità, pregai un ingegniere che era solito, per cagion delle fabriche, che havesse osservato le campane di che struttura erano; mi compiacque e mi riferì che una delle maggiori era e di strottura e di metallo antico, e che vi erano le seguenti lettere impresse a caratteri antichissimi, che qui li riporto come mi vennero dati, non havendo potuto io vederli ed accuratamente osservarli:

Mentem, sanctam, spontaneam, hanc honora Deo † Et Patriæ Liberationi, quæ pro Urbis
Munitione † Turcharum. Timore. Fusa. Fuit. Anno 1.5.3. Civitatis inpensa refecta est = 1.54.

E dall’altra parte:

Turcarum Timore, Fusa quæ pro, Urbis, munitione, Civitatis impensa refecta esse 1 = 5.4.0
Fuit Anno 1.5.3.

[211] In questi numeri però mi par che vi manchi qualche nota guasta dal tempo, e, se bene vi si vedono nel fin S. T. O. puntati, come era uso del signare antico, così ne’ marmi come ne’ bronzi, non l’ardisco dire fatta nell’anno 540 per la voce Turcarum: essendo che questi non furono in quel tempo.

Nel capo di questa piazza vi si vede la famosa chiesa coll’ampiissimo monasterio di San Severino e Sossio de’ monaci cassinensi di san Benedetto. La chiesa, per la sua grand’antichità, non ha certezza di fondatione. Stimasi che fusse stata fundata dalla pietà de’ napoletani in honore del di loro santo vescovo Severino, illustre per infiniti miracoli, che fu eletto vescovo nell’anno 100 della nostra salute, e che passò nella gloria celeste nell’anno 120, essendo stato fratello di san Vittorino; e che detta chiesa fusse stata [212] edificata nelle case proprie del santo, dove habitava. Altri vogliono che havesse havuto il suo principio nel tempo di Costantino il Grande, ma può essere che in quei tempi fusse stata restaurata. Have ella havuto varii titoli, come di San Severino, di Santa Maria del Primo Cielo, per una miracolosa imagine che vi stava di questo nome; fu chiamata ancora di San Basilio, per le monache basiliane che anticamente vi stavano, e di San Benedetto, per essere poscia da’ padri benedettini governata.

Nell’anno 910, poi, in questo luogo dall’Isola del Salvatore, distrutta dal furore bellico, vi fu trasportato il corpo di san Severino monaco, detto l’Apostolo dell’Oriente per la sua efficace predicatione. Fu questi per nascita nobile, per natione ungaro. Distrutta l’Ungaria da Attila, ritirossi in Roma, et ivi prese l’habito di monaco. Ope[213]rò meraviglie per la fede. In Comaggione, castel della Germania, all’8 di gennaro dell’anno 481 rese l’anima al suo Creatore. Il suo corpo da Lucillo, suo discepolo, fu trasferito in Sileto; da Sileto nell’Isola del Salvatore, e da quest’isola nell’anno già detto in questo monasterio, dove al presente riposa: e la chiesa da quel tempo intitolata venne di San Severino l’Apostolo.

Nell’anno 920 da Miseno vi fu trasferito il corpo di san Sosio, nato in detta città, compagno e discepolo del nostro glorioso san Gennaro, e ricevé col detto santo suo maestro la corona del martirio nell’anno 305. E questo santo corpo fu collocato nell’arca istessa dove stavano le reliquie di san Severino l’Apostolo. E così, per le molte gratie che i napoletani ricevevano per l’intercessione di questi santi, s’intitolò la chiesa di San Severino e Sosio, titolo che fin hora ha ritenuto, [214] come si legge nell’inscrittione che sta su la porta maggiore, e si vede dall’imprese che fa questo gran monasterio, che è una palma et un bacolo pastorale, per dimostrare et il martire san Sosio e l’abbate san Severino.

L’antica chiesa poi, che minacciava ruine, fu da’ fondamenti riedificata da Adriano napoletano, e dotata. Essendo poi che si rendeva angusta alla gran frequenza di popolo che vi concurreva, per gl’energumeni si deliberò d’erigerne un’altra più grande e più maestosa. E così col disegno di Giovan Francesco Mormando nell’anno 1490 vi si diè principio, et il re Alfonso II per sussidio l’assegnò scudi 15 mila su l’entrate di Puglia e gabella dello Scannaggio. Anco Trojano Mormile, nobile del seggio di Portanova, lasciò alli padri 6 mila scudi da impiegarsi alla nuova fabrica, e, benché da Carlo Mormile suo figliuolo et herede si [215] fusse negato d’eseguire la dispositione paterna, meglio ricordato di poi, alli padri donò annui docati 500 finché fusse durata la fabrica, quale si terminò doppo 30 anni per le gran calamità di quei tempi, ne’ quali la povera città e Regno era afflitta da continue guerre. Et i buoni padri, per usare gratitudine, donarono al detto Carlo e suoi successori l’altare maggiore colla tribuna, con titolo di fundatore.

Della cupula, che fu delle prime che comparissero in Napoli, non essendo in quei tempi la facilità d’hoggi in fabricarle, ne fu architetto Sigismondo di Giovanni. La detta cupula con gl’angoli fu dipinta da Paolo Scheff o Schefaro, illustre dipintor fiamengo, circa gl’anni 1560. Le dipinture a fresco che si veggono nelle volte così della nave maggiore come del choro, con ripartimenti di stucchi dorati, che esprimono le Attioni di san Benedet[216]to, di san Severino e di san Sosio colle figure de’ pontefici della religione benedettina e de’ cavalieri di quell’habiti che militano sotto la regola di san Benedetto, sono opere di Belisario Corentio, quando egli era giovine et avido d’immortalità. Nel capo del coro vi si vede un ben lavorato e perfetto organo con gl’ornamenti tutti dorati: opera di Sebastiano Solcito e di Giovan Domenico di Martino.

Il coro, che né più bello né più maestoso si può desiderare, e per la dispositione e per l’intagli con li loro estremi dorati, fu opera di Benvenuto Tortelli e di Bartolomeo Chiarini, illustri scultori et intagliatori in legname di quei tempi, che vi travagliorno dall’anno 1560 fino all’anno 1575. Vi si vede l’altare di famosi marmi commessi, che né più bello né più bizzarro credo che in Italia ve ne sia: e questo, con le balaustra[217]te che chiudono il presbiterio, fu fatto col disegno, modello et assistenza del cavaliero Cosmo Fansaga. E questo è stato il primo altare che veduto si fusse in Napoli, e forsi fuori, in questa forma isolata e di così nobile architettura. I due putti di bronzo, che stan seduti da una parte e dall’altra della porta del presbiterio, sono opera ancora del Fansaga, come anco ogn’altro ornamento che vi si vede. Nella cappella che sta nel lato dell’Evangelio, nella quale si vede la porta picciola della chiesa, che è gentilitia della nobilissima famiglia Gesualda, vi si vede una tavola di mezzo rilievo dove sta espressa la Vergine della Pietà col suo morto figliuolo in seno, opera del nostro Auria. Sta dipinta a fresco da Paolo Schefaro, ma vedesi dal tempo poco ben trattata.

Passato poi il maestoso sepolcro di Vincenzo Carrafa prior di Ungaria e figliuolo del Duca d’An[218]dria, dove si vede una bellissima statua in ginocchioni, opera di Michel’Angelo Naccarino, vi si vede una cappella, et in questa una tavola dove sta espresso Nostro Signore che battezzato ne viene da san Giovanni, opera di Pietro Perugino.

Seguono le cappelle della nave dell’istessa parte dell’Evangelio. Nella prima vi si vede una tela dove sta espressa la gloriosa Sant’Anna con altre figure, opera del nostro Gioseppe Marulli. Nella cappella che segue vi si vede una tavola nella quale sta espressa la Vergine con altri santi: questa fu dipinta dal nostro Andrea di Salerno. Nell’altra vi è una tavola nella quale vedesi l’Immacolata Concettione della Vergine, opera d’Antonio Sensibile. Nella cappella passata quella di San Carlo vi si vede una tavola dove sta espressa la Pietà della Vergine verso del morto Giesù, opera del Corso. [219] Nella cappella passata quella della Purità vi si vede una tavola nella quale, dal pennello di Marco di Siena, sta espressa con molte figure la Nascita del Signore. La tavola che sta nel lato della porta, dove vedesi la Depositione del Nostro Redentore dalla croce, fu dipinta da Andrea di Salerno. Dall’altra parte poi dell’Epistola, nella prima cappella laterale al coro, della famiglia Sanseverina, vi si vedono tre bellissimi sepolcri, di Giacomo, conte della Saponara, di Sigismondo et Ascanio Sanseverini fratelli, dal zio per avidità della successione miseramente avvelenati. Tutte le statue al naturale di questi sventurati giovani, e l’altre che esprimono diversi santi e putti con li loro ornamenti, sono opera di Giovanni Merliano da Nola, che né più belle né più studiate veder si possono. Nel muro poi della croce vi si vede una tavola nella quale vi è il [220] Nostro Signore spirante in croce, opera di Marco da Siena. L’altra tavola che segue a questa, dell’Inchiodatione del Salvatore nella croce, è dell’istesso autore. Nella cappella della nave, la tavola nella quale è l’Adoratione de’ Maggi è dell’istesso Marco. In quella che siegue vi è una tela nella quale vedesi la Venuta dello Spirito Santo alla Vergine et all’Apostoli: fu dipinta da Gioseppe Marulli. Nella cappella dove si conserva la Sagra Eucaristia, che sta tutta dipinta a fresco da Belisario Corentio, si vede la tavola dove ne sta espressa la Vergine dall’Angelo annunciata, opera del nostro Giovanni Angelo Criscolo. Segue l’altra cappella, nella tavola della quale sta da Marco da Siena dipinta l’Assuntione della Vergine. Passata la cappella dove è un bassorilievo di marmo, se ne vede [221] un’altra quale ha seco una tavola nella quale vedesi la Nascita della Vergine, fattura dell’istesso Marco da Siena.

Vi si veggono due vasi di marmo per l’acqua benedetta, bizzarramente sostenuti da due corbi di breccione nero molto ben lavorati dal nostro cavalier Cosimo. Il pavimento di questa gran chiesa, che può stare al paragone per la sua struttura con ogni più bel tempio d’Italia, è tutto lastricato di marmi composti da diverse sepulture gentilitie.

Si può anco vedere la sacristia, che ha l’ingresso nella prima cappella della nave dalla parte dell’Epistola. Entrando, a sinistra vedesi una bellissima tavola nella quale stanno espressi la Vergine col suo Figliuolo in braccio, e di sotto san Benedetto, san Francesco d’Assisi e san Francesco di Paola: fu questa dipinta dal nostro Girolamo Imparato. [222] Segue appresso la Cappella di Camillo de’ Medici, che traheva la sua origine dalla casa di Firenza, famosissimo giurista de’ suoi tempi, nella quale sogliono privatamente celebrar la messa gl’abbati pro tempore del monasterio. La tavola che in essa si vede, dove stanno espressi il gran patriarca San Benedetto et i santi Placido et Mauro, fu dipinta con ogni accoratezza e maestria dal nostro Fabritio Santafede.

Vi si vede ancora, dalla parte dell’Evangelio, una tavola di marmo antica nella quale sta espressa con diverse figure picciole di mezzo rilievo un’istorietta degna d’essere osservata.

La sacristia poi è capacissima e bene adornata; sta tutta dipinta a fresco da Honofrio di Leone nostro napoletano, allievo di Belisario Corentio. A sinistra di questa sacristia vedesi un armarietto nel quale si conserva un’imagine del Crocifisso [223] scolpita in legno di bosso. Questo fu quel Crocifisso che fu donato dal santo pontefice Pio Quinto a don Giovanni d’Austria, e questo oprò in quella segnalata battaglia contro de’ Turchi negl’anni 1571, portandolo sempre nelle mani mentre si combatteva. Donò poscia questa sagra imagine a Vincenzo Carrafa priore d’Ungaria, che gloriosamente a questa guerra intervenne, assistendo sempre con don Giovanni. Da detto fra Vincenzo poi fu lasciato al padre don Luigi Carrafa, abbate cassinense, fratello del padre Vincenzo Carrafa, generale de’ padri giesuiti, e questo grand’abbate, emulando la bontà del fratello, morì con fama di santità. Dal padre don Luigi poi fu donato alla sacristia. In questa vi si conservano molte belle reliquie, e particolarmente un pezzo della Croce di Nostro Signore, delli capelli della Beata Vergine, delli santi Apostoli, una parte della testa di san Clemente papa, una [224] parte del braccio di san Placido martire. Vi sono bellissimi argenti egregiamente lavorati, e fra questi sei candelieri, che per l’arte e per la materia forse non han pari, e sono i primi che in questa fattura sono stati visti in Napoli. Vi sono ricchissimi apparati per le funtioni che vi si fanno.

In uscire da questa sacristia, a sinistra vedesi la scala per la quale si cala alla chiesa antica, che sta ben trattata e ben officiata, e nel principio di queste scale si veggono due famosi sepolcri, l’uno dirimpetto all’altro, che han del maraviglioso, scorgendosi in essi quanto può fare lo scarpello di eruditi maestri. In quello che sta nel muro della sacristia, che è d’Andrea della famiglia Bonifacia, nobile della piazza di Portanova, che in questo fanciullo d’anni otto s’estinse, questo si vede, e per la bizzarria del disegno, per la delicatezza del lavoro e [225] per l’espressione dell’attioni in quelle figure, degna veramente d’essere osservata: vi è un’urna stravagante sopra della quale in un lenzuolo sta distesa la statua del fanciullo, con molti amorini in atto di piangere, et uno che mantiene il coverchio aperto dell’urna con tanta tenerezza, che più non può fare il naturale. Vi è una bellissima statua tonda d’un apostolo, e sotto una tavola dove, a basso relievo, si veggono espressi alcuni che, lagrimando, portano in un lenzuolo il fanciullo morto con altri congiunti in atti differenti di dolore, con tanta espressione che movono a compassione chi li mira. Il tutto fu opera di Pietro da Prata. L’inscrittione in versi che in essa si vede fu composta dal nostro Giacomo Sanazaro.

L’altro che sta dirimpetto a questo è di Giovan Battista della famiglia Cicara, nobile del seggio di Portanova, giovine d’anni ventidue, e [226] similmente in questo s’estinse la sua famiglia. Vi si veggono vaghissimi intagli d’arabeschi e ben considerate statue, opera del nostro Giovanni Merliano.

Si può calare a visitare la chiesa antica, che spira divotione, e sotto dell’altare maggiore, fatto di marmo alla moderna, vi si conservano i santi corpi di san Severino detto l’Apostolo dell’Oriente e di san Sosio levita. E vi si legge:

Hic duo sancta simul, divinaque corpora patres
Sosius unanimes, et Severinus habent.

Vi si conserva ancora il corpo di san Severino vescovo, ma alli monaci non è noto dove particolarmente ne stia. La tavola che in detto altare si vede è opera d’Antonio Solario detto il Zingaro.

Da questa chiesa si può passare a vedere il monasterio, il quale non è scarso di curiosità. [227] Ha questo quattro chiostri. Il primo si può dire cortile, essendovi le stanze de’ procuratori così della casa come degl’altri monasterii del Regno, che, per quel che occorre, qui stanzano: et una parte ne sta dipinta da Belisario Corentio in tempo che egli era in età d’anni ottanta. Il secondo è antico. Il terzo similmente è antico, e [in] due braccia con qualche parte del terzo vi si vede dipinta la Vita e miracoli del patriarca san Benedetto, e tutti i volti delle figure sono ritratti de’ monaci e d’altri signori di quei tempi, e con tanta vivezza e finitura che pajono vivi e miniati, ancorché la maniera imiti la greca. A sinistra, presso la porta per la quale si va al chiostro nuovo, si vede il ritratto al naturale del dipintore, che sta con un pennello in mano: e questo fu Antonio Solario venetiano detto il Zingaro, quale fiorì circa gl’anni 1495. [228] Nel giardino di questo chiostro vi si vede un platano dal tempo che questo luogo fu concesso a’ monaci, che sarà da 700 anni, e si vede cresciuto in tanta altezza che le cime, havendo sopravanzati i dormitorii, vedono il mare. Da questo chiostro si passa al nuovo per davanti del refettorio, molto bello e ben architettato, e del capitolo, il quale sta dipinto da Belisario. In questo chiostro vi si veggono con gran magnificenza gl’archi appoggiati sopra colonne di fini marmi di Carrara d’ordine dorico. Il pavimento sta lastricato similmente di marmi bianchi e pardigli. Fra l’una colonna e l’altra vi sono balaustri similmente di marmi.

I dormitorii sono nobilissimi, posti in quadro, che hanno in sé quantità di stanze, e sopra tutto vi è un ampissimo belvedere che chiamano galeria, dal quale si gode di tutta la città, del nostro amenissi[229]mo cratere e di quante ville e colline cingono la nostra bella Partenope.

Questo luogo così nella chiesa come nell’habitationi ha patito gran danno nel già detto tremuoto, in modo che a rifarlo vi son bastati 9 mila scudi. Questo monasterio poi nelle sue ricchezze fa spiccare la pietà de’ nostri antichi regi e de’ napoletani.

Continuando il camino nella strada maestra, a destra si vede il famoso Monte della Pietà, che della pietà napoletana si può dire indice chiaro. Circa gl’anni 1539, essendo la pravità usuraria degl’ebrei in Napoli cresciuta in un segno che non solo si rendeva di grave danno a’ poverelli, ma anco si cominciava a diffondere ne’ cittadini christiani, che però dal grand’imperador Carlo Quinto furono cacciati dalla città e Regno, questa cacciata [230] di così perfida razza riusciva in qualche parte dannosa a’ napoletani bisognosi, sì per non haver pronto chi potesse imprestar loro qualche cosa col pegno, sì anco per non potere prontamente riscuotere i pegni che i giudei havevano in mano. Aurelio Paparo e Nardo di Palma, amici della patria e piissimi napoletani, non solo de’ propri denari riscossero la robba che in pegno tenevano i giudei, ma con una carità grande aprirono nella Strada della Selice, presso il quartiere dell’istessi giudei (che fin hora la Giudea chiamata ne viene), un luogo per conservare sì la robba riscossa, sì anco per sovvenire in quanto si poteva i poverelli, improntando loro qualche summa col pegno, ma senza interesse. Quest’opera così pia instigò molti nostri commodi cittadini a parteciparne col sovvenirla, et a tale effetto formarono una confraternita.

In breve si vide cresciuta a segno che la casa della Se[231]lice non era bastante, però passarono l’opera nel cortile della Santa Casa dell’Annunciata, e proprio nelle stanze dove hora è il Banco. E vi stiede fin nell’anno 1592, e qui se li diede il titolo di Monte della Pietà. Conoscendo poi i governatori di questo monte il luogo già detto essere necessario alla detta casa, mentre che i signori governatori di quella volevano fabricare un’habitatione a parte per quelle donne esposte che per la viduità o per altro caso son costrette a tornare nel conservatorio, lo restituirono. Et havendo cumulo bastante di denaro per le molte elemosine ricevute, con licenza de’ superiori presero a pigione il Palazzo del signor Duca d’Andria, che come si disse sta nella Piazza di San Severino, et ivi esercitavano l’opera.

Nell’anno poscia 1597, havendo comprato questo luogo, che era il Palazzo de’ Conti di Montecal[232]vo, col disegno e modello di Giovan Battista Cavagni, famoso architetto in quei tempi, si diede principio a questa gran fabrica, che né più bella né più magnifica si può desiderare, né più perfetta. Essendo terminata, e dovendosi fare la cappella nel cortile, che vi si vede, vi fu posta la prima pietra sollennemente benedetta dal cardinale Alfonso Gesualdo arcivescovo di Napoli, coll’intervento del Conte d’Olivares, in quel tempo viceré, e di tutti i regii ministri.

L’architetto devesi lodare di sommo giuditio perché, oltre la divisione così ben intesa de’ luoghi et officine, oltre al non esservi un palmo di terra oscura et infruttuosa, disignò la casa non solo per l’opera che era in quel tempo, ma per l’accrescimento che poteva havere, come in fatti è succeduto, essendo hoggi quest’opera la più grande che si veda non solo in Napoli ma per tutta l’Italia.

[233] Si può vedere per prima in questo gran palazzo la cappella, che in genere suo né più ricca né più polita si può desiderare. La porta ella è tutta di marmo. Ne’ lati di questa in due necchie vi si vedono due bellissime statue, una che rappresenta la Sicurtà, che quietamente dorme appoggiata su d’una colonna, l’altra la Carità, che accoglie alcuni estenuati bambini: opera delle più belle ch’habbia fatto Pietro Bernini. La statua che si vede su l’architrave, della Vergine addolorata che tiene in seno il suo morto Giesù con due Angeli che stanno ai lati, è opera di Michel’Angelo Naccarini. Dentro, tutte le dipinture a fresco, che si vedono scompartiti da stucchi dorati, e che con belli pensieri esprimono la Vita del Nostro Redentore, son opere tutte di mano di Belisario. La tavola dell’altare, dove sta con bellissima maniera espressa la [234] Pietà della Vergine nel vedere il suo Figliuolo morto, con altre Marie e san Giovanni, fu dipinta da Fabritio Santafede. La tavola grande che sta nel lato dell’Evangelio, che in sé contiene la Resurrettione del Salvatore, e dove in un soldato che dorme vedesi espresso il ritratto dell’autore, è opera dell’istesso Fabritio. Sotto di questa tavola vi è la memoria in marmo del cardinale Ottavio Acquaviva arcivescovo di Napoli, che lasciò questo luogo herede della sua supellettile, che ascendeva al valzente di 20 mila scudi; viene sostenuta da due facchini di marmo che né più belli né più spiritosi veder si ponno, e sono opera del cavaliero Cosimo Fansaga. Al dirimpetto della tavola della Resurrettione ve ne è un’altra simile, nella quale sta espressa la Vergine assunta, con gl’Apostoli di sotto molto al vivo: opera di Ippolito [235] Borghese, detto per sopranome lo Spagnolo. È ricca poi di bellissimi apparati e di tutti quelli argenti che ne’ giorni festivi la ponno rendere maestosamente adorna.

In questa casa vi sta aperto un publico banco, et è de’ più ricchi che vi siano nella nostra città, ritrovandosi in esso quasi due milioni in contanti. Nelle stanze di detto banco, et in tutte l’altre del negotio, vi si vedono diverse dipinture a fresco, e delle più belle e considerate ch’habbia fatto Belisario. Si può vedere il guardarobba de’ pegni senza interesse così d’oro come d’argento, di rame e d’ogni sorte di panno, che veramente è cosa curiosissima, né si può imaginare la grandezza da chi non la vede. Il monte impegna da dieci docati in giù senza interessi, et in quest’opera vi tiene di continuo impiegati da 200 mila scudi in [236] circa, e da questo si può supponere che robba vi sia; e questa robba la tiene il monte per due anni, passati che sono si vende all’incanto, et il di più che talvolta s’have si restituisce al padrone. In questo gran guardarobba vi si vede una meraviglia, che si stima dispositione della Santissima Vergine, che protegge un’opera così pia, et è che non vi si vedono tarme né entrarvi topi e mosche, ancorché vi siano molte finestre; e se v’entra qualche topo, si vede presto morto, et all’incontro si è osservato che ne’ tempi delle motioni popolari e della peste, ne’ quali il guardarobba stava vuoto di pegni, vi si vedevano quantità di simili animali. Questa santa casa hoggi è delle più ricche che vi sia. Basterà dire che paga da 11 mila scudi in ogn’anno di salario alli ministri che servono la casa, il banco e la chiesa. Qui s’attende non solo all’opera de’ pegni, che è il suo principale [237] instituto, ma anco a riscattar christiani che stanno in mano d’infedeli, ad escarcerare molti poverelli prigioni per debiti, a dar le doti a molte donzelle povere et ad altre opere di pietà.

Tirando più giù, si vedono molte boteghe di librari, dalli quali prende nome questa parte di strada. S’arriva in una piazzetta anticamente detta di San Gennarello all’Ormo, perché qui anticamente vi era un olmo dove s’appendeva il preggio che si prometteva a coloro che andavano a giostrare, a tirar d’armi et ad altri giuochi simili nella Piazza di Carbonara, e ne riuscivano vincitori.

Dicesi di San Gennarello per la chiesa a questo santo dedicata, e si nomina con questo diminutivo a differenza della chiesa di San Gennaro extra Menia. Vogliono alcuni de’ nostri scrittori che questa fusse una delle sei chiese greche, fundata nel tempo dell’imperador Costantino il Gran[238]de, trovandosi alcune scritture colle quali s’attesta che fusse stata officiata alla greca; altri gravi autori, e particolarmente il nostro Giovanni Diacono, che questa fusse stata edificata da Agnello, trigesimoterzo vescovo di Napoli, che fu assunto a questa dignità nell’anno 672 e passò a miglior vita nell’anno 694.

Questa chiesa è a tre navi di struttura gotica, e vi sono due colonne presso l’altare maggiore di 18 palmi in circa, che comunemente vanno stimate di finissimo diaspro, ma dal cavalier Cosimo più volte mi fu detto che diaspro non era, ma una pietra che simile e più pretiosa veduta non haveva in tutta Italia, e che queste si potevano chiamare due famose gemme di Napoli. In questa chiesa, che è antichissima parocchia collegiata, vi sta posta la Congregatione de’ Settantadue Preti sotto la tutela del glorioso arcangelo san Michele, dal quale prende il titolo. Questi buoni [239] preti l’han voluta ristaurare e ridurla alla moderna con istucchi e dipinture, e con questa occasione han fatto impiastrar di bianco tutte le colonne, e particolarmente queste due così ammirabili. Dicesi anco San Gennaro a Diaconia, come ne sono altre chiese di questo aggiunto, et è da sapersi che “a Diaconia” si dicevano tutte quelle chiese nelle quali dall’antichi vescovi erano assegnati i diaconi a distribuire l’elemosine a’ poveri orfani, vedove et altre persone miserabili. Fu detta anco chiesa di San Nostriano, perché in essa fu trasportato dal Cimiterio di San Gennaro il corpo di questo santo vescovo, che principiò a governare la Chiesa di Napoli nell’anno 444, e la resse per lo spatio di 17 anni: quale in un’urna di marmo dal nostro canonico Anello Rosso, abbate in quel tempo di questa chiesa, fu trovato sotto dell’altare maggiore mentre rifar lo voleva nell’anno 1583; e nell’anno [240] 1612, in tempo che governava la Chiesa napoletana il cardinale Ottavio Acquaviva, fu trovato di nuovo e più decentemente collocato sotto dell’istesso altare, dove al presente venerato ne viene.

Attaccata a questa chiesa, dove hoggi è la cappella di San Biagio, anticamente detta dal volgo napoletano San Jasso, che diede anco il nome al vico che va giù, e qui stava il seggio de’ nobili detto di San Gennarello a Diaconia, hoggi incorporato nel seggio di Nilo. In questa chiesa vi è parte del braccio del santo titolare, collocato in una famosa mezza statua d’argento, la quale, perché il detto santo è stato adottato in padrone della città, vedesi trasportata nel nostro Sagro Tesoro.

La strada che va su, che hoggi si chiama Strada di San Lorenzo, o di San Gregorio, che dal volgo corrottamente si dice San Liguoro, anticamente veniva detta Strada Augu[241]stale, perché terminava alla Basilica d’Augusto, come nell’antecedente giornata si disse, e, come altri vogliono, al Tempio Tindarico, che hoggi dicesi di San Paolo, dedicato ad Augusto. Ma non dicono bene, perché mai il Tempio di Castore e Polluce fu dedicato ad Augusto. Fu anco detta di San Gennarello all’Olmo e di San Gianuario a Diaconia perché principiava da questa chiesa. Fu anco nominata Nostriano, doppo che vi fu trasferito il corpo di questo santo.

In questa medesima strada veggonsi il famoso monasterio ed antichissimo, con la nobile e bella chiesa dedicata a San Gregorio vescovo d’Armenia, dal nostro volgo detto San Liguoro. Si ha per antica traditione che la sua fundatione l’hebbe ne’ tempi di Costantino il Grande da sant’Elena, madre di esso imperadore, quale l’instituì in forma d’un collegio di [242] donne vergini. Altri, seguendo le note degl’Ecclesiastici Annali del cardinal Baronio nel tomo 3° e l’annotationi al Martirologio dell’11 di giugno, vogliono che la fundatione di questo sagro monasterio fusse pervenuta da molte monache greche e armene che al numero di seicento, vedendosi nelle loro patrie perseguitate da’ barbari, per conservare la loro castità e pudicitia si ritirorno in Italia; e di queste, alcune miracolosamente ne rimasero in Roma, essendo che, giunte nel luogo di quella città dove al presente si dice Santa Maria in Campo Marzo, i cameli non vollero passare oltre, onde vennero forzate a collocare in quella chiesa due tavole nelle quali per mano dell’evangelista san Luca stavano dipinte l’imagini di Nostra Signora, ed anco il sacro corpo di san Gregorio Nanzianzeno.

Altre poi approdorno in Napoli colle sante reliquie del martire [243] e vescovo d’Armenia san Gregorio, e colle catene e flagelli colli quali martirizato ne venne. Queste buone religiose con amore e carità grande ricevute furono da’ nostri napoletani nella nostra città, dove edificorno questo monasterio. Questo disparere, poi, par che si possa conciliare col supponere che queste monache forastiere fussero state unite o, per meglio, ricevute dal collegio sudetto, che in quei tempi era di donne che vivevano alla greca, come fino nel 1542 vi si conservò l’uso del vestire, e si ricava da una cronica scritta nobilmente da donna Fulvia Caracciola, monaca in quel tempo in detto monasterio. E mi sia lecito di darne una erudita notitia del come anticamente erano le strutture e forme della maggior parte de’ monasterii delle monache napoletane, e particolarmente dell’ordine di san Benedetto, usate prima del Concilio di Trento e mantenute fino al febrajo dell’an[244]no 1572, come ho ricavato dalla stessa cronica puramente scritta dalla non men savia che pia donna Fulvia già detta.

Era questo un ridotto di più case circondate da un muro mediocremente alto, che dicevasi clausura. Ogni casa che vi stava havea più camere, ridotti, cocina e cantina, con altre comodità. Ogni monaca possedeva la sua, che, nel monacarsi, o la comprava dallo stesso monasterio, al quale era pervenuta per la morte di qualche altra monaca, o pure a spese proprie fabricar la facea di nuovo. Ogni monaca, poi, haveva più serve secolari, quali doppo d’alcuni anni di servitio con molta amorevolezza venivano dotate et honoratamente collocate. Nel mezzo di dette case vi stava la chiesa, dove recitavano i divini officii, che in quei tempi erano molto lunghi, ed in questa chiesa v’entravano ancora ad officiare preti, monaci e secolari in occasione d’alcu[245]ne fontioni, come de processioni ed esequie; et in alcune sollennità convitavano il Capitolo della Cattedrale, e finite le funtioni davano a’ canonici un pranso dentro dello stesso monasterio. Eran le monache di continuo visitate dalle loro parenti ed amiche, le quali con licenza dell’abbadessa vi pernottavano. Uscivano ancora a ricreatione, et in caso di malatia o per altra necessità dimoravano per più giorni in casa de’ parenti con licenza della superiora.

Non haveano vita comune. Veniva dichiarata ognuna per monaca nel ricevere il terz’ordine, e questi tre ordini eran così: accettata una figliuola, benché in età di tre o quattr’anni, ricevea per man dell’abbadessa l’habito, che era di panno bianco fino, troncandoli parte de’ capelli, facendoli portare in testa una ligatura alla greca, ornata con molta modestia. Il secondo ordine era in questa maniera: [246] doppo d’alcuni anni, secondo l’età, veniva ammessa (come dicevano) alla dignità del coro. Il terzo era in queste forme: nell’età di quindeci anni in su dicevasi la messa dello Spirito Santo, e mentre quella sollennemente si celebrava, si preparava il taglio de’ capelli, con questa cerimonia: si portavano i detti capelli dalla parte della fronte, che formavano ghirlanda, dalla abbadessa poi si dividevano in sette fiocchi o vette, ed ognuna di queste veniva unita dalle punte con una ballotta di cera bianca, e così se ne stava in ginocchioni finché la messa si celebrava, e, finita, la medesima abbadessa gliele tagliava, e li copriva la fronte con un bianco velo; doppo li poneva una veste nera sopra la bianca, che era un mezzo palmo più corta della già detta bianca, e senza detta veste nera non era alla monaca lecito ne’ giorni festivi di comparire nel coro, e con questa veste sepellir si doveva dop[247]po morta. Con questa fontione se gli dava la prerogativa della voce attiva e passiva, e l’esser partecipe de’ beni del monasterio, i quali in questo modo si dividevano fra le monache: non essendovi comunità, tutte l’entrate così in danari come in grani, vino ed altro, si esiggevano dall’abbadessa, che nell’officio era perpetua, e da due monache attempate, che chiamate venivano infermararie, s’havea pensiero di ripartirle pro rata a ciascheduna monaca per doverli servire al vitto cotidiano et al vestiario, e quando occorreva qualche spesa di momento, o estraordinaria, si domandava di nuovo licenza all’abbadessa. Queste eran tutte le cerimonie per essere una monaca benedettina in questo monasterio e negl’altri ancora, benché poco differenti ne’ riti.

Questo modo però di vivere par che fusse stato introdotto per abu[248]so, essendo che in detto monasterio vi era un luogo antico e grande che serviva per lavatorio comune, e dicevasi il dormitorio. Vi era uno stanzone che stava quasi per ruinare, e nominato veniva refettorio. Vi si vedevano altre stanze che servivano per archivio di scritture del monasterio, e si nominava l’infermaria, e questi nomi l’havevano da tempo immemorabile, e le monache d’allora né meno per traditione havevano come e perché l’havessero sortiti, dallo che si ricava che nel principio della regola basiliana, o benedettina, in questi luoghi vi era comunità nel vivere e che poi si fusse rilasciata.

Nell’anno poscia 1565, chiuso che fu il Concilio di Trento, si cominciò, in conformità di quello che in detto concilio s’era conchiuso, a dar principio alla riforma così del clero come delle monache. E per prima essendo arcivescovo di Napoli [249] Alfonso Carafa, doppo d’un’esattissima visita, furono dismessi molti monasterii, e furono quello di Sant’Agata, che stava nella Strada di Mezzo Cannone; quello di Sant’Anello, che stava nel luogo hoggi detto il Cerriglio, come nella giornata seguente si vedrà, e le monache vennero unite al monasterio d’Albino, hora di Donna Alvina; quello della Misericordia, che stava verso la Porta di San Gennaro, e le monache si trasportarono nel monasterio di Sant’Arcangelo a Bajano; il monasterio di San Benedetto, che stava nella regione di Portanova, e proprio dove si dice Santa Catarina a Spina Corona, hora degli Trenettari, e le monache furono ripartite in diversi monasterii. Si stabilì d’unire il monasterio di San Festo a quello di San Marcellino, al quale stava attaccato, ma perché le monache cercorno d’ajutarsi in Roma, con molto loro disgusto vennero forzate nell’anno seguente all’unione.

[250] Si cominciò a por in opra la riforma, ed in questo monasterio, e più in quello di Santa Patritia, vi si trovò gran ripugnanza nel riceverla e nel professare perpetua clausura, in modo che non poté vedersi la cosa terminata che nell’anno 1569. E fra questo tempo soffrirno mortificationi grandi, essendo stato vietato affatto alle monache l’uscire (come era il solito) per qualche giorno dal monasterio e l’ingresso ad ogni persona secolare, anco strettissima parente. Fu loro interdetto il custodire dentro la loro chiesa la Santissima Eucharistia. Alla perfine, per non potere soffrire più mortificationi, alli 21 di novembre si stabilì la professione, e da questo monasterio diecisette monache, che non vollero riceverla, e con le loro proteste se ne uscirno. Nell’anno 1570, nel giorno di san Giovanni Evangelista, essendo stato dato ordine a quel che bisognava per la vita comune, fu la prima a professare Giulia Carac[251]ciola, in quel tempo abbadessa, et alli 17 di gennaro si trovorno tutte professate al numero di trentatré. Con questa professione si mutò l’habito da bianco in nero collo scapulario e con la cocolla nelle feste sollenni, e loro fu dato il titolo di donna, perché prima era di suora. Fatto questo, si stabilirno e si compartirno gl’officii come di sacrestana, di maestra di novitie, di cellararia, d’infermiera, di portinaja ed altri. Si cominciò a mangiare unite in refettorio. Si lasciorno gl’antichi officii longobardi e si presero a recitare quelli che erano in uso nel monasterio di Santa Giustina, e questo modo di vita nel principio si disse osservantina. Si tolsero i confessori claustrali, che in quel tempo erano i monaci di San Pietro ad Ara.

Arrecava molto incomodo perché le monache dalle case dove habitavano erano necessitate ad andare per lo scoverto al refettorio ed alla chiesa; atteso che era stato vie[252]tato il potere più entrare sacerdoti alla chiesa di dentro a celebrare ed il potervi costodire la Sagra Eucharistia, ne haveano remediata una picciola, con la porta alla strada, e proprio dalla parte del vico dove hora si vede la porta de’ carri: che però si stabilì di fabricare un nuovo monasterio atto per la comunità. E benché vi fusse stato qualche disparere, perché alcune volevano che si fabricasse in altro luogo più ampio e vistoso, altre dicevano che si edificasse dove ne stavano, che era nel cuore della città, essendo che in detto luogo erano state allevate dalla fanciullezza, vi haveano professato e vi si conservavano l’ossa di tante loro carissime sorelle; essendo prevaluto il parere di quest’ultime, s’elesse per architetto il nostro Vincenzo della Monaca, dal quale, fatto il disegno e modello del nuovo monasterio, fu stabilito che si ripartisse il vecchio, accio[253]ché mezzo fusse rimasto per habitarvi, e l’altra parte per la nuova fabrica. Donna Lucretia Caracciola, figliuola del Duca dell’Atripalda, all’hora abbadessa, vedendo che alcune malamente soffrivano che le loro case fussero le prime ad essere diroccate, con una generosa intrepidezza ordinò che la prima ad esser buttata giù fusse la sua, che era delle più belle e comode, e con allegrezza grande la vedeva sfabricare; e con questa attione tolse ogni afflittione e si ridussero con ogni gusto a dormir più per casa mentre si fabricava.

Vi fu posta la prima pietra nell’anno 1572, e nell’anno 1577 si vidde la fabrica compita in quaranta camere con le loro loggie davanti, in cameroni per le sorelle converse, e nell’officine necessarie, e, benedetto dal Cardinale d’Arezzo arcivescovo di Napoli, fu principiato nello stesso anno ad essere habitato, et hoggi vedesi così ampliato ed ingrandito che è de’ più grandi e [254] maestosi della nostra città, havendosi chiuso dentro (come si disse) un vico intero, che dicevasi de’ Sanguini.

Resa comoda l’habitatione, ed atta alla vita comune, si pensò all’erettione d’una nuova chiesa, e donna Giulia Caracciola, in quel tempo abbadessa, nel 1574 la principiò col disegno, modello e guida di Vincenzo della Monica e di Giovan Battista Cavagni, e quasi tutta fu fatta del denaro proprio di essa Giulia, et hoggi si vede abbellita in modo che non vi è più che desiderare.

Nell’anno poscia 1577 vi accadde un altro po’ di disturbo, e fu che, essendo stato dismesso per degni rispetti il monasterio di Sant’Arcangelo a Bajano dal Cardinal d’Arezzo arcivescovo, ed havendo compartite le monache in diversi monasterii di benedettine, questo monasterio ricusò di riceverne quelle che dall’arcivescovo l’erano state assignate, [255] allegando che questo monasterio non ricevea altre monache se non erano nate nobili dalle famiglie che godono della nobiltà nelle piazze sole di Nilo e Capuana, e che questo non lo facevano per superbia, ma solo per non pregiudicare all’uso antico del monasterio. Alla fine, con la loro innata gentilezza, si compiacquero d’accettarle, con questo patto però: che tra le reliquie del monasterio di Bajano, che compartir si doveano a quelli monasterii dove dette monache venivano compartite, il sangue di san Giovanni Battista fusse loro assignato, come seguì.

Ma torniamo all’antica chiesa et al sito dove primieramente ne stava. Vogliono molti, e con qualche probabilità, che il primo luogo antico del monasterio fusse stato dirimpetto al presente monasterio, e proprio dove si dice il Fondaco di San Ligorio, e che la chiesa fusse stata attaccata all’arco dove al presente [256] sta il campanile dalla parte destra quando si va su verso San Paolo. E fino nell’anno 1688 vi si vedevano le vestigia della porta, di due fenestre e d’un occhio tondo, quali sono stati tolti via dalli frati di San Lorenzo per rifare la muraglia, fieramente lesa dal tremuoto nell’anno già detto accaduto a’ 5 di giugno; e si stima che questa sia stata la chiesa che da Giovanni vescovo d’Aversa e dal suo capitolo, che n’erano padroni, fu conceduta (come si disse) a fra Nicolò di Terracina, doppo che le monache fecero la loro chiesa dentro del monasterio dall’altra parte, nella quale dal vecchio passavano per ponte che hoggi serve da campanile. Non ho potuto trovare poi, benché habbia fatto esattissime diligenze così nell’archivii de’ frati di San Lorenzo come del monasterio di San Gregorio, perché nella chiesa di San Lorenzo si conserva il corpo di san Gregorio armeno, e nella chiesa [257] delle monache si conservava la reliquia di san Lorenzo, la quale poi fu cambiata con la testa di san Gregorio, che dai frati si conservava con l’altre reliquie del santo. Altro non si può supponere che, havendo lasciata le monache la prima chiesa, vi lasciorno anco il corpo del santo dove collocato l’haveano, e con esse loro si portorno la reliquia di san Lorenzo. Questa però è una semplice ponderatione, non essendovi su questo traditione o memoria alcuna. Questa chiesa ne’ tempi andati hebbe varii titoli: fu detta di San Pantaleone, fu chiamata di San Sebastiano, come si vede in molti antichi istromenti, e fu intitolata di San Gregorio o Liguoro dal volgo, qual titolo ha ritenuto fin hora.

Hor vengasi al moderno. La chiesa hoggi veder non si può più bella, e particolarmente ne’ giorni festivi, che sembra stanza di Paradiso in terra. La cupula, i quadri tra le fenestre, dove si vedono espresse molte Attio[258]ni di san Gregorio, le lunette delle cappelle, dove si vedono molte Virtù, et i quadri su la porta da dentro, ne’ quali si vede la Venuta delle monache greche in Napoli, e le dipinture del coro, dove ne stanno espresse molte Attioni di san Benedetto, sono opere a fresco del nostro Luca Giordani, e la cupula già detta fu la prima che egli dipinse in Napoli, essendo giovane, e queste dipinture stan tutte poste fra stucchi dorati. La suffitta è tutta adornata d’intagli ben intesi e dorati, e le dipinture ad oglio son di mano di Teodoro Fiamengo. Il capo altare egli è tutto adornato d’eleganti e pretiosi marmi commessi col disegno et assistenza di Dionisio Lazari. La tavola che vi si vede, nella quale sta espressa l’Ascensione del Signore, fu dipinta dal nostro Giovan Berardino Lama.

La tela che sta nella prima cappella dalla parte dell’Evangelio, [259] dove espresso si vede San Benedetto, stimasi del Ribera. Quella che siegue, con una tavola dentrovi la Decollazione di san Giovanni Battista, fu dipinta dal nostro Silvestro Buono. In altra cappella dell’istessa parte vi si vede una miracolosa imagine del Crocifisso molto antica, che stava nella chiesa vecchia.

Dalla parte dell’Epistola nelle cappelle vi è una tavola di San Pietro e Paolo con altri santi, opera d’Andrea di Salerno, e consecutiva a questa la Cappella di San Gregorio. Quel che in questa vedesi dipinto a fresco è opera di Francesco di Maria. Il quadro dell’altare ed i due laterali sono stati dipinti da Francesco Fraganzani, cognato di Salvatore Rosa nostro napoletano. Nell’ultima cappella presso la porta vi è una tela dove sta espressa la Vergine dall’Angelo annunciata, la quale fu dipinta dal nostro Pacecco di Rosa.

Vi sono due famosi organi ulti[260]mamente rifatti, e riccamente adornati d’intagli indorati. Gl’argenti danno in eccessi e nella quantità e nel peso e nei lavori, e particolarmente quelli che servono per adornare ne’ giorni festivi il maggiore altare, in modo che maggiori di questi non se ne veggono in altri monasterii. Vi sono candelieri, vasi, fiori, croci e carte di glorie tutti d’argento per adornare tutte le cappelle della chiesa: e questi la maggior parte sono stati fatti a spese delle monache particolari.

Vi si conservano molte insigni reliquie, e fra queste un’ampolla del sangue del santo precorsore Battista, che pervenne in questo monasterio (come si disse), e questo sangue, nel suo giorno natalitio et in quello della Decollatione, dai primi vespri si liquefa, e dura per tutto il giorno seguente; la testa del santo protomartire Stefano, e questa insigne reliquia pervenne a questo monasterio colle monache [261] benedettine dal monasterio nella Piazza di San Nicolò a don Pietro, essendo stato dismesso. Vi è la testa di san Biagio vescovo e martire; la testa di san Damaso papa; la testa del beato Giovanni eremita; una reliquia di san Lorenzo; la testa di san Gregorio martire, vescovo d’Armenia, quale hoggi si vede adottato da’ napoletani in protettore della città, e la sua statua d’argento con un pezzo di reliquia si conserva nella gran Cappella del nostro Tesoro. Vi sono ricchissimi apparati di ricami e d’altri drappi pretiosi, in modo che, come si disse, non ha a chi cedere.

Hor tirando avvanti dalla chiesa di San Biagio già detta, di dove principia la regione forcellense: dicesi forcellense per la piazza di Forcella; altri vogliono dalle forche che situate stavano per punire i malfattori; alcuni altri dicono dalla scuola di Pitagora, che in questa regione ne stava e faceva per impresa la lettera Y (ipsilon), che anco [262] servì per impresa della piazza. Fu anco denominata anticamente, come da molte antiche scritture si ricava, regione hercolense, per l’antico Tempio d’Hercole che vi stava. Appellossi ancora regione termense per le famose terme che vi stavano, come più avvanti si saprà.

Passato il famoso Palazzo del Gran Conte d’Altavilla e Principe della Riccia, dell’antichissima famiglia de’ signori di Capua, a sinistra vedesi il Vicolo de’ Marogani, come si disse, hoggi de’ Majorani, famiglia estinta nella piazza di Capuana. Dirimpetto a questo v’era la Strada di Pistaso, che calava giù verso la Sellaria, e dicevasi di Pistaso a pistoribus, perché vi erano molti molini che macenavano il frumento, e fino al tempo di Carlo Secondo anco ve si accomodavano le pelli, e si maturavano i cuoi, per la quantità d’acqua che vi passava per l’aquedotti; hoggi questo vico è stato chiuso, et incorporato nel nuo[263]vo monasterio del Divino Amore. Nel principio del detto vico vi era un’antica chiesa, dedicata al glorioso San Nicolò di Bari, et era estaurita dell’antico seggio di Pistaso. Questa chiesa, quando il vico fu conceduto alle monache, fu buttata giù, e dall’istesse monache riedificata di nuovo al dirimpetto dove si vede, e proprio dove stavano le vestigia dell’antico Seggio, che con quello di Cimbri e di Forcella stanno uniti a quel di Montagna.

Vedesi appresso il Largo de’ Villani, che è l’istesso che Piazza Villana, et è d’avvertire che da noi napoletani, quando si nomina “largo”, s’intende piazza. Questa prende il nome dal Palazzo de’ signori Villani de’ marchesi della Polla, che godeva nella piazza di Montagna, hoggi estinta. Questo famoso palazzo hoggi vedesi trasmutato in monasterio di monache sotto la regola di san Domenico, et in questo modo. [264] Suor Maria Villana, nel secolo donna Beatrice, figliuola del penultimo Marchese della Polla, si chiuse nel monasterio di San Giovanni Battista, fundato da sua zia (come si disse), e fu la prima a professarvi, alli 4 di ottobre del 1590. Inspirata così forse da Dio, volle fundare un altro monasterio col titolo del Divino Amore, e lo fundò fuori la Porta Medina detta prima il Pertugio, e proprio nelle case che hora sono de’ signori Cuomi; e con breve del sommo pontefice Urbano VIII, con altre quindeci monache del monasterio di San Giovanni, v’entro a’ 17 d’aprile del 1638. Ma essendo il luogo già detto riuscito scomodo, d’un’aria non confacente alle monache, e sopratutto incapace d’ampliatione, stabilì d’entrar nella città, e doppo varii trattati di compre di case, s’effettuò per diecidotto mila scudi la compra di questa, dove la serva di Dio era nata, e che si possedeva dalla Principessa di Colobrano [265] sua nipote. Et accomodatala a modo di clausura con una picciola chiesetta, v’entrò con le sue compagne circa l’anno 1658, dove santamente visse; e morì nella stessa stanza dove era nata a’ 26 di marzo del 1670 in età d’86 anni, e con fama di santità il suo corpo in detto monasterio si conserva. Principiò la stessa serva di Dio ad ampliarlo, essendovi stata posta la prima pietra dal Cardinal d’Aragona, in quel tempo viceré di Napoli, e proprio nel capo del Vico di Pistaso, dove stava la chiesa di San Nicolò, et hora col disegno e modello di Francesco Picchiatti sta quasi ridotto a perfettione; e colle doti delle nuove monache, e con ampie elemosine e sovventioni dateli dall’istesso Cardinal d’Aragona e da altri divoti di essa suor Maria Villana, è riuscito de’ delitiosi che vi siano per la quantità dell’acque che in esso si vedono, mentre che per questo monasterio passa [266] l’Aquedotto Regale, e con questa occasione sono stati in questa strada diroccati molti commodi e belli palazzi. La chiesa per hora sta nel portico dell’antico palazzo de’ Villani, dovendo venire nel cortile di detto palazzo, il quale era molto ampio e bello.

È d’avvertirsi che nel Vicolo di Pistaso, che terminava nella Strada de’ Ferri Vecchi, e che con molta controversia degl’habitanti del quartiere fu chiuso, vi erano più molini, che stan dall’altra parte.

Caminando avvanti, a destra vedesi il vico anticamente detto di Sant’Epulo, hoggi detto delle Paparelle, per le case della famiglia Paparo che vi stavano, hoggi ridotte in un tempio o conservatorio di donne, fundato dalla figliuola d’Aurelio Paparo, come si disse nell’antecedente giornata nel trattar del Tempio delle Scorziate. Al dirimpetto di questo vi sta il vico detto de’ Panettieri, perché [267] anticamente in esso s’ammassava il pane publico.

Prima di arrivare nella Piazza o Largo delle Crocelle, vedesi un arco sotto le case della famiglia Di Palma. Questo è un vestigio dell’antico Seggio de’ Cimbri che vi stava, e prende il nome dalle case della famiglia Cimbra, che in detto seggio godeva, hora estinta. L’estaurita di questa piazza, che veniva detta Santa Maria de’ Cimbri, sta dentro del cortile di detto Palazzo de Palma, hora profanata, come si legge da una memoria in marmo che sta su la porta. Passata questa casa, nell’entrare alla piazza già detta delle Crocelle, il vico che va su verso l’Arcivescovato anticamente dicevasi Cimbro o Cimbeo, fino alla metà dove vedesi la chiesa dedicata a Santa Maria del Carmine, volgarmente detta il Carminello; hora dicesi de’ Mandesi, perché fino a’ nostri tempi altre botteghe non v’erano che di fale[268]gnami, et hora stan dismesse. In questo vico vi sono stati palazzi famosi tutti di nobili: hora passati sono a diversi padroni.

Il vico dirimpetto a destra, che va giù, anticamente dicevasi degl’Orimini, famiglia spenta nel seggio di Cimbri; hora dicesi del Campanile di San Giorgio, e questo vicolo termina hora nella chiesa di San Severo, governata da padri domenicani, che vi hanno un ampio e commodo convento fabricato nell’antichissima casa (che anco ne serba la facciata) dell’antica casa Cuomo, benché altri vogliono che fosse stata prima di Lucretia d’Alagni, amata dal re Alfonso I, ma non è così. Questa era un’antica chiesa sotto il titolo di Santa Maria a Selice, con un hospedale per li poveri, edificata da Pietro Caracciolo, canonico et abbate di San Giorgio, e fu juspatronato della famiglia Caracciola de’ signori conti di Biccari e duchi d’Airola; essendo poscia ruinata, fu [269] concessa ad alcuni devoti del quartiere, quali, havendola riedificata, la dedicorno a San Severo vescovo di Napoli, il corpo del quale sta collocato nella vicina chiesa di San Giorgio. A’ dì 3 di maggio poi dell’anno 1575, coll’assenso di Paolo Tasso, canonico napoletano e rettore beneficiato di detta chiesa, fu conceduta a fra Paolino da Lucca della famiglia Berardina, che ridusse la sua religione nella provincia d’Apruzzo nell’osservanza antica della regola, et ad altri suoi frati compagni. Questi, presone il possesso con ampie elemosine de’ napoletani, e particolarmente con quelle del Marchese d’Umbriatico, in brieve la riedificò di nuovo col disegno di Giovan Battista Conforto, e con questa anco il convento, come si disse. Sta bene officiata e comoda d’argenti et apparati.

Seguitando il camino dalla Piaz[270]za delle Crocelle, la quale prende il nome dalle croci di panno leonato che portano in petto e nel mantello i padri ministri degl’infermi, la chiesa e casa de’ quali, che qui si vedono, hebbero questo principio. Il padre Camillo de Lellis, nato nel castello di Bucchianico della provincia d’Apruzzo, diocesi di Chieti, doppo d’havere emendata la vita, per prima menata tra le mondane scialacquatezze, si ridusse veramente a Dio, e si diede a tanto fervore di spirito che fundò con utile grande del prossimo una congregatione di chierici con instituto et obligo di voto di servire gl’infermi anco appestati; e questa fundatione fu nell’anno 1584, e confirmata et approvata dal pontefice Sisto Quinto a’ 18 di marzo del 1586, et anco da Clemente Ottavo, e privilegiata con molte esentioni. Il dottor Mira, spagnuolo, che fu vescovo di Castell’a Mare di Stabia, grand’amico del padre Camil[271]lo, trattò coll’istesso padre che fundasse in Napoli una casa della sua congregatione, per l’utile che potevano ricevere i poveri infermi et agonizanti dalla carità di quei padri. Fu conchiusa la fundatione, et a’ 28 d’ottobre del 1588 il padre Camillo con altri suoi compagni vennero in Napoli, e per qualche tempo si trattennero in una casa a pigione. Passarono poi nella chiesa di Santa Maria d’Agnone (monasterio dismesso), poi donna Ruberta Carrafa, donna Costanza del Carretto e donna Giulia delle Castella donarono alli padri scudi 15 mila, colli quali comprarono molti palazzi in questo Vico de’ Mandesi, e particolarmente quello della famiglia Galeota, di Mario, molto grande, et ivi fundarono e la loro habitatione e la chiesa dove al presente si vede. Nell’anno poscia 1638 in circa, coll’ajuto de’ complatearii e d’altri devoti, furono buttate giù le case che stavano avvanti la chiesa, e si [272] formò questa piazza.

Questa parte di strada, cioè dal monasterio del Divino Amore fin passata la chiesa di San Giorgio, dicesi la Vicaria Vecchia che dà il titolo all’ottina Orione, e così nominasi perché qui stava il Tribunal della Vicheria, e proprio nell’entrare nel Vico degl’Orimini, che hoggi sono le case della famiglia Campoli; et in una casa stava il tribunale civile, nell’altro criminale, e dall’una all’altra si passava per un ponte, e fino alli 17 di ottobre del 1688 si vedevano l’armi regie aragonesi nella sala, ed anco quello del gran giustitiere di quei tempi; e questo nel detto tempo furno consumate da un fierissimo incendio, che s’eccitò in una bottega di spetiale che vi stava di sotto, per molti barili di terebinto, oglio di lino ed altro bitume. E da questo luogo fu da don Pietro di Toledo trasportata nel Castel di Capuana (come si disse). E qui è d’avisarsi una cu[273]riosità, et è nella strada avvanti del Vicolo degl’Orimini: vi si vede una pietra quatrata; era la base della colonna su la quale si faceva cessione di beni, come sta avvanti de’ Regii Tribunali, e questa base sta sotto terra, come si vidde nell’accomodar la strada.

Tirando avvanti a destra, vedesi la porta minore dell’antica chiesa di San Giorgio Maggiore, benché col tempo ha da essere la porta principale, havendo mutata forma, come si dirà. Questa chiesa per antica traditione si ha che fusse stata edificata nel tempo dell’imperador Costantino il Grande, perché in quei tempi era facile (cred’io) da quel pio e primo imperador christiano ottenere qualche elemosina e sovventione per erigere qualche chiesa. Dalla sua prima fundatione dedicata venne al santo martire Giorgio, poscia fu ella restaurata quan[274]do vi fu trasferito il corpo di san Severo, et in molti antichi istromenti vien chiamata Chiesa Severiana, o per la causa sudetta della translatione del suo corpo dall’antico cimiterio di San Gennaro fuori le Mura. È questa una delle quattro parocchie maggiori della città, e vi è un’antica traditione che il detto santo se ne fusse servito per cattedrale, argomentandolo da una sede vescovale di marmo, che hoggi si serba nella cappella laterale dalla parte dell’Epistola, benché di queste e simili sedi se ne veggano nella chiesa di Santa Maria della Rotonda et altre, come antecedentemente si disse. Questa antica chiesa è abbadiale, et è prebenda da tempo immemorabile annessa ad uno de’ canonicati diaconali della nostra Cattedrale, che dà titolo di abbate di San Giorgio e capo del collegio de’ preti che in essa si vede e che ne’ tempi andati v’amministravano i sa[275]cramenti e la servivano. Hoggi però i detti preti altro in questa non fanno che sepellire coloro che muojono nell’ottina, et ad assistere alla sollenne processione del Corpus Domini, atteso che nel mese di giugno dell’anno 1618 il canonico abbate, edomadarii e confrati, coll’assenso della santa memoria di papa Paolo Quinto e del cardinal Detio Carrafa nostro arcivescovo, concederono agl’esattissimi preti della congregatione de’ Pii Operarii, utilissima in Napoli, poco prima fundata da Carlo Carrafa nobile della piazza di Nilo, adossandosi la congregatione i pesi che havevano da sodisfare gl’edomadarii in detta chiesa.

Nell’anno 1622 ottennero i padri da Roma, coll’assenso dell’arcivescovo, l’amministratione di tutti i sagramenti che haveva il paroco, riserbandosi l’abbate alcune prerogative in segno del diretto dominio, come dall’instromento della [276] concessione si vede.

Era questa chiesa ampia, di struttura alla gotica a tre navi, una maggiore e due minori, che havevano le volte appoggiate sovra colonne di marmo, però di genere diverso, perché ve n’erano di granito e di marmo bianco, d’africano et alcune d’alabastro cotognino antico, molto bello e pretioso. V’era la sua croce, e nella croce una gran necchia dove stava eretto l’altare maggiore dalla parte di questa porta, come sino al presente si vede. Minacciava ruina questa chiesa per l’antichità; circa l’anno 1640 i padri principiarono a riedificarla di nuovo col modello e disegno del cavalier Cosimo Fansaga, e vi fu posta la prima pietra dal cardinale Francesco Buoncompagno nostro arcivescovo, e proprio nel primo pilastro dell’altare maggiore dalla parte dell’Evangelio. Al presente ne sta fatto solo il terzo, dove si celebra, [277] e si sarebbe finita, se non sopraveniva la peste, dalla quale fu quasi disfatta questa così caritativa congregatione, togliendone tutti i sogetti di stima singulare. E con questa riedificatione ne sono state tolte molto belle et antiche memorie, e fra l’altre quella di Roberto principe di Taranto et imperador di Costantinopoli, titolo ottenuto per la madre, che fu Catarina Paliologo, figliuola di Balduino.

In questa chiesa vi era una tavola nella Cappella della famiglia Cotogno, nobile del seggio di Montagna, nella quale stava espresso spiritosamente a cavallo e vestito d’armi San Giorgio che uccideva il drago, e di sotto un ritratto d’uno della detta casa Cotogno in atto d’orare, e per questa tavola s’introdusse un adagio in Napoli, et è che quand’uno vuol far del bizzarro e del bravo, si dice: “Costui va facendo il Giorgio Cotogno”. Ne sono state anco tolte molte [278] belle inscrittioni nella Cappella della famiglia del Monte, di già diroccata, composte dal nostro eruditissimo canonico Pietro Gravina. In questa chiesa, sotto l’altar maggiore, riposa il corpo di san Severo, qua trasportato dall’antiche catacombe extra menia nell’anno 850, e fu poi collocato nell’anno 1310 sotto l’antico altare maggiore che stava dirimpetto a questo, et ultimamente in questo luogo. La testa di questo gran santo, chiusa in una bellissima mezza statua d’argento, si conserva, fra gl’altri santi protettori, nella Cappella del Sagro Tesoro. Vi sono altre reliquie, come di santa Lucia e di san Giorgio, e, per la porta che sta dalla parte dell’Evangelio in detta chiesa, s’entra in un famoso oratorio nel quale in ogni festa vi si congrea agl’esercitii christiani un gran numero di dottori et altri gentil’huomini, e chiamata ne viene la Congregatione de’ Dottori. [279] In questo luogo vi si vedono molte insigni reliquie, collocate in mezze statue ben intagliate di legname dorato, e fra queste una parte del dito et una parte dell’ammanto col quale fu sepellito il santo principe Casimiro, figliuolo del re di Polonia. Questa reliquia fu procurata da Vilna dal divotissimo padre don Domenico Cenatempo de’ Pii Operarii, mio zio, il quale fundò questa congregatione per li giovani studenti, con frutto grande de’ napoletani, e li diede per protettore questo gran santo, che, per mantenere il candore della sua purità, si contentò di morire nel fiore della sua gioventù. Nella festa che vi si celebra di questo santo vi concorre la maggior parte della città, essendo che a cantare le sue lodi vi si portano senza stipendio i più insigni e stimati cantori napoletani, et i primi e più spiritosi ingegni della città fatigano nelle compositioni.

[280] Vi sono anco altri oratorii, come de’ ragazzi e d’artisti. Dove vedesi il coro principiato a dipingere dal nostro Andrea Falcone, v’era l’antico oratorio del Nome di Dio, situato sopra l’antica porta maggiore di detta chiesa, e dalli fratelli di questo venne fundato il Monte de’ Poveri, come nella prima giornata si disse, ma, facendosi questa nuova chiesa, fu trasportato nel luogo già detto. Vi è ancora un’antica estaurita, quale vien governata dagl’habitanti de’ quartieri de’ Cimbri, Fistola e Bajano.

Usciti da questa chiesa, tirando avvanti, a destra vedesi un vicolo anticamente detto degl’Angini, hoggi della Porteria di San Giorgio. Appresso trovansi due altri vicoli. Quello a sinistra, che va su verso la porta minore della Cattedrale, anticamente come fin hoggi, detto veniva de’ Zurli, per questa nobile famiglia del seggio capuano che [281] v’habitava; l’altro, similmente a sinistra, è detto de’ Carboni, per l’antica famiglia di questo nome, nobile di Capuano, hoggi spenta, che v’habitava; quello a destra, anticamente e fin hora, veniva detto di Sant’Arcangelo a Bajano, per una chiesa e monasterio di monache benedettine dedicata a questo Principe degl’Angioli. Questo monasterio era antichissimo, e benché altri vogliano che fusse stato edificato da Carlo Primo in honore dell’arcangelo tutelare della casa regale di Francia, e che questo re donato l’havesse il sangue del santo precursore Battista, che come si disse si conserva nel monasterio di San Gregorio Armeno, con tutto ciò si dee stimare che fusse stata restaurata la chiesa da Carlo, perché vi si trovano molti instromenti nelli quali si fa mentione di questa chiesa e monasterio fino ne’ tempi de’ longobardi e de’ normandi. Questo monasterio, poi, per de[282]gni rispetti, nell’anno 1577 dal zelantissimo Cardinal d’Arezzo arcivescovo di Napoli fu dismesso, precedendo ordine del papa, e le monache con le loro rendite e beni furono divise in diversi monasterii, come di Santa Patritia, di San Gaudioso e di Santa Maria Donnaromita. A San Gregorio, che ne ricevé più dell’altre, fu data la reliquia di san Giovanni Battista. Nell’anno poscia 1607, con breve apostolico, fu conceduta la chiesa ad un napoletano del quartiere, che s’obligò di farvi celebrare ne’ giorni festivi, et il monasterio, essendo stato profanato, serviva d’habitatione a’ laici. Circa gl’anni poi 1650 fu questa chiesa conceduta alli frati italiani dell’ordine della Redentione de’ Cattivi, e questi anco ottennero il di già profanato chiostro, e, rifacendolo, l’hanno reso loro commoda habitatione; et al presente v’habitano; e, minacciando la chiesa ruina, tuttavia [283] procurano di rifarla.

Avvanti di questa chiesa vi è una bella piazza ultimamente fatta. Doppo della peste accaduta nel 1656, moltissime case in questo vico restorno dissabitate, e parte ne principiorno a ruinare. I frati, coll’ajuto de’ complatearii, a basso prezzo le comprorono, e le fecero buttar giù. La parte di questo vico che da questa chiesa va giù, anticamente si diceva di Fistola perché terminava ad una fontana che Fistola si chiamava; hoggi dicesi della Fontana de’ Serpi, perché nell’antica di Fistola vi sta posta una testa di Medusa di marmo con molte serpi per capelli e dalla bocca butta l’acqua. Caminando più avvanti per la strada maestra, s’arriva nel quadrivio di Forcella. Il vico che va su verso il Seggio Capuano anticamente come fin hora chiamavasi delle Zite. Alcuni vogliono per la [284] famiglia Zita che v’habitava, altri han detto che ha preso questo nome da alcune zitelle che in detto vico habitavano, e che, per essere poi vecchie e non maritate, si dicevano le “zite”, e ciò s’ha per volgare traditione. Il vico che sta a destra anticamente detto veniva Pizzofalcone, perché arrivava a sporgere sul mare; hoggi dicesi di Sant’Agrippino o, colla voce volgare corrotta, di Sant’Arpino, per la chiesa che nel principio di questo vico si vede, et anco di Sant’Agostino, mentre che per questo vico si va alla chiesa a questo santo dedicata, della quale nella seguente giornata se ne darà contezza.

Diremo hora della chiesa di Santo Agrippino, che sta nel principio della detta strada. Fu questo santo nostro napoletano, e per sicura traditione della famiglia Sicola, nobile nel sedile di Forcella. Fu assunto a regere la chiesa vescovale di [285] Napoli nell’anno del Signore 120, et havendola santamente retta, se ne volò in cielo, e per la sua intercessione i napoletani riceverno gratie infinite, per lo che fu dichiarato particolar tutelare di questa città. E 14 famiglie nobili della piazza di Forcella, delle quali tre se ne vedono in piedi, cioè la Carmignana, la Rossa e la Muscettola, che hora godono nel sedile di Montagna, l’edificorno la presente chiesa. E si ha per antica traditione che questa fusse stata la casa del santo, dove nacque e dove morì; poscia si vide estaurita governata dai complatearii di questa regione. Nell’anno poscia 1615, con breve di papa Paolo Quinto e con licenza del cardinale Detio Carrafa nostro arcivescovo, fu dagl’estauritarii conceduto l’uso di questa chiesa, con le rendite competenti per lo mantenimento, alli monaci di san Basilio, dalli quali hoggi è servita. [286] In questa chiesa vi è un famosissimo organo, opera del Moro, benché hora mal ridotto. Scrivono alcuni che in questa chiesa fusse stato sepolto il corpo del santo, ma da molti classici scrittori si ricava che fusse stato collocato nell’antiche Catecombe di San Gennaro, come se ne vedono le memorie, e di là trasferito nella Stefania o chiesa di Santa Restituta, e poscia nell’altare maggiore della Cattedrale (come si disse).

Dirimpetto alla porta minore di questa chiesa, dalla parte della strada maestra, si vede un’altra antica chiesa intitolata Santa Maria a Piazza, quale per invecchiata traditione si ha che fusse stata fundata ne’ tempi di Costantino il Grande, et anco sta notato in un marmo collocato nella cappella presso del battisterio, dalla parte dell’Evangelio, dove si legge che il santo pontefice Silvestro havesse in quell’altare celebrato, e lasciatevi mol[287]te indulgenze. Ma stimar si deve che questa non sia l’antica chiesa, perché la struttura è alla moderna. Si potrebbe ben giudicare che, essendo ruinata l’antica chiesa, come se ne son trovate le vestigia dietro di questa, fusse stata in questo luogo trasportata, che era l’antico Seggio di Forcella, incorporato, con quello di Pistaso e de’ Cimbri, al seggio di Montagna, come si veggono dall’antiche imprese che stanno in marmo su la porta di questa chiesa, nella quale vi si conserva un’imagine antichissima del Redentor crocifisso scolpita in legno, per mezzo della quale l’istesso Redentore si degna dispensare gratie infinite a’ napoletani: e questa è tenuta in gran veneratione. È questa chiesa antichissima parocchia et è anco abbadiale, e l’abbadia è prebenda di uno de’ nostri canonici diaconi nella Cattedrale. È anco collegiata di 15 preti et un primicerio. [288] Presso del battisterio vi si vede un antico marmo, nel quale sta una memoria di Buono, consule e duce di Napoli, che morì nell’anno 839, doppo d’haver governata per un anno e mezzo la città. Presso di questa chiesa fundato venne il monasterio di Regina Coeli, come si disse.

Segue a questa chiesa un antico campanile laterico, e per sotto di questo s’entra nel vico anticamente detto Rua de’ Piscicelli (come si disse), hora Vico di Scassacocchi. In questo vico vi è una pulita chiesetta sotto il titolo dell’Immacolata Concettione, eretta da molti honorati preti per ivi congregarsi, impiegandosi in diverse opere di pietà fra di loro. Il vico che sta a destra, dirimpetto a questo, anticamente veniva detto de’ Cupidine, per una nobile famiglia di questo nome che v’habitava; hora dicesi di Sant’Arpino, e qui termina la Regione Forcellense e [289] principia l’Hercolense, o Termense.

E caminando un po’ più avvanti, al quadrivio a destra vedesi un vico anticamente detto Hercolense o d’Hercole: hoggi chiamasi de’ Tarallari, perché qui habitavano coloro che facean taralli, in altra lingua detti ciambelle. Questo vico ha dato da fantasticare e da scrivere a’ nostri scrittori. Alcuni han detto che dicesi Hercolense perché qua capitò e vi dimorò Hercole doppo d’haver domato Cacco, e che anco havesse fatto pascere le sue pecore nel Monte Lucullano (come si dirà), e che per questo questi luoghi n’havessero ritenuto il nome. Dagli accurati scrittori, però, e particolarmente dal nostro diligentissimo Fabio Giordano, seguitato et illustrato dall’erudito Pietro Lasena, si porta che questo luogo dicesi Regione Hercolense perché qui eretto ne stava il Tempio d’Hercole, al quale dedicato veniva il ginnasio, poco da questo tempio distante. Et alcuni, per autenticare il detto del Giordano, hanno scritto che il tempio già detto stava dove è la chiesa di Santa Maria ad Hercole, hora detta Sant’Eligio de’ Ferrari, che è della comunità di questi fabri. Ma questi non han cercato di bene osservarlo, perché questa chiesa di Santa Maria fu ella fundata dalla nobile famiglia d’Hercoles, che godeva nel sedile di Forcella et habitava in questo vico, dal quale per l’habitatione forse preso haveva il nome.

Nel mezzo di questo vico, a sinistra quando si va giù, vi è un vicoletto fin hora detto delle colonne, e fino a’ nostri tempi nella casa *** ve n’erano tre antiche in piedi, quali furono tolte via dal padrone per rifarla, minacciando ruine; et essendo io giovane in età di 20 anni, da un tal vecchio detto Giovan Andrea Filoso in età d’anni 104, mi fu detto che nell’anno 1560 don Parafan de Rivera du[291]ca d’Alcalá, viceré di Napoli, vi fe’ cavare e vi trovò, tra molti tronchi di colonne, una intera di palmi 20, di marmo verde antico, che era di meraviglia per la bellezza, e che simile non se n’era veduta. Nell’anno 1650 alcuni malitiosi tesoristi entrorno in una casa presso delle già dette tre colonne, e di notte vi cavorono, ma essendo stati scoverti e costretti a fuggire, vi lasciarono scoverto un buscio, per lo quale si calava sotterra, come in un atrio; et ivi si vedevano bellissime vestigia di fabrica antica laterica, tramezzata di marmi quadrati, e da un lato vedevasi una volta ben fatta, che tirava verso la chiesa di Santa Maria a Piazza. E questo fu da me osservato, in modo che per me non vi è dubbio che in questo luogo non fusse stato il tempio già detto d’Hercole, addotto dalli scrittori sopradetti, coll’attestati di molti antichi.

Dirimpetto a questo vico, a sini[292]stra se ne vede un altro, anticamente detto Lampadio: hora dicesi della Pace, perché spunta a questa chiesa. Dicesi Lampadio perché, in questo, detto gioco s’adoprava, che era il correre per lo stadio con le lampane accese in mano, e questo gioco era annoverato tra i giochi ginnici, et il ginnasio colle terme era presso di questo vico. Et entrando in detto vico, volgendo a destra, tutto questo comprehensorio principiando da qua, che hora si dice la Giudeca Vecchia, appresso la Strada di San Nicolò a Don Pietro, li portici detti di Caserta, la Piazza de’ Tribunali, e dalla destra dove è la parocchiale detta Santa Maria a Cancello, e tutta quella parte che va detta Sopramuro, che anticamente detta veniva Corte Bagno: tutto veniva detta Regione Termense. Il nostro Giordano scrive che in Napoli v’erano due teatri, uno, come dissimo, nella regione di Montagna, l’altro nella Regione [293] Termense. Lasena dilucida questo passo con ingegnose ponderationi e sode autorità, dicendo che quello della regione della Montagna era il teatro e per le scene e per la musica e per altri spettacoli teatrali, et in questa Regione Termense era il ginnasio, per esercitarsi in diversi giochi ginnici, come di lutta, di corso et altri, come scrivono, da Hercole istituiti; e però il ginnasio ad Hercole dedicato veniva, e che necessariamente presso del ginnasio starve dovevano le terme, per doversi, bagnandosi, ristorare gl’affaticati atleti. E veramente conoscesi chiaro di non havere errato Lasena, perché oltre le antiche vestigia, che di questa machina si vedono nei portici di Caserta, a’ tempi nostri si sono scoverte tante altre vestigia che, se cavar se ne potesse un’intera pianta, Napoli non havrebbe in che invidiare qualsisia più famosa anticaglia.

E per darne qualche notitia, la [294] chiesa di San Nicolò detta a Don Pietro è servita da alcuni preti della congregatione detta della Dottrina Christiana. Coll’occasione di far questi padri un chiostro per loro habitatione, buttarono giù molte case, sotto delle quali vi si sono trovate cose bellissime. Vi si trovò un ampio pavimento composto tutto di picciole petruccie di marmo commesse, un altro ben grande tutto di mattoni di due palmi e mezzo in quadro et alti quattr’oncie in circa, delli quali si sono serviti per lastricare il pavimento del di loro cenacolo. Vi si sono trovate famose muraglia tutte d’opera laterica nelle facciate, ben ampie, et anco d’opera reticolata con molta diligenza lavorate. Dovendosi fare la nuova chiesa per la congregatione delli fratelli del Monte de’ Poveri, si cavò per le fundamenta, e vi si trovorno pezzi di muraglie famosissime, tutte d’opera greca, laterica e reticolata. [295] In alcune altre case presso la chiesa di Santa Maria della Pace similmente si trovarono vestigia di questo teatro. La grotte di San Martino anco è parte di questo. Anni sono il dottor Oratio Giannopoli volendo rifare la sua casa, vi trovò una lunga e ben formata volta, bene architettata et adornata con lavori musivi, che tirava verso del teatro sudetto, et anco in diverse altre case se ne veggono e di continuo se ne trovano nuove vestigia. Né è meraviglia che presso di questo luogo, e proprio dove sta la fontana detta dell’Annuntiata, vi si trovi quell’antico marmo greco e latino nel quale si legge che l’imperador Tito havesse fatto restaurare il ginnasio molto mal ridotto da’ tremoti, e si stima che questo marmo trovato se sia nelle ruine di questo ginnasio e terme, et in tal luogo collocato.

Tirando più avvanti dal vico [296] già detto Hercolense, vedesi a sinistra una salita di mattoni, et al presente chiamasi Salita di Sopra Muro, perché per questa si saliva sopra l’antica muraglia, della quale n’appariscono alcune vestigia, e poco più avvanti stava l’antica Porta Nolana, che poi fu trasportata da Ferdinando Primo nel luogo dove hoggi si vede. Passato il curvo della strada già descritta di Nilo e Forcella, vedesi la bella strada che continua fino alla Porta Nolana, dal nostro volgo detta Novale, e questa hoggi chiamasi Strada dell’Annuntiata, e fu ridotta in così bella forma circa gl’anni 1544 dal viceré don Pietro di Toledo. Si diceva ancora anni sono Strada degl’Organari, perché qui eran quasi tutte le boteghe che lavoravano organi. Principia questa da un quadrivio. Al vico a destra anticamente dicevasi Campignano: hoggi dell’[297]Egittiaca, perché passa per sotto la clausura di questo monasterio a questa santa dedicato, che ha la porta dalla strada maestra dirimpetto alla fontana. E questo monasterio fu dalla religiosissima regina Sancia d’Aragona edificato nell’anno 1342, e l’edificò per le donne che lasciar volevano le laidezze del mondo per darsi a Dio, stante che più capir non ne potevano nel monasterio della Maddalena edificato prima (come si dirà). L’altro a sinistra dicesi anco Vico dell’Annuntiata, e poi fino a’ tempi nostri chiamavasi Strada degl’Intagliatori, perché in questa altre boteghe non v’erano che di scultori in legno, e ve n’erano de valentissimi huomini. Dicesi dell’Annuntiata perché per questo vassi alla porta della chiesa et al campanile, ma prima d’entrarvi vi si vede una cappelletta al muro, e sotto di questa un antico marmo [298] con iscrittione greca e latina in memoria di Tito Vespesiano, che rifece il già ruinato ginnasio dal tremuoto, che dice così:

TITOΣ KAIΣAP OΥEΣΠAΣIANOΣ ΣEBAΣTOΣ
*** KHΣ EΞOΥΣIAΣ TO Ι’
*** OΣ ΥΠATOΣ TO H’ O TEIMΗTΗΣ
*** OΘETΗΣAΣ TO Γ’ ΓΥΜΝΑΣΙΑPXHΣΑΣ
*** ΣΥΜΠΕΣONTA AΠEKATEΣ THΣ EN.
*** VESPASIANVS AUGUSTUS
*** NI F. CONS. VII. CENSOR PP.
*** TIBUS CONLAPSA RESTITUIT.

Quale da Giovan Paulo Vernalione, eruditissimo nella greca lingua, la rifece con aggiungervi le lettere che vi mancano, ed è il seguente:

TITOΣ KAIΣAP VEΣΠAΣIANOΣ ΣEBAΣTOΣ
EK HΣEΞOΥΣIAΣ TO Ι
OΣ ΥΠATOΣ TO H O TEIMΗTΗΣ
OΘETΗΣ AΣ TO Γ ΓΥΜΝΑΣΙΑPXHΣ ΑΣ
ΣΥΜΠΕΣONTA AΠOKATEΣTHΣ EN.

Questo dal Falco va voltato in latino nel seguente modo:

TITUS CÆSAR VESPASIANUS VENERANDUS
EX NONA POTESTATE
QUI EXIMIUS SEPTIES
HONORATUS SEDERAT
CUM TER GYMNASIA INCOAVERAT.
COLLAPSA RESTITUIT.

Ma questa versione non viene perfettamente fatta; leger però si può quel che ne scrive l’accurato nostro Pietro Lasena nel Ginnasio suo al foglio 69, e l’eruditissimo nostro Fabio Giordano, che con [300] l’accoppiamento di queste due lingue in questa iscrittione dimostra che Napoli giamai sia stata né municipio né colonia de’ romani, ma che, se bene havesse dalla romana republica ricevuta l’honoranza del titolo di colonia o di municipio, sempre salve restorno le sue leggi e modo di governo.

Vedesi presso di questo una famosa fontana degna d’esser veduta e per la sua grandezza e per l’abbondanza dell’acqua, colla quale agitate ne vengono poscia due molina per servitio della Casa Santa dell’Annuntiata. Questa fu fatta in tempo del viceré don Pietro di Toledo, e si vide compita a’ 4 di novembre del 1541, e fu opera del nostro Giovanni di Nola. Nel fonte di questa entrano l’acque per più cannoni, ma quel che è maraviglioso è quello scoglio che in mezzo si vede, dal quale esce in tanta abbondanza e con tanto artificio l’acqua che forma come un padiglione, in [301] modo che da’ napoletani questo fonte si chiama la Scapigliata. E vi sta anco adattato un ampio fonte di marmo per dar commodità al publico di lavare i panni lini.

Caminando per il vico già detto dell’Annuntiata, s’arriva alla chiesa che sta a destra. A sinistra però vedesi una bella e nuova facciata di stucco, fatta col disegno di Nicola Falcone, e questa è la chiesa del monasterio dedicato a Santa Maria Maddalena. Fu questo nell’anno 1324 fundato e dotato dalla pia e santa regina Sancia d’Aragona, moglie del re Roberto, per quelle donne che, tocche dallo spirito divino, si disponevano (lasciando le laidezze del mondo) a volere seguire il redentore Giesù Christo. In questo luogo dove hora sta questa chiesa, stava prima la chiesa ed Hospedale della Santissima Annuntiata, e presso di questa la chiesa e [monasterio della Mad[302]dalena*98a]. Ma perché questi, per la gran concorrenza, ampliar si dovevano, la buona regina si fece cedere la chiesa et Hospedale dell’Annuntiata dalli Governatori, et in luogo di questo li concedé il luogo dove hora si vede. Hoggi questo monasterio è delli primi della nostra città, né più in esse si ricevono donne del mondo, ma nobili, e delle prime cittadine della nostra città. Questo era prima governato dai frati minori conventuali. Nell’anno poscia 1568 dal santo pontefice Pio Quinto furono rimossi, et in loro luogo vennero a governarlo i frati osservanti riformati.

Hora veder si può le famosissime chiesa e casa della Santissima Annuntiata, nelle quali più che in ogn’altro luogo della nostra città spicca l’eccessiva pietà de’ napoletani. Hebbe questo gran luogo principii molto deboli, et in questo mo[303]do. Nel tempo di Carlo Secondo, re di Napoli, nella guerra ch’hebbe in Toscana, in una battaglia rimasero prigionieri Nicolò e Giacomo Sconditi, fratelli nobili della piazza di Capuana. Era per sett’anni durata la loro prigionia nel castel di Montecatino, né modo trovavano di libertà. Invocarono la Vergine Santissima, supplicandola d’impetrarla da Dio facendo voto, se liberi nella patria ritornavano, di edificare ad honor suo una chiesa. Miracolosamente nel vegnente giorno ottennero la sospirata gratia, apparendoli l’istessa Vergine con l’angelo Gabriele a consolarli. Giunti liberi e lieti in Napoli nell’anno 1304, in un luogo donatoli da Giacomo Galeota nobile dell’istessa piazza, quale luogo chiamato veniva il Male Passo, essendo che spesso vi si commettevano maleficii, v’edificorno una picciola chiesa in honore della Santissima Vergine dall’angelo Gabriele annuntiata, in [304] conformità dell’apparitione havuta nella loro prigionia; e questa chiesetta fu edificata nel luogo già detto dove hora è la chiesa della Maddalena. Vi fundorono ancora una confraternità, detta de’ Battenti Ripentiti, nella quale vi si ascrissero, oltre quelli del sangue regale, i primi signori e baroni del Regno in quel tempo, in modo che crebbe a tal segno che in brieve vi edificarono un commodissimo hospedale per li poveri infermi. Nell’anno poscia 1324 havendo ricevuto in iscambio (come si disse) dalla regina Sancia e con licenza dell’arcivescovo e del suo capitolo questo suolo di maggior grandezza, e con questo tutto quel denaro che bisognava a fabricare la nuova chiesa et hospedale, diedero fervorosamente principio alla fabrica. Havendo poi la stessa regina ottenuto dal re Roberto suo marito cinque mila oncie d’oro in [305] ogn’anno per poterli impiegare a sua dispositione ad opere di pietà, ne dispose una gran parte al sussidio di questo santo luogo.

Nell’anno poscia 1438 la regina Giovanna la Seconda, vedendo il luogo incapace alla moltitudine degl’infermi che vi concorreva, a sue proprie spese lo riedificò da’ fondamenti nell’ampiezza nella quale si vede, et havendolo ridotto a fine, lo dotò di molti beni stabili, consistenti in case dentro della città et in territorii nella terra di Somma. La regina Margherita di Durazzo, madre del re Ladislao, ottenne dal figliuolo di poter disponere della città di Lesina presso il Monte Gargano a beneficio di qualche chiesa, nonostante che fusse passata ad manus mortuas. S’infermò Margherita, si ridusse agl’estremi, né giovandoli punto humana medicina, ricorse alla divina, invocando la Santissima Vergine che si fusse degnata d’impetrarle la [306] salute, facendo voto, se l’otteneva, d’applicare la città di Lesina a qualche chiesa al suo nome dedicata. Fatto il voto, nella notte seguente l’istessa Vergine li comparve, et assicuratala della salute, accettando l’offerta, l’ordinò che l’havesse applicata all’hospedale eretto sotto la sua protettione. La buona regina, vedendosi di fatto già sana, in adempimento del voto, a’ 6 di novembre del 1411 donò a questo luogo la già detta città che al presente si possiede, ancorché dal tremuoto nel tempo d’Alfonso Primo sia stata da’ fundamenti ruinata.

Vi sono concorsi poi ad arricchire questo luogo e nobili e cittadini con ampie donationi di molti feudi e con opulentissime heredità, in modo che questa santa casa si può stimare la più ricca non solo in Napoli, ma in tutta Italia. Basterà solo dire, per argomentare la sua ricchezza, che alimenta in ogni [307] giorno più di 2500 persone in tante figliuole esposite, che sono arrivate talvolta al numero di 600 dentro del conservatorio, in tanti bambini similmente espositi, che si danno a lattare per la città, pagandosi in ogni mese la nutrice; in tanti infermi, de’ quali sempre l’hospedale abbonda; in tanti sacerdoti e chierici che servono così in questa casa e chiesa come nell’altre delle quali ne ha pensiero; in tanti e tanti ministri così della casa come del banco, et in quelli che servono gl’hospedali; oltre le spese delle doti che si danno alle figliuole esposite che si trovano a maritare, alle fabriche, a tante sovventioni de’ poverelli, alla ricca sopellettile della chiesa, che simile non ha chiesa d’Italia. E per dare qualche notitia del bello e del curioso che qui si vede in particolare, si principiarà dalla chiesa.

Questa circa l’anno 1540 fu riedificata da’ fundamenti col model[308]lo e disegno di Ferdinando Mallio, insigne architetto e matematico napoletano, nella forma che al presente si vede, perché l’antica era incapace al concorso de’ devoti.

La suffitta fu disignata e guidata nell’anno 1564 da Giovan Bernardo Lama. Le dipinture che in essa si vedono, nelle quali sono espresse diverse attioni della Santissima Vergine, sono de’ pennelli di tre nostri eccellentissimi dipintori che a gara dipinsero, e furono Girolamo Imparato, Francesco Curia e Fabritio Santafede. Tutte le dipinture a fresco così della cupula come del coro sono opera di Belisario Corentio. Per le dipinture ad oglio che stanno per le mura della chiesa, prima nel coro vi stavano due belli quadroni: in uno stavano espresse le Nozze di Cana Galilea, nell’altro la Disputa del Signore fra’ dottori, dipinti dal nostro cavalier Massimo; ed alle spalle del maggiore al[309]tare un quadro nel quale stava espressa la Presentazione del fanciullo Giesù al Tempio dalla sua Santa Madre, di Carlo Mellino lorenese. In luogo de questi vi stan collocati i portelli degl’organi, dipinti dal nostro Fabritio Santafede, bene accomodati ai luoghi voti perché quelli che vi stavano sono stati trasportati nelle mura della croce. I quadri che stanno su le volte laterali dell’altar maggiore, ad oglio, dove sta espresso dal corno dell’Evangelio l’Angelo ch’avvisa san Giuseppe a non temere la gravidanza della Vergine, con la Vergine da un lato che sta in atto d’orare; come anche quelli all’incontro dalla parte dell’Epistola, nella quale sta espresso il medemo San Giuseppe avvertito dall’Angelo a fuggir col Bambino Giesù in Egitto, con altre attioni della Vergine in ambi questi lati, son tutti usciti dal famoso pennello di Giovanni Lanfranco. Nelle mura della croce dalla parte [310] dell’Evangelio, nel mezzo vi è un de’ quadri di Massimo che stavano nel coro; del resto, tanto i due laterali a questo quanto quelli che stan fra le fenestre, sono tutti opera del nostro Luca Giordani. Nella parte dell’Epistola il primo è di Carlo Mellino, quel di mezzo di Massimo, che stavano dentro del coro; tutti gl’altri, come nell’altro muro, sono del Giordani. I quadri che stan fra le finestre sono stati dipinti da diversi nostri giovani napoletani, discepoli del Giordano, del Vaccari e di Massimo. Su la porta maggiore, da dentro vi è un bel quadro dove espressa vi sta la Santissima Vergine Annuntiata: egli è opera di Giovan Bernardo Lama. Li due laterali a questi sono del pennello di Santafede, come anco quelli che stanno su l’ingressi minori e laterali della chiesa presso degl’organi, perché è da sapersi che v’erano due famosi organi all’antica con li suoi portelli che li [311] coprivano, dipinti da dentro e da fuori dal Santafede (come si disse): sono stati fatti alla moderna col disegno del cavalier Lazzari, ed intagliati con molta diligenza da Nicolò Schifano. Tutta la chiesa sta nobilmente stuccata e riccamente posta in oro. Le statue di stucco che stanno su le lunette delle cappelle della nave sono opere del nostro Nicolò Vaccari.

Tutto l’altare poi ornato si vede di pretiosissimi marmi con famose colonne che hanno i loro finimenti, come de’ capitelli, base et altri ornamenti, tutti di bronzo dorato, con quel maraviglioso padiglione, che noi diciamo baldacchino, sostenuto da due gran putti similmente di bronzo dorato, opera che fu disignata e guidata dal cavalier Fansaga; et in questo altare v’andò di spesa 68 mila scudi. Il quadro che in detto altare si vede di sopra, dove sta espressa la [312] Santissima Vergine annuntiata dall’Angelo, è egli l’antico dipinto a tempera in tempo della regina Giovanna Seconda, e questo vedesi ornato tutto di pietre azure oltramarine e di bronzi dorati. Di sotto vi è un pezzo di muro nel quale sta dipinto a fresco l’imagine di Sant’Anna colla Vergine sua figliuola et il Bambino Giesù. Questo con gran diligenza fu tagliato dall’antico Palazzo di Trojano Caracciolo principe di Melfi, che stava presso la chiesa di Santo Stefano vicino alla nostra Cattedrale, e fu donato dall’istesso principe a questa chiesa. Questa sagra imagine, perché trattata fusse con maggior veneratione, degnandosi la misericordia divina di far per mezzo di questa infinite gratie a’ bisognosi, e’ vi fu trasportata con molta sollennità e pompa a’ 5 d’ottobre del 1507. In detto altare vi si vede una famosa custodia tutta d’argento, ricca di ben considerate statue: o[313]pera d’Antonio Monte, et in questa vi si spese e nell’argento e ne’ lavori 17 mila scudi. Vi si vedono ancora due grand’Angioli d’argento quanto al naturale, ognuno de’ quali tiene un torciere, opera similmente del Monte, et in quest’opera vi è di spesa 10 mila scudi. Le porte laterali, per le quali si va al coro, sono similmente d’argento, ben lavorato con famose figure: e vi è di spesa da 8000 scudi, dell’istesso autore. I torcieri da terra, i candelieri con gl’altri ornamenti di detto altare, che sono cosa maravigliosa, si ponno vedere nel guardarobba della sacristia, quando qui non si veggono esposti. Nel piano di detto altare vi si vede l’humile sepultura della regina Giovanna Seconda, che morì nell’anno 1435 all’11 di febraro, et in questa s’estinse il dominio de’ francesi nel Regno. E questa per gratitudine è stata restaurata dai [314] Governatori di questa santa casa, dalli quali vi fu posta la seguente epigrafe:

Regijs, ossibus, & memoriæ
Sepulchrum, quod ipsa moriens humi delegerat
Inanes infunere pompas exosa
Reginæ
Pietatem secuti & meritorum
Non immemores OEconomi
Restituendum & exornandum
Curaverunt magnificentius posituri si licuißet
Anno Dom. MDC.vi. mens. Maij.

E l’antico così diceva:

Joannæ Secundæ Hungariæ, Hierusalem, Siciliæ
Dalmatiæ, Croatiæ, Ramæ, Serviæ, Galitiæ
Lodomariæ, Comaniæ, Bulgariæq.
Reginæ
Provinciæ, & Folcalquerij, ac Pedemontis Comitißæ.
Anno Dom.mccccxxxv. die xi. mensis Februarii.

Vi erano in questo piano anco[315]ra due bellissimi sepolcri, uno di Isabella di Cardona, l’altro di Beatrice dell’istessa famiglia, ma perché erano d’impedimento all’officiare in detto altare, le statue di dette signore, che stavano giacenti sopra di detti sepolcri, sono state attaccate colle loro memorie nel pilastro dalla parte che guarda l’altare, e queste due statue sono opera di Girolamo Santacroce.

Nella cappella laterale dalla parte dell’Evangelio vedesi la Cappella della famiglia Galeota, et in essa un bellissimo sepolcro di Vincenzo Galeota principe di Squillace, colla sua statua giacente sopra, opera dell’istesso Santacroce.

Usciti da detta cappella si vedono nel muro della croce altre cappelle minori di diverse antiche famiglie, ornate di marmo con belle tavole dipinte da’ nostri antichi artefici napoletani. Nel pilastro dell’arco maggiore si vede la sepultura di Martio [316] Carrafa duca di Madaloni, che a questa chiesa lasciò cento mila scudi, colla sua statua in piedi e con due statue di due Virtù ne’ lati, opere di Pietro Bernini. Sotto dell’organo vi è una tavola in un altaretto, nel quale sta espresso l’Eterno Padre col Verbo. Questa va stimata opera di Rafael d’Urbino, ma alcuni vogliono che questa sia una copia ben fatta, e che l’originale sia stato trasportato altrove. Nella cappella che segue a quella dell’organo, il quadro dove sta espresso il Santissimo Natale del Signore, con molte belle figure, è opera di Giovan Vincenzo Forlì nostro napoletano. Nella cappella che fu della famiglia Cornara, hoggi della nobile famiglia di Somma, vi è una bellissima tavola dove sta espressa al vivo la Vergine addolorata col suo morto Figliuolo in seno, et altre figure, opera di Fabritio Santafede. [317] Il sepolcro d’Alfonso di Somma colla sua statua al naturale è opera di Michel’Angelo Naccarini.

Passando poi dalla parte dell’Epistola, dalla porta nella Cappella della famiglia Sanmarco si vede la tavola ove sta espresso Christo Signor Nostro che porta la croce su le spalle nel Calvario, con molte figure confacenti al misterio, la quale fu dipinta dall’istesso Giovan Bernardo.

Da qui si passa alla sacristia. Il quadro che sta su la porta di questa, dove con molt’arte sta espresso Christo crocifisso con molte figure al misterio necessarie, fu dipinto da Leonardo Guelfo detto il Pistoja, e questo quadro stava prima dietro l’altar maggiore, dove si vedeva quello di Carlo Lorenese. Si può vedere la sacristia, che forse simile osservar non se ne può, non dico in Napoli, ma per l’Italia. Sta ella tutta dipinta a fresco da Belisario Corentio, e vedesi ador[318]nata di famosi intagli in legname di finissima noce, et historiata tutta a bassorilievo coll’espressione della Vita et attioni della Santissima Vergine, con i loro fondi tutti posti in oro: opera maravigliosa del nostro Giovanni di Nola, che prima di scolpire in marmo scolpiva in legno (come si disse).

In detta sacristia si può vedere il maraviglioso guardarobba degl’argenti, che al certo simile non se ne vede in Italia. Si fa conto che in questo ve ne siano ducento mila scudi, senza la spesa de’ lavori. Vi è un paleotto che costò 12 mila scudi. Vi sono vasi, candelieri, fiori e carte di gloria per tutte le cappelle; gl’argenti poi dell’altare maggiore danno in eccesso e nel peso e ne’ lavori. Vi sono lampane stravagantissime, e fra queste, due: una che è un grosso cereo sostenuto in aria da tre putti al naturale, l’altra alla forma d’un galeone che tiene le sue [319] lampane nelle cime degl’alberi, e questa lampana fu fatta fare dal Duca d’Ossuni viceré di Napoli in questo modo.

Questa santa casa viene governata da cinque governatori che han titolo di maestri. Uno di questi è nobile, e si eligge dalla piazza di Capuana; gl’altri quattro sono popolari, e de’ primi cittadini, che si eliggono dal regimento del populo nel convento di Sant’Agostino. Un certo giurisconsulto, desideroso d’esser maestro di questa casa, spendere voleva con l’elettori una grossa somma per ottenere il magisterio. Saputosi dal Duca Viceré, s’adoprò di farglielo ottenere, et ottenutolo, volle che il denaro promesso speso l’havesse a questa lampana, e volle che fusse stata a forma d’un famoso galeone che egli haveva nel porto, quale poi è stato adornato con diversi ornamenti d’argento dalla santa casa medesima. Vi sono lampane e cali[320]ci d’oro et altre galanterie degne d’esser vedute, come si può vedere da ogni signor forastiero nella stanza che chiamata viene il Tesoro, che veramente dir si può tesoro d’argento e d’oro. Si può anco osservare il guardarobba degl’apparati, nel quale si conservano ricchissime coltre di broccati ricci sopra ricci, e di famosi ricami, e fra questi vedesi un piviale che prima fu l’ammanto d’Alfonso Primo d’Aragona.

Da questa sacristia si può passare a vedere il Sagro Tesoro, nel quale si conservano reliquie insigni, e sono un pezzo del legno della Croce; una spina della corona del Signore; il dito di san Giovanni Battista, col quale additò l’Agnello di Dio; otto corpi di santi, e sono de’ santi Primiano, Firmiano, Tellurio, Alesandro martiri, sant’Orsola vergine e martire, sant’Eunomio, san Sabino vescovi, e san Pascasio abbate. Questi [321] furono trovati tra le ruine della città di Lesina, quando ruinò per lo tremuoto accaduto in tempo del re Alfonso Primo. Vi è la testa di santa Barbara vergine e martire e due corpi interi de’ Santi Innocenti, quali furono portati da monsù Leutrecco quando egli venne alla conquista del Regno; ma essendo egli morto, pervennero in potere di Girolamo Pellegrino, e da questo donati furono a questa chiesa. Vi sono anco altre reliquie, e fra queste, due, una di sant’Anna, l’altra di san Filippo Neri, quale, benché picciole, stan collocate in due famose mezze statue d’argento. La volta di questo sagro tesoro sta dipinta a fresco dal Corentio.

Il pergamo è molto bello e, passato questo, nel muro della croce, e proprio nella Cappella de’ Pisani, vi si vede una bellissima tavola di marmo dove a basso rilievo si vede espressa la Deposizione del Nostro Redentore colla Vergine et altre [322] figure che piangono, opera di Girolamo Santacroce. Seguono appresso di questa altre cappelle ornate di bianco marmo, dove si vedono molte vaghe tavole dipinte da diversi nostri dipintori napoletani.

Nella cappella poi laterale all’altare maggiore, dalla parte dell’Epistola, della famiglia Caracciola de’ conti d’Oppido, vi è un famosissimo sepolcro di Giovan Antonio Caracciolo colla sua statua al naturale, et altre, come anco la tavola di marmo che sta nell’altare, nella quale si vede a mezzo rilievo la Schiodatione del Nostro Redentore dalla croce, tutto opera, e delle maravigliose, del nostro Santacroce.

Negl’altaretti di marmo che stanno ne’ pilastri della nave maggiore, le statue che vi si veggono sono opere tutte de’ nostri artefici, e fra questi del nostro Giovanni di Nola, e più di ognuna s’ammira la statua [323] di San Girolamo, presso la sacristia.

Si può calare poi dalla scala che sta sotto dell’organo dalla parte dell’Evangelio, e calando a destra vedesi un’altra scala per la quale si cala ad un lucido soccorpo o confessione, che serve anco per cimiterio. Questo è tanto ampio quanto è la croce, coro e cappelle laterali dell’altare maggiore, e sta eretto tutto sopra molte colonne. Have un’altra scala simile a questa, dall’altra calata al dirimpetto.

Si passa nel cortile, dove si vede una bella fontana perenne, et i marmi di questa erano del fonte che stava nel famoso giardino d’Alfonso Secondo, all’hora duca di Calabria, figliuolo di Ferdinando Primo, e questo giardino stava presso di questa santa casa, hoggi ridotto in habitationi, chiamandosi la Duchesca dal detto Duca di Calabria, che l’arricchì di molte e molte delitie. In questo cortile vedesi un bel [324] frontispitio dipinto. Questo è l’ingresso al conservatorio delle figliuole esposite, che s’han da collocare, e di quelle che, non volendo saper del mondo, si son date a servire Dio da monache. E nell’anno 1684 è stato eretto nel cortile minore presso di questo un luogo colla sua chiesa per quelle monache che viver vogliono da riformate, e con istrettezza di regola. Dissi nel cortile minore, che da questo per una grotte o supportico vi si passa, che anticamente veniva detto della Pace, per una chiesa della quale intera vi si vede la porta fundata dal re Alfonso Primo d’Aragona, e la diede in governo alli padri di Santa Maria della Mercede; poi, essendo stata conceduta alla santa casa, è stata diroccata per farvi fabricare sopra la Cappella del Tesoro, e quel che vi è rimasto di sotto serve per la scuola di grammatica agli chierici della chiesa et ad altri espositi che vogliono imparare lettere.

Tornando nel cortile maggiore, a lato di detta fontana vedesi il luogo del publico banco da detta santa casa eretto, e l’ampia scala, per la quale vassi all’hospedale, che si può dire il più bello che sia in Europa, e per l’ampiezza e per la situatione, essendo che può mantenere da 2000 infermi, et io posso dire d’havervene veduto in certo tempo da 1200. In questo si ricevono febricitanti e feriti, né vi manca commodità che si possa o sappia desiderare, e sono l’infermi con ogni puntualità et attentione serviti, et oltre di questo mantengono nel borgo della Montagnola un altro hospedale per li convalescenti, et in ogn’anno a suo tempo ne aprono un altro nella città di Pozzuoli per dare i remedii a’ poverelli delle stufe e de’ bagni. Dentro di questo cortile medesimo vi sono tutte le officine e per ammassare il pane e per lo macello. Vi è anco una farmacopea, che è [326] delle belle e ricche di Napoli, non mancando in essa quanto si può dar di rimedio.

Fa porta a questo cortile la torre delle campane o campanile. Questo è forse dell’ammirabili non dico solo nella città, ma fuori, sì per l’altezza come per la struttura. Fu principiato nell’aprile dell’anno 1524, e terminato nell’anno 1569 a spese di Trojano di Somma nobile della piazza di Capuana, e l’architetto fu il Moro. Usciti da questo, tirando su a sinistra, vedesi la ruota dove si pongono le creature esposite, e su la porta vedesi una bell’inscrittione in marmo composta non molti anni sono dal padre abbate don Celestino Guicciardini monaco celestino.

Si vedono due strade, una che tira su verso la Porta Capuana, molto ampia e bella, e chiamasi la Duchesca, perché questo luogo anticamente era il famoso giardino [327] (come si disse) del Duca di Calabria Alfonso. E stava fuori della città, et essendo stato da Ferdinando, il padre, ampliata poi la città colle nuove mura, restò dentro. Pervenne poscia questo luogo in potere di don Pietro di Toledo marchese di Villafranca, quale lo diede a censo a diversi cittadini per edificarvi habitationi; et in breve vi si vide eretto un bellissimo quartiere, che era de’ più populati della nostra città, ma dall’horrenda peste ultimamente accaduta nell’anno 1656 rimase quasi disabitato. E dentro di questa contrada vi è una pulitissima chiesa e casa delli padri detti delle Scole Pie, dalli quali con ogni carità si tengono le scuole aperte per i poverelli che vogliono imparare lettere.

La strada poscia a dritta, che va giù al Mercato, dicesi di San Crispino e di San Pietro ad Aram, perché in essa, a sinistra, vedesi la chiesa e con[328]servatorio fundati nell’anno 1533 dalla comunità de’ Calzolai, e la dedicarono a San Crispino e Crispiniano. L’opera che sta nella cona dell’altare maggiore, dove si vedono molte statue di santi di legname, sono di mano di Giovanni di Nola, essendo giovine.

Presso di questa similmente a sinistra vedesi l’antichissima chiesa di San Pietro ad Aram, dal volgo detta ad Ara. Si dice ad Aram, se per certissima traditione si ha, e per attestati in marmo che su la porta si leggono, che in questo luogo fusse stato eretto il primo altare dove il principe degl’apostoli san Pietro, prima di collocare la sua sede in Roma, vi celebrò la santa messa, e che qui ridusse alla fede di Giesù Christo, e fu la prima nostra christiana, santa Candida: et a questa diede il bastone, che lo portasse all’infermo Asprenate suo parente, come si disse quando si vidde questo bastone che si conserva nella Cattedrale. In[329]fine in questo luogo, che in quei tempi era molto fuori della città, hebbe il principio la cattolica fede, e prevedendo forse l’Apostolo che questa città esser doveva la metropoli del Regno, volle che la prima stata fusse a riceverla. Dicono alcuni scrittori che in questo luogo era un tempio dedicato ad Apollo. Io veramente non so da chi sia stato ricavato, perché qui non si trova ombra di vestigio di tempio, e su questo vi sono stato con qualche attentione quando la chiesa ultimamente è stata rifatta di nuovo. Oltre che questo era un luogo paludoso, e l’aria non in tutto perfetta, di più non è credibile che san Pietro, giunto in Napoli, non sapendo de’ costumi e riti de’ napoletani, appena giunto in esso havesse dovuto celebrare la santa messa in un profano tempio d’idoli. Inoltre il Tempio d’Apollo (come si disse) stava nel luogo dove hora è la Cattedrale. [330] A me piace di seguitare coloro che scrivono essere stato questo luogo un podere di sant’Aspreno, che dall’istesso Apostolo fu creato primo nostro vescovo, e che poi v’havesse egli edificata una chiesa, havendosi per antica traditione che vi fussero stati posti i primi fondamenti coll’intervento di san Pietro, quando tornò la seconda volta in Napoli. Fu poi rifatta con architettura alla gotica alla forma della chiesa di Santa Restituta, e fu arricchita di molti poderi e rendite da Constantino il Grande, dai re normandi et angioini. Viene da più secoli amministrata da’ canonici regolari lateranensi, che vivono sotto la regola del di loro fundatore sant’Agostino. È stata poi da’ fondamenti ultimamente riedificata dall’istessi padri alla moderna, come si vede, col modello e disegno di Pietro di Marino, architetto napoletano, e del Mozzetti.

[331] Nell’atrio di questa chiesa vi si vede un altare, et è quello a punto dove celebrò san Pietro, e vi sono infinite indulgenze concesseli da diversi sommi pontefici, e particolarmente da san Silvestro e da Clemente Quarto, che vi celebrorono, come si può legere dalle memorie in marmo che in dett’atrio si conservano.

Nel coro vi si vedono cinque belli quadri. Quello di mezzo è opera d’Antonio Solario detto il Zingaro, i due laterali a questo, nelli quali stanno espresse alcune attioni del Santo Apostolo, sono opera di Massimo Stantioni, i due altri sono del nostro Luca Giordano. Nella cappella di candidi marmi, che è la prima dal corno dell’Evangelio, che è gentilitia della famiglia Ricca, vi è una tavola nella quale sta espressa la Vergine col suo Putto in seno, e con altri santi al lato, e di sopra il Salvator del Mondo con alcuni angeli. Si tro[332]va notato in molti de’ nostri scrittori, et anco in un inventario antico del monasterio, che sia stata dipinta da Leonardo da Vingi, illustre dipintore fiorentino, ma havendolo io fatto osservare dagl’esperti, si stima copia; et è probabile, essendo accaduto a molti buoni quadri che stavano in Napoli, quali sono stati cambiati, e l’originali trasportati altrove. Vi era dentro del coro un bellissimo quadro bislungo dove stava espresso il Nostro Redentore che orava nell’horto, opera molto degna del nostro Silvestro Buono, ma adesso, per incuria di chi pensiero haveva della chiesa, è ruinato, non essendovi rimasto che l’angelo confortatore et una parte degl’apostoli che dormono, e sta nella sacristia, e proprio nella stanza per la quale si va al coro. Nella penultima cappella, che è di bianco marmo, dalla parte dell’Evangelio, vi è una tavola di mez[333]zo rilievo, espressa la Vergine col suo Bambino Giesù in seno, e sotto il Purgatorio con altri ornamenti: opera di Giovanni di Nola, come anco dell’istesso la statua di San Michele Arcangelo del Monte Gargano nella cappella che siegue.

Dalla parte dell’Epistola, e proprio su la porta che va alla sacristia, vedesi una tavola gratiosa nella quale sta espressa la Vergine col suo putto in seno, tenero, vago e ben disignato, e questa fu dipinta da ducento e più anni da Protasio di Crivelli milanese, del quale ve ne sono altre tavole, che per essere di quei tempi sono ragionevolmente fatte.

In questa chiesa per antica traditione si ha che vi riposi il corpo di santa Candida, e prima di farsi questa nuova chiesa vi era un certo buco con una cancellatina di ferro, e fin dall’età mia più tenera mi si diceva che questo era il luogo dove santa Candida ritirar si soleva ad [334] orare, e che qui stava sepolta, ma nel rifarsi la nuova chiesa da’ fondamenti non si è trovata cosa alcuna. Vi si trovarono bensì certi antichi marmi et inscrittioni, alcune delle quali eran greche, però da chi non cura del pretioso che può dar l’antico per erudire del passato l’età presente, non si è curato di farli riconoscere prima di servirsene ad altr’uso.

Il monasterio poi è molto bello e comodo, ha due chiostri, uno di travertini di piperni, l’altro colonnato di colonne di marmo di Carrara, ma alquanto diformato dal suo primo disegno, a cagione di porre a giuste misure d’architettura la nuova chiesa. Vi sono ancora belle e perenni fontane, che sono di gran delitie nell’estate. Ha bellissimi giardini et horti che producono saporite verdure, in modo che si suol dire per Napoli, quando si veggono belli cauli et altre sorti di simili [335] herbe, “par che queste siano state fatte nell’horto di San Pietro”.

Nel cortile poi di detta chiesa vi è un’altra chiesa della comunità de’ Calzettari di lana, dedicata al glorioso Sant’Andrea, e fu edificata nell’anno 1576. Vi era un bellissimo quadro, opera di Giovan Bernando Lama, ma per essere stato ritoccato ha perduto molto, in modo che non par più quello di prima.

Usciti da questa chiesa, et arrivati nel quadrivio che si forma dalla famosa Strada dell’Annuntiata, o Nolana, et a dritta vedesi la porta detta similmente Nolana (come dissimo), qua trasportata dal re Ferdinando Primo nell’ampliatione che principiò nell’anno 1484.

Tirando a dritto, principia la strada detta del Lavinaro, e dicesi Lavinaro se avvanti dell’ampliatione già detta per questo luogo, che stava fuor delle mura, correvano i torrenti dell’acque piovane (che da noi si chiamano lave) alla [336] Marina presso del Carmine, e quest’acque venivano dalle colline di Capo di Monte, della Montagnola et altre; poi, essendo stato questo luogo chiuso dentro le mura, fu a quest’acque dato altro camino per l’Arenaccia, che termina al Ponte della Maddalena, come a suo luogo si vedrà. Altri vogliono che si dichi Lavinaro perché qui anticamente si lavavano i panni lini, ma se fusse ciò vero, prenderebbe la sua voce da’ lavatoi, che dal nostro volgo diconsi lavaturi, e dalla lava comunemente prendesi il nome di lavinaro. Lo vogliono comprobare con i lavatoi che stanno nella fontana detta di sopra, ma questo luogo di Lavinaro si trova assai prima che questa fontana fusse stata eretta.

Questa strada terminava alla chiesa del Carmine prima della peste dell’anno 1656, che in questa strada principiò, e proprio in un vicolo a sinistra detto del Pero, o Vico [337] Rotto. Era così populata che quasi appena vi si poteva spuntare: non vi era vicolo che pieno non fusse di donne che filavano lane. Da questa strada ancora principiarono i tumulti popolari nell’anno 1647. Hora sta così spopulata che molte case sono andate giù.

Entrati in questa strada, e girando a destra, vedesi la strada detta di Santa Maria della Scala, perché va a terminare alla chiesa di Santa Maria della Scala, la fundatione della quale variamente va scritta, ma la vera si è che i cittadini di Scala, città nella costa d’Amalfi, di continuo e con molti privilegi negotiavano in Napoli, et havevano in questo luogo, che stava sotto le mura della città, l’habitatione; e vi edificarono questa chiesa col titolo della loro patria intitolandola Santa Maria di Scala, ponendovi l’istesse insegne della sudetta città, che è una scala, come se ne vedono molte.

Poscia essendo mancati i scalesi, fu [338] governata da quattro maestri, che in ogn’anno si eliggono da quattro vicoli che li stanno d’intorno, et in detta chiesa vi sono le cappelle delle comunità, come degl’ortolani e botecari di verdure, di quei che vendono frutta, degl’organari et altre. Sta hora dal cardinale Alfonso Gesualdo ridotta in parocchia, e vedesi nobilmente abbellita.

I vicoli a sinistra, che tirano verso del Mercato, si dicono l’Horto del Conte, perché qui prima della penultima ampliatione era un giardino et horto di Diomede Carrafa conte di Madaloni. E questo territorio fu dato a censo a diversi napoletani per edificarvi le loro habitationi, et i vicoli che da questa strada derivano ebbero diversi nomi. Il primo dicesi di Santa Maria della Gratia, per una chiesa con questo titolo dedicata alla Vergine, il secondo dicesi de’ Parrettari, e corrottamente Barrettari, perché qui anticamente si facevano quelle pallette che si [339] scagliano dalle balistre, quando non era in tanto uso lo scoppio. Il vico passata la chiesa dicesi dell’Olmo perché qui stava piantato un olmo, sotto del quale i vecchi mercadanti di seta di quel tempo, de’ quali questo luogo abbondava, d’estate vi si trattenevano all’ombra per ricreatione. Fu detto ancora anticamente Piazza de’ Pacchiarotti, come in molti antichi instromenti si legge, et hebbe questo nome da molte genti de’ contadi vicini che v’habitavano, che dal nostro volgo si chiamano pacchiani.

Vedesi a destra la chiesa di Santa Maria Egittiaca, fundata doppo quella della Maddalena (come si disse) dalla regina Sancia nell’anno 1342, per essere incapace quella della Maddalena. Era questa una picciola chiesa intitolata Santa Maria Cerleto. Il luogo dicevasi Campagnano, e vi erano l’habitationi de’ Bonifacii, famiglia nobile ma hora estinta nel[340]la piazza di Portanova, et in queste case fu fabricato il monasterio. Non vi si ricevevano altre donne che quelle che lasciare volevano le laidezze del mondo. Hora le monache sono della conspicua nobiltà della nostra città.

Questa chiesa nell’anno 1684 è stata abbellita e ristaurata col disegno et assistenza di Dionisio Lazari nella forma che si vede, aprendovi la piazza presente col buttar giù molte case che l’impedivano. In questa chiesa vi sono molte reliquie, e fra l’altre l’intera testa, con due ossi delle coscie et un dito, di santa Maria Egittiaca. La tavola che in essa si vede, in cui espressa ne sta la Regina de’ Cieli col suo Figliuolo che le dorme in seno, con altre figure di sotto, è opera di Pietro Frangione. La tela nella quale si vede dipinta Sant’Anna, la Vergine, con altre figure, è opera delle più famose che [341] siano uscite dal pennello del nostro Luca Giordani.

Presso di questa chiesa ve ne è un’altra dedicata al santo pontefice Bonifacio V, edificata e dotata dalla famiglia Bonifacia già detta. Fu conceduta a’ scrivani criminali dove s’adunavano; hora è congregatione d’honoratissimi preti detti di San Bonifacio.

A sinistra vi è un vico detto de’ Cangiani per alcune famiglie di questo cognome che anticamente v’habbitavano; l’altro appresso è detto de’ Ferrari perché in esso v’era l’arte di coloro che facevan serrature.

E qui terminar si può questa giornata, avvertendo che, se riesce lunga a chi vuol osservare il tutto, si può dividere.

Il fine

[1]

Giornata VI.

Ove cominciano i borghi. La quale si principiarà dall’Imbrecciata della Trinità de’ Monti, si salirà al Monte di Sant’Ermo, nella chiesa di San Martino et nel castello, indi si calerà per la parte d’Antignano, e tirando per la Via della Cesarea, girando per la Strada di Giesù Maria, si potranno ridurre in casa per la Porta Medina, detta prima il Pertuso.

Osservata la città, si devono anco osservare i borghi, che, benché la maggior parte siano nuovi, con tutto ciò scarsi non sono di curiosità, e per l’amenità de’ siti, e la per quantità de’ tempii, e per lo numero delle habita[2]tioni, in modo che ognuno di questi servir potrebbe per una città. Principiaremo hoggi da questo per la parte del Castello di Sant’Erasmo, che volgarmente vien detto di Sant’Ermo, benché questa giornata habbia parte della città, essendo che nell’ultima ampliatione, fatta in tempo dell’imperator Carlo Quinto, fu dichiarato il castello sudetto, per quella parte che guarda la città, alla città annesso; hor dunque si principierà dalla chiesa e casa del Monte de’ Poveri Vergognosi, di dove hieri principiossi l’altra.

Passata questa chiesa, vedesi a destra un bellissimo stradone che va su, communemente detto l’Imbrecciata di Montecalvario, et altri la dicono Strada della Concettione dell’Italiane, perché ad ambe queste chiese per questa strada arrivar si può; per questa cala la famosa processione de’ Battaglini [3] nella notte del Sabato Santo, come si disse.

Vedesi, dall’una parte e dall’altra arricchita di nobili e commodi palazzi; a sinistra, verso la parte che va su, vedesi la chiesa dedicata alla Santissima Concettione, del collegio che anco s’honora di questo nome, nel quale collocate si veggono donzelle de’ nostri primi cittadini. Questa chiesa e collegio hebbero la loro fundatione in questo modo: eretta la confraternità dell’Immacolata Concettione nel chiostro di Monte Calvario, come nell’antecedente giornata si disse, don Giovanni d’Avalos, governatore di detta confraternità, con altri cavalieri e gentil’huomini stabilirono di fundare un collegio per quelle donzelle che havevano desiderio di consecrare la loro verginità al Signore, ma per mancamento di mezzi effettuar non lo potevano; che però, fatta una tassa fra di loro, [4] comprarono questo luogo, che in quel tempo era l’hospedale della convalescenza di quell’infermi che uscivano curati nella Nuntiata, e lo comprorno dalla detta Santa Casa, che instituì l’altro nel borgo della Montagnuola, come si vedrà; ed a questa vendita la Santa Casa condescese dal veder questa parte di città essersi in un subito populata, atteso che alli convalescenti è di bisogno d’un’aria amena ma sopra tutto solitaria; ed accomodatelo in forma di clausura nell’anno 1589, con assenso del sommo pontefice e dell’arcivescovo, vi chiusero da 50 donzelle, essendosi per l’avenire mantenuto con molto decoro ed esemplarità, benché hoggi habbia mutato instituto, non ammettendovi donzella se non con la dote. Da questo luogo si può andar più su, ed arrivare per commode strade alla chiesa di Santa Lucia et all’altre dimostrate nell’antecedente [5] giornata, ed in dette strade vi si veggono bellissime habitationi e comodi palazzi, che hanno vedute dilitiosissime e della città e del mare, non mancando ad ogni casa il suo giardinetto delitioso.

[5] Ma per andare alla chiesa di San Martino ed al Castello di Sant’Ermo hassi a girare a destra, nel famoso stradone detto della Trinità.

È d’avvertirsi che vi sono più strade per le quali a questi luochi s’arriva: vi è questa, per la quale si può caminare solo a cavallo, et dicesi della Montagna, che è la più brieve; ve ne è un’altra, detta di Santa Maria del Monte, che ha principio dalla Porta Medina, e per questa andar vi si può a cavallo et in galesso; l’altra è dalla parte detta del Vomero, per la quale andar vi si può in carozza fino alla porta della chiesa di San Martino. Suppongo che la giornata si principii nel mattino, e però stimo che non riuscirà grieve far questo poco d’eser[6]citio a piedi o a cavallo ad andar, consigliandoli per questa strada le bellissime vedute che s’hanno.

Come dissi, vedesi a destra un bellissimo stradone di comoda salita che va a terminare alla chiesa della Trinità, e sembra un nobile teatro per le belle e continuate habitationi palatiate che vi si veggono dall’un fianco e dall’altro, con dritti e delitiosi vichi dall’una mano e dall’altra, che da diverse altre contrade in questa vengono a spuntare. A destra vi si vede una pulita chiesetta col titolo di Santa Maria del Consiglio, con un conservatorio fundato dagli notarii, che noi chiamamo scrivani, del Sacro Consiglio per le loro figliole che vogliono vivere nel celibato, e vien governato dalli stessi notari o scrivani.

Più su dall’istessa parte vi si vede un’altra chiesa e conservatorio col titolo di Santa Maria del Soccorso. Questo venne fundato nell’[7]anno 1602 da Carlo Carafa – che poi fundatore fu della congregatione de’ padri pii operari –, da Vincenzo Concubletto e da Giovan Pietro Bruno sacerdoti, e lo fundorno per quelle donne che lasciar volevano il peccato; hoggi ha mutato instituto, perché non vi si ricevono per monache se non donzelle con la dote, e si dà ricovero ad honorate donne che passano qualche discordia con mariti o con parenti.

Questa parte di strada dicesi de’ Magnacavalli, perché Hortentio Magnacavallo, d’antica nobiltà nella città di Como, nell’anno 1594 compratosi il luogo, vi venne ad habitare, e vi edificò un bello palazzo che hoggi si possiede dal conte Francesco Magnacavallo, successore del primo Hortentio; si dice anco di Regal Valle, per essere territorio dell’abbadia intitolata Santa Maria di Regal Valle; si disse in altro tempo Branca[8]leoni, perché questa famiglia l’hebbe in concessione dal’abbate di detta abadia.

Dalla man sinistra, presso del detto palazzo de’ Magnacavalli, vedesi la chiesa parocchiale sotto il titolo di Santa Maria d’Ognibene, qua poi trasportata circa gl’anni 1630, e ridotta in questa forma da monsignor Carafa vescovo di Tricarico, nipote del cardinal Pier Luigi, che ne era benefiziato; e da questa chiesa per più strade si può salire a quella di Santa Lucia.

Più su vi è la chiesa e convento de’ frati servi della Madonna, detti serviti, col titolo di Santa Maria d’Ognibene. Fu questa da’ detti frati fundata colle limosime di tre buoni napoletani, e fra questi Manilio Caputo; il luogo dove questa chiesa si vede detto veniva il Belvedere, e veramente è tale, perché dalla porta maggiore di questa chiesa si vede la strada tutta di Nilo, o Nido, che è una [9] delle tre antiche maggiori di Napoli, lunga 1128 passi. Nella sua fundatione la chiesa era picciola; fu poscia, circa l’anno 1640, rifatta di nuovo nella forma che si vede da Giovan Cola Cocco, cittadino in quei tempi di molto maneggio.

Presso di questa si vede la quanto bella tanto nobile e ricca chiesa dedicata alla Santissima Trinità col suo monasterio, che si stima per pulizia e bellezza non poter cedere a chiese e monasterio d’Italia.

Riconosce questa la sua fundatione da suor Eufrosina de Silva, nobile della piazza di Capuana; questa essendo di già stata destinata sposa ad Emilio Caracciolo conte di Biccari, figliuolo di Ferrante duca d’Airola, mentre che educanda ne stava nel monasterio di San Girolamo, tocca da Dio che la desiderava sua sposa, sprezzò le nozze terrene per le celesti, di sua mano [10] si recise le chiome, si vestì dell’habito francescano et si chiuse con perpetuo voto nel monasterio di San Girolamo, dove osservantemente visse per alcuni anni; ma infervorata nell’amore del suo sposo Giesù Christo, cercò di servirlo in maggiore strettezza di regola, onde con Ippolita Caracciola, figliola del già detto Ferrante duca d’Airola, stabilirno di fundare un altro monasterio colla strettissima regola del terz’ordine. Si compiacque il Signore Iddio doppo molte fatighe di adempire un così santo desiderio, et con breve della santa memoria di Clemente VIII e licenza dell’arcivescovo Alfonso Gesualdo fundorno un monasterio nella Strada di Costantinopoli sotto il titolo della Santissima Trinità; fra tanto comprorno un famoso palazzo della casa San Felice, nobile nel seggio di Montagna, del quale appariscono le vestigia e l’inscittione della par[11]te della strada che va giù verso Nilo, che haveva ampi giardini; qui diedero principio alla nuova fabrica del convento, che essendo ridotta ad una comoda habitatione di clausura nell’anno 1608, vi si trasferirno con altre monache nobili ricevute nel primo luogo di Costantinopoli.

Havuta una comoda habitatione, ordinò la buona suor Eufrosina che la chiesa, che servir doveva per casa di Dio, fusse assai più bella, più commoda e più ricca al possibile dell’habitatione delle suore, che però fe’ chiamare il padre don Francesco Grimaldi teatino, et instantemente lo priegò che havesse dovuto fare un disegno di tempio, il più bello et il più vago che fusse potuto uscire dalle sue mani. Il buon padre li promise di fare quanto sapeva, che però nell’anno 1620 col disegno del detto padre si principiò la fabrica di questa chiesa, e perché volle suor [12] Eufrosina che l’altare maggiore fusse rimasto situato in oriente, come era costume dell’antiche chiese, convenne che l’adito o porta fosse situata in occidente, e che il choro delle monache fusse stato situato sovra del cappellone dalla parte dell’Evangelio.

Non vi è dubio che se la porta fusse stata piantata a mezzo giorno, in aspetto di così bella strada, non si sarebbe veduta cosa più bella; cercorno le suore d’abellirlo con li più ricchi ornamenti che in quei tempi poteva dare l’arte, così nella dipintura come nell’architettura e nella scultura. E per dar qualche notitia delle parti, have questa chiesa un atrio spatioso e bello, con una scalinata e ripari di finissimi marmi, e nel principio di detta scala vi sono due statue che figurano due facchini in atto di mantenere l’appoggiatoi: il tutto fu opera delle più belle ch’habbia fatto il cavalier Fansaga, che si[13]milmente disignò l’atrio e la scala sudetta. Il pavimento di detto atrio è tutto di marmo, e la volta tutta dipinta a fresco con un San Francesco in estasi nel mezzo, e negl’angoli molte belle historiette che contengono alcune attioni de santi francescani, opera di Giovan Berardino Siciliano; va chiuso quest’atrio da ben lavorati cancelli di ferro ornati d’ottone.

S’entra per questo nell’allegrissima chiesa disignata alla greca nella croce equilatera, e poco varia dalla Cappella del Tesoro, essendo d’un istesso architetto. Vi è una bellissima cupola, il pavimento è di finissimi marmi mischi, così ben commessi e lavorati che più bello non se ne vede in altra chiesa di Napoli: e questo fu fatto colla guida e disegno del cavaliere Fansaga, ed è il primo che si fece vedere in questa forma in Napoli, e forse in Italia.

Quanto in questa chiesa si ve[14]de dipinto a fresco, così nella cupola come nelle volte, tutto è opera del nostro buono Giovan Berardino; l’altare maggiore è tutto di finissimi marmi commessi, con due colonne; la tavola che in esso si vede, dove sta espressa la Santissima Trinità con un paradiso populato de santi e d’angeli, è opera delle più fatigate del nostro Fabritio Santafede; vi è anco una custodia che né più bella né più ricca si può desiderare, e communemente da’ forastieri viene stimata la più pretiosa che sia in Europa: questa è tutta di pietre azurre oltramarine, di diaspri, d’agate et altre pietre di conto ligate con rame dorato; le statue che vi stan d’intorno sono d’argento, modellate da Rafaele il Fiamengo; sta poi tutta adornata di gemme ligate in oro: vi si vedono in numero grande diamanti di conto, grosse perle, zaffiri, smeraldi, rubini. Per conto fatto stimasi la spesa ascen[15]derà 60.000 mila scudi, oltre d’alcune gioie donate da quelle signore che in questo sacro loco han preso l’habito.

Nelle cappelle laterali di detto altare, la tela dove sta espresso il San Girolamo è opera delle belle del nostro Giuseppe Rivera; l’altra tela è opera del nostro Giovan Battista Caracciolo detto Giovan Battistello.

Nel cappellone dalla parte dell’Evangelio, similmente de marmi adornato, il quadro che in esso si vede, dove stanno espresse la Vergine, san Giuseppe et il putto Giesù nel mezzo, con san Brunone ed un altro santo in atto d’adorarli, fu dipinto dallo Spagnoletto. I due quadri nelle due cappelle laterali sono di Giovan Berardino e del Giovan Battistello.

Nell’altro cappellone dalla parte dell’Epistola, similmente adornato de marmi come il primo, vedesi un quadro nel quale sta es[16]presso l’Eterno Padre col suo Figliolo crocifisso avanti, opera di Giovan Berardino; i due degl’altari laterali: la tela dove sta espresso il Santissimo Rosario è opera di Luigi Siciliano, l’altro d’un nostro napoletano.

Nel pilastro maggiore che sta dalla parte dell’Epistola di detto cappellone vi è un vaghissimo pergamo di marmo, nobilmente disignato dal cavaliere Fansaga. Su la porta vi è un maestoso organo adornato tutto d’intagli in legname dorati, opera del nostro Pompeo di Giovanni.

Di sotto a quest’organo, ne’ lati della porta, vi sono due bellissimi quadri: in uno sta espresso l’ingresso del Signore in Gierusalem, nell’altro quando va a visitare i padri del Limbo, opere comunemente stimate del Palma Vecchio, e questi due quadri furono donati a queste osservantissime suore della santa memoria di Leone Undeci[17]mo; in fine, in questa chiesa non vi è cosa che non habbia del maraviglioso.

Per goder poi d’un paradiso in terra è di bisogno di vederla apparata et adornata ne’ giorni festivi della Santissima Trinità, di san Francesco et altri. Vi si veggono famosissimi ricami, paleotti tutti ricamati di perle, quantità di vasi d’argento e candelieri per tutte le cappelle, e compartiti con polizie indicibili. La sacristia poi in detti giorni si rende così curiosa che si potrebbe venire da lontano a vederla, perché le suore vi espongono apparati per le messe che non han pari; vi si veggono un numero grande de càmisci con merletti grandi, e bianchi e d’oro e di ricami, così fini e nobilmente lavorati che sono di stupore. V’espongono ancora molte galanterie, come calici tutti d’oro, di cristallo di monte e d’argento, singularmente lavorati; anco un os[18]tensorio per esponere la sacra eucharistia, con i suoi raggi tutti tempestati di rubini, il giro dove si colloca la sacra ostia, tutti di grossi diamanti e perle et altre gemme, che viene valutato 6.500 scudi; oltre de’ pretiosi quadri che adornano le mura.

Se poi veder si potesse il chiostro, al certo che si direbbe non esservi più bello e dilettoso in tutta l’Europa, et io vo darne qualche notitia. S’entra in questo per una porta che sta presso l’atrio della chiesa, e nel piano di detta chiesa vi è l’infermaria, per mantenerla separata da’ dormitorii. Si sale poi per molte scale alli dormitorii sudetti, bensì credo che cagioni qualche danno alle suore per la lontananza di venire da questi al choro di notte; i corridori sono così larghi e lucidi che simili non ho io veduto in altri monasterii, in modo che anzi si potrebbono chiamare [19] gran saloni che dormitorii; ognuno di questi nel suo capo have il suo altare nobilmente adornato.

Ogni camera poi have le sue vedute, e di mare e di campagna e di quasi tutta la città; in dette camere vi si vede una pulitissima povertà, perché altro non vi è che un letticciuolo lato tre palmi, alto un palmo e mezzo da terra, un tavolinetto, un’immagine del Crocifisso di legno, due o tre figure in carta e da tre sediole di paglia. Il candore poi dà in eccesso, e per una mistura data dal Cavaliere appariscono lucide come marmo ben polito. Il cenacolo o refettorio è capace per 150 monache, e tutto dipinto di sacre historie, nelle quali vi sono pransi e cene come quella del Signore con li apostoli, delle Nozze di Cana Galilea, il pranso nella casa del Fariseo dove andò la Madalena, il pranso apprestato dagl’angeli al Signore [20] doppo il digiuno quaresimale, il pranso dato alle turbe con li pani e pesci moltiplicati, la cena con gl’apostoli in Emaus, quando con i suoi discepoli mangiò doppo resuscitato, et altre, tutte opere fatigatissime del nostro Giovan Berardino Siciliano.

Presso di questo vi è una bizzarra chiesetta che più nobile non la saprei desiderare, essendo un modello della grande, dove le suore vanno doppo del pranso a fare l’attione di gratie; e questa sta sempre adornatissima. Da questa si passa ad un famoso loggione per la ricreatione, quando dal tempo li va permesso, e qui vi sono bellissime fontane artificiali con giochi d’acque e pischiere; vi sono ameni giardini e boschetti. In fine, loco più nobile et ameno di questo non credo che possa trovarsi in terra.

Vivono quest’ottime suore vita in comune, e con una inemendabile osservanza.